Alexis de Tocqueville, Uno Sguardo Realista e Dubbioso sulla Sicilia / di Emanuele GentileCome gli inglesi favorirono il Grand Tour La rivista Annali di Architettura del Centro Internazionale di Architettura Andrea Palladio ha dedicato un’interessante articolo a cura di Gigliola Pagano de Divitiis (Università della Calabria) su come la presenza degli inglesi in Italia abbia agevolato dal lato economico e logistico il Grand Tour effettuato dai propri connazionali.Nel 1593 Fynes Moryson valutava che un viaggio in Europa venisse a costare 60 sterline l’anno per il viaggiatore e altre 20 per il suo accompagnatore; circa cinquanta anni più tardi John Evelyn ritevenva che fossero necessarie 300 sterline annue, oltre alle spese per il compagno di viaggio; nel XVII secolo il governo inglese forniva borse di studio di 300 sterline l’anno per far perfezionare letterati e artisti all’estero. Con il passare del tempo il costo del Grand Tour aumentò e nella seconda metà del Settecento, quando cioè il viaggio d’istruzione era maggiormente diffuso, la sua durata si ridusse a meno di un anno.[1]Per affrontare un viaggio lungo gli aristocratici e ricchi signori inglesi dovevano innanzi tutto rifornirsi di ingenti somme di denaro, soprattutto quando si muovevano con seguiti molto numerosi.Infatti, nel 1782, William Beckford, figlio di un ricchissimo mercante londinese, nel suo secondo viaggio verso l’Italia si fece accompagnare, oltre che dal pittore J.R. Cozens, dal reverendo John Lettice, suo tutore e factotum, dal medico Dr. Projectus Errhardt, dal clavicembalista John Burton e da un seguito così numeroso che ad Augusta fu scambiato per l’imperatore d’Austria.[2]Un viaggio rappresentava un autentico investimento finanziario in quanto le spese si moltiplicavano con una rapidità folgorante.Alle spese di viaggio bisognava aggiungere quelle di soggiorno, vitto e divertimento: alberghi, fitti di appartamenti, vino, teatri, concerti, feste, passeggiate in carrozza, belle dame e gite. Son rimasti famosi i lussuosi ricevimenti organizzati a Roma nell’estate del 1726 da Henry Somerset, III duca di Beaufort,…Anche gli acquisti incidevano notevolmente. Vi erano nuove case da costruire, restaurare ed arredare.[3]Pertanto, lungo il percorso del viaggio si acquistavano gioielli e cammei, carte da musica, disegni, mobili, marmi, bronzi e quant’altro avesse potuto contribuire ad arredare le magioni inglese con sfarzo, gusto e ricchezza.Come facevano i nobili nordici a pagare tutte queste spese? Avrebbero potuto partire carichi di monete d’oro e d’argento, ma erano ingombranti e pesanti e potevano essere derubati dai briganti lungo i percorsi terrestri o dai pirati lungo le rotte marittime. Inoltre, esisteva il problema del cambio; solo nella penisola italiana, infatti, c’era bisogno di un’infinita varietà di monete…I viaggi dei gentiluomini nordici verso sud, con tutto quello che implicavano, non avrebbero avuto luogo, o comunque non avrebbero avuto l’importanza e le conseguenze che hanno avuto, se alla base non ci fosse stata una solida rete di trasporti, costituita da imbarcazioni, che fornivano collegamenti marittimi stabili e sicuri fra il Nord Europa e il Mediterraneo, e commerciale, intessuta da uno scambio di merci che generava flussi di contanti pregiati tra le diverse piazze, Navi, carichi e capitali erano gestiti dai mercanti inglesi che risiedevano nei principali porti mediterranei e che, oltre a gestire i propri scambi, erano gli agenti di grandi ditte commerciali di Londra, Amsterdam e delle più importanti piazze europee.[4]Nel corso del XVI secolo le navi inglesi ritornarono definitivamente nel Mediterraneo e riuscirono a soppiantare le marinerie italiche nella gestione dei collegamenti con il Mare del Nord. I commercianti inglesi non svolgevano solo commercio di beni, ma avevano l’essenziale funzione di agenti di cambio e, pertanto, erano proprio loro a sviluppare tutte quelle azioni tese a dare appoggio economico e logistico ai viaggiatori inglesi.Il
centro strategico della struttura commerciale inglese e olandese nel
Mediterraneo era il porto franco di Livorno, fondato
da Cosimo de’ Medici a metà del Cinquecento. Sede di
una comunità mercantile internazionale composta oltre che da italiani, inglesi,
olandesi e francesi, anche da ebrei, marrani, portoghesi, greci, turchi, mori,
persiani e armeni, il porto toscano vide una
progressiva espansione delle sue attività fino al volgere del XVIII secolo…Nel
porto toscano, le merci potevano facilmente essere trasformate in valuta
pregiata o servire da garanzia per ottenere crediti
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Alexis de Tocqueville, Uno Sguardo Realista e Dubbioso sulla Sicilia, di Emanuele Gentile
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