I carnefici

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I carnefici

Nella letteratura sull’Olocausto la rappresentazione dei carnefici si configura estremamente differenziata: da una parte si passa dalla semplice descrizione al dettagliato ritratto psicologico, dall’altra, dal totale disinteresse letterario all’impiego di uno o più carnefici come figure centrali dell’opera.

Chi sono in generale i carnefici? La letteratura ha cercato di rispondere a questa domanda tramite una vasta gamma di rappresentazioni, vere o fittizie, ma che comunque rispecchiano sempre la realtà. Ci sono i piccoli nazisti, che non hanno agito, ma sono comunque diventati “carnefici” attraverso un simpatizzante silenzio, e i veri e propri realizzatori del massacro, assassini senza scrupoli che talvolta si divertivano a torturare le loro vittime per poi ucciderle barbaramente. I romanzi o le biografie di questi personaggi, più o meno conosciuti, presentano oltre ai protagonisti, anche figure di carnefici che rivestono ruoli secondari, ma che hanno contribuito ugualmente alla realizzazione del macabro progetto messo in atto dai nazionalsocialisti. [1]

Il romanzo di Hilsenrath, oltre alla figura del protagonista, mette in scena altri carnefici, che, con l’azione o il silenzio, hanno non solo contribuito al genocidio, ma anche alla trasformazione di un ragazzo innocente, amico degli ebrei, in uno spietato, cinico assassino, che si diverte a contare il numero delle sue vittime come se fosse un gioco. Questi carnefici secondari non rappresentano dei veri e propri individui spietati e senza scrupoli, ma ne sono piuttosto la caricatura, proprio come le vittime, essi hanno il compito di agevolare la trasformazione del protagonista. Ogni carnefice, infatti, contribuisce alla formazione di quel bagaglio di idee che porteranno alla realizzazione della figura di un boia pressoché perfetto. L’ambiente piccolo borghese in cui cresce Max Schulz è infatti particolarmente predisposto ad accogliere l’ideologia nazionalsocialista. Hitler sfruttava l’appartenenza alla piccola borghesia per attirare a sé un numero sempre maggiore di proseliti, che vedevano in lui la guida ideale:

“In einer der wichtigsten, wenn auch nicht unumstrittenen Teorie der Faschismusforschung steht vor allem der Mittelstand – und innerhalb dessen speziell die Kleinbürger – im Blickpunkt. Dabei wird betont, daß diese Menschen bersonders anfällig für die nazionalsocialistische Ideologie gewesen seien. Erklärungsversuche dieser Art gehören zu einer Sozialpsychologie des Faschismus. [...] Hitler selbst aus klein bürgerlichem Mileu stammend, habe diese Herkunft nie verleugnet, sondern im Gegenteil sogar betont. Dies habe zu einer besonderen Identifikation der Schicht des unteren Mittelstand geführt [...]” [2]

Hilsenrath esaspera questa identificazione del piccolo borghese nell’immagine di Hitler tramite il personaggio di Anton Slavitzki, violento patrigno di Max, che, se non fosse per quel nome dal suono polacco, sarebbe la perfetta controfigura del Führer:

“»Weißt du, Anton« sagte meine Mutter. »Du siehst dem „Führer“ wirklich jeden Tag ein bißchen ähnlicher – mit deiner Stirnlocke und dem Schnurrbart. [...]« »Nur mit deinem Namen stimmt was nicht«, sagte meine Mutter. »Den müßtest du ändern.« »Auf den Namen kommt’s nicht an«, sagte Slavitzki: »sondern auf das Blut und auf die Gesinnung. Ich bin doch kein verdammter Pole.«” [3]

A parte Slavitzki tutti i personaggi che appartengono al gruppo dei carnefici portano “urdeutschen Namen”: Max Schulz, primo fra tutti, Siegfried von Salzstange, Frau Holle, Lagerkommandant Hans Müller, la contessa Kriemhield von Hohenhausen, ecc. [4] Il personaggio di Anton Slavitzki è di fondamentale importanza, poiché determina, attraverso ripetuti atti di violenza nei confronti di Max, le scelte future di quest’ultimo. Slavitzki è moralmente e sessualmente deviato, infatti, Max lo identifica subito tramite due insolite caratteristiche: è un violentatore di bambini e il suo organo genitale è sproporzionatamente lungo:

“Anton Slavitzki, der Kinderschänder [...] war von Beruf Friseur, genauso wie Chaim Finkelstein, bloß so guter. [...] Slavitzki? Ein langer, dürrer Kerl war das, mit bushigen Augenbraunen, Säuferaugen, die ein bißchen schielten, öligem Haar, knockiger Nase und einem Schwanz, so lang, daß er ihm, laut Gerüchten, bis übers Knie hing... und das, so sagten die Leute, wäre auch der Grund, warum Slavitzki denselben stets mit einem Gummiband am Schenkel festgeschnürt hätte.” [5]

Un irreparabile danno al cervello, conseguenza della violenza subita, e l’influsso di un ambiente familiare fortemente antisemita, faranno scaturire il lato peggiore della personalità di Max.

Ancor prima del malaugurato incontro con Slavitzki la situazione familiare di Max non permetteva sicuramente un ottimo futuro; la madre Minna Schulz può, infatti, essere considerata un carnefice silenzioso. Con il silenzio e l’inerzia Minna acconsente alle sevizie che Slavitzki ripetutamente infligge a Max, e fa crescere il suo unico figlio in un ambiente poco formativo:

“Meine Mutter hatte oft Besuch: Soldaten, Urlauber nehme ich an, nette Burschen, die mir oft was zusteckten Anfangs kamen sie vereinzelt, dann in ganzen Rudeln. Ich mußte wache stehen...vor der Schlafzimmertür... oder im Wartezimmer, wie jetzt unser Wohnzimmer hieß Zettelchen mit Nummern an die schlangestehenden Leute verteilen. Ich erteilte auch Auskünfte, erzählte den neuen, die meine Mutter noch nicht gesehen hatten, daß sie lange, dünne Storchbeine hatte, aber dafür einen fetten Hintern, daß sie zwei Tonnen wog, ein freundliches Wesen und sogar Sinn für Kinderspiele hatte, sogar bellen konnte wie Satan, der Hund von nebenan, daß sie auf allen Vierenkriechen und sich im Kreise drehen Konnte.” [6]

L’antisemitismo di Minna è molto più discreto di quello di Slavitzki, infatti la donna frequenta senza problemi i Finkelstein e non si oppone all’amicizia del figlio con il giovane Itzig. Con l’ascesa di Hitler al potere anche Minna inizia però a subire l’influenza negativa degli ideali nazionalsocialisti e Max decide di passare dalle SA alle SS grazie alla sollecitazione materna:

“Ich war überzeugt, daß meine Mutter recht behalten und daß Deutschlands Zukunft auf keinen Fall braun, sondern schwarz sein würrde. Ich wählte also schwarz.” [7]

Dopo la famiglia solitamente è la scuola che si occupa dell’educazione dei ragazzi, proprio a scuola, infatti, Max incontra un altro potenziale carnefice: il professore di tedesco Siegfried von Salzstange, attraverso i cui insegnamenti, il ragazzo apprende alcuni precetti del partito, che ancora ignora. Grazie all’aiuto del professore Max riesce inoltre ad entrare nelle SS senza grosse difficoltà. Il personaggio di Siegfried von Salzstange appare solo brevemente nel corso del romanzo e il narratore non ne fornisce un’accurata descrizione, risulta però alquanto interessante il motivo della sua presenza sull’Ölberg, dove tutti gli sventurati di Wieshalle e dintorni si sono recati per assistere alla predica di Hitler. Il professore spiega al suo giovane, inesperto alunno che tutti coloro che sono accorsi sull’Ölberg per essere illuminati dalle curative parole del Führer sono poveri disgraziati, che hanno bisogno di essere aiutati e salvati dal “santo guaritore”: per questo Max non riesce a comprendere il motivo della partecipazione al “prodigioso” evento di un uomo fortunato, sano, intelligente e apparentemente senza problemi come Salzstange:

“»Er« hat gesagt: »Lasset die Kindlein zu mir kommen!« Aber die Kindlein – das sind die Verhinderten – die, die gerne mal möchten und nicht können. »Und warum sind Sie hier, Herr von Salzstange?« fragte ich, »Ihnen geht’s doch gut?« »Wegen des Pfeffers«, sagte Siegfried von Salzstange. »Was für Pfeffer?« fragte ich. »Den mir meine Frau jeden Morgen in den Kaffee schüttet«, sagte Siegfried von Salzstange wehleidig. »Und warum tut sie das?« »Das weiß ich nicht«, sagte Siegfried von Salzstange, »Und können Sie da nichts dagegen machen?« »Gar nichts«, sagte Siegfried von Salzstange traurig, »gar nichts kann ich machen. Ich schnarche nachts, um mich zu rächen, aber das nützt nichts.« »Das ist schlimm«, sagte ich. »Und dabei dachte ich immer – wenn einer so ne prima Stellung hat wie Sie, da kann er doch lachen.«” [8]

Siegfried von Salzstange, uomo apparentemente felice, ha bisogno dei poteri terapeutici di Hitler per liberarsi del fastidioso problema che il pepe, versatogli nel caffè dalla moglie, gli provoca. Per questo assurdo motivo il professore è entrato nelle SS e segue con orgoglio i falsi ideali propugnati dai nazisti, credendo erroneamente che un giorno, magari dopo aver assassinato qualche migliaio di ebrei, potrà liberarsi dal suo insopportabile, serio problema. L’assurdità di questa situazione mostra chiaramente le intenzioni satiriche dell’autore. Attraverso il personaggio di Siegfried von Salzstange, Hilsenrath ridicolizza tutti coloro che si sono lasciati ingenuamente condizionare dalle parole incantatrici di Hitler e che si sono fatti ingannare da false speranze, che promettevano un futuro di pace, fortuna e prosperità per tutta la Germania. Hilsenrath critica, da una parte, il nazismo, dall’altra la piccola borghesia che si è lasciata facilmente abbindolare da esso.

L’unico personaggio appartenente al gruppo dei carnefici, che Max incontra dopo aver già assunto la nuova identità, è la contessa Kriemhild von Hohenhausen. Le figure finora analizzate sono quelle che hanno spinto il protagonista alla sua prima metamorfosi: da vittima innocente a feroce, disumano carnefice; la contessa, invece, provoca in Max, già passato attraverso la fase del carnefice che diventa vittima, un’ulteriore trasformazione: da un ebreo poco convinto della propria identità ad un ebreo che difende tenacemente il popolo cui è fiero di appartenere. La contessa Kriemhild è già stata introdotta nel capitolo precedentemente, dove appariva come un’opportunista disposta a nascondere il proprio antisemitismo pur di trarre vantaggio dal suo rapporto, anche fisico, con Itzig Finkelstein (Max Schulz), divenuto un noto affarista del mercato nero. Dopo il loro primo incontro sessuale la contessa getta la maschera e mostra i pregiudizi che fino a quel momento aveva cercato di soffocare:

“»Herr Finkelstein«, sagte sie, »Sie sind ein Barbar.« »Ich bin Jude«, sagte ich. »Kein Barbar.« »Um so schlimmer«, sagte die Gräfin. »Was du ererbt von deinen Väter hast, erwirb es, um es zu besitzen. Ein Goethezitat. Merken Sie sich das!« »Aber unser Erbe ist doch die Bibel«, sagte ich. [...] Es ist klar: Die Gräfin ist eine Antisemitin! In der Letzten Zeit hat sie die Maske ganz fallen lassen.” [9]

Di giorno in giorno le osservazioni della contessa diventano sempre più pesanti e sempre più insostenibili per Max, il quale è convinto che la nobile Kriemhild non lo abbia ancora chiamato “Saujud”, e mai lo farà, solamente perché è una parola troppo volgare, che non appartiene al suo aristocratico vocabolario:

“Das Wort »Saujud« wird mir vielmehr verkleidet serviert. Aber immerhin: deutlich genug. Sogar die Dienstboten haben es bemerkt. Die nehmen sich nicht mal die Mühe, verstohlen hinter meinem Rücken zu grinsen. Die grinsen ganz offen in meiner Gegenwart. Gestern sagte die Gräfin: »Man sagt, daß ihr Juden mal ein stolzes Volk wart. Ein Volk von Ackerbauern, Schriftgelehrten und Soldaten. Angeblich hat kein Volk so sehr um seine Freiheit gekämpft, wie das Volk der Juden. Was ist bloß aus euch geworden?« Ich sagte: »Wie meinen Sie das?« »Wie ich das meine«, sagte die Gräfin höhnisch. »Ich meine daß die Geschichte gelogen hat. Sonst hätte euer Volk nicht so ein Exemplar wie Sie, Herr Finkelstein, hervorbringen können. Haben Sie mal in den Spiegel geschaut?« [10]

Con la sua ultima affermazione, la contessa critica l’attività di Max nel mercato nero, in quanto non fa altro che fomentare l’antisemitismo ancora radicato nelle menti dei tedeschi, inoltre fa osservazioni sul suo aspetto fisico, soffermandosi sugli stereotipi coniati dai nazisti per schernire gli ebrei e di conseguenza è come se li schernisse tutti. Per cercare di tenere testa alle false accuse della contessa e difendere se stesso e il suo popolo Max inizia a studiare la storia ebraica, che, insieme agli insegnamenti religiosi e linguistici dei Finkelstein, faciliteranno la sua metamorfosi e quindi il suo inserimento nella comunità israeliana in Palestina. I suoi sforzi, però, sono inutili poiché la contessa continua a burlarsi dei suoi occhi sporgenti, del suo naso storto, dei suoi piedi piatti, della sua professione di commerciante nel mercato nero e lo chiama “minderwertigen Juden” [11] , quasi a voler ricordare al lettore, e allo stesso Max, che egli, in realtà non è un vero ebreo, ma è solo la brutta copia dei peggiori. La figura della contessa Kriemhild von Hohenhausen è il mezzo attraverso il quale Max decide come dovrà muoversi, ma serve soprattutto al lettore per constatare con amarezza che anche dopo la guerra e dopo il disumano assassino di milioni di ebrei ci sono tedeschi che ancora non si rendono conto chi sia il vero barbaro travestito da nobiluomo (in questo caso nobildonna). Con questo personaggio si chiude la panoramica dei carnefici o potenziali carnefici che, insieme a Max, costituiscono lo scenario del romanzo. Dall’osservazione di queste poche figure è possibile comprenderne la funzione all’interno della narrazione, ma anche quella che supera le vicende del romanzo stesso, in quanto legate al contesto storico-sociale dell’epoca, con un chiaro intento critico da parte dell’autore.


[1] C. Brecheisen, op. cit., 161.

[2] Ivi, pp. 163-164.

[3] E. Hilsenratn, Der Nazi & derFriseur, op. cit., p. 40.

[4] Cfr. M. Kreutz, op. cit., p. 133.

[5] E. Hilsenrath, Der Nazi & der Friseur, op. cit., p. 17.

[6] Ivi, p. 24. Non bisogna inoltre dimenticare, che fin dalla prima pagina della sua autobiografia, Max informa il lettore della incerta identità paterna dovuta all’attività della madre.

[7] Ivi, p. 58.

[8] Ivi, p. 46.

[9] Ivi, p. 191.

[10] Ivi, p. 192.

[11] Cfr. ivi, p. 193.

 



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