Appendici: Riccardo Orioles e l'esperienza
a "I Siciliani"
Riccardo Orioles scrive per "L'antimafia
difficile" questo bilancio dell'esperienza de "I
Siciliani"
Parlare d'esperienza ha il tono d'epitaffio,
cioè è stata una cosa bella, simpatica, coraggiosa,
che adesso si può mettere tra due fogli d'album e
si conserva. La storia de "I Siciliani" è
una storia segnata da profonde immaturità e da grandi
debolezze perché eravamo pochi, periferici, e ci
siamo trovati d'improvviso in un mare che non era il nostro,
con problemi specifici locali, Catania non è Palermo,
da certi punti di vista è peggio, da altri punti
di vista la vicenda è stata come un'esplorazione
che vale per tutti, io credo, e che ha acquisito un salto
di qualità in quella che sono stufo di chiamare "lotta
alla mafia", che in effetti è anche lotta per
qualche cosa. E per che cosa? Ecco, la storia de "I
Siciliani" è anche in questa domanda: qual è
l'alternativa, l'obiettivo, storico, non arbitrario, non
derivante dalla fantasia o dagli studi elitari di qualcuno,
ma scaturente dalla struttura della società, qual
è questo salto di qualità che, in qualche
modo, può servire da orizzonte? Naturalmente noi
non abbiamo mai teorizzato, il tempo delle teorizzazioni
è passato, e abbiamo cercato di mettere insieme tanti
frammenti, tanti pezzetti d'esperienza, tante ipotesi, verificate
o no. La telefonata è arrivata alle dieci e mezza...
La prima fotografia è quella di una sera come tutte
le altre, con Antonio che ha appena finito il suo pezzo
e si alza per andarsene via, con Claudio che stava dicendo
qualche cosa a Gariddi, il nostro tipografo, quarant'anni
di lavoro a Milano, è tornato perché vleva
fare qualche cosa in Sicilia, Lillo che, come al solito,
stava litigando con l'altro tipografo, Miki stava facendo
ancora un pezzo, il direttore arrivato verso le otto, contento
perché aveva strappato dal sindaco di un paesino
un contratto pubblicitario di 150.000 mila lire, che avrebbero
pagato nel giro di un mese: eravamo felici, perché,
facendo i conti, quel mese avremmo avuto quasi un milione
e duecentomila di pubblicità: in quel momento è
entrata la fotografina, che era stata col direttore a fare
queste foto pubblicitarie, io ero scocciato, non ricordo
per quale ragione, c'era Antonio sulla porta, "bé,
mi dai un passaggio, bé, ci vediamo domani allora".
La telefonata è arrivata alle dieci e mezza e, in
questi casi, credo che la fisiologia dell'uomo ha le sue
salvezze. Alle undici mi trovavo a fare il mio mestiere
di cronista di nera e a rilevare distanze, a ricostruire
traiettorie, a parlare con i testimoni, con i poliziotti;
alle undici e un quarto eravamo all'ospedale, molto calmi,
c'erano delle cose da fare. Verso l'una e mezzo di notte
ci siamo ritrovati, senza darci alcuna indicazione, perché
la sede ci faceva paura, a casa di una nostra amica, la
signora Roccuzzo, che ha preparato il tè per tutti,
e abbiamo cominciato a discutere: Lillo Venezia ha detto
che bisognava uscire subito, qualcun altro ha detto "in
sede alla redazione domani alle nove e mezzo". L'indomani
trovammo davanti alla sede un gruppo di ragazzi di un paesino
in cui c'era la nostra tipografia, che erano venuti per
fare la "diffusione militante" del giornale. Non
sentivo da parecchi anni la parola "militante",
ero venuto a Catania per fare il borghese, non il rivoluzionario,
e alcuni meccanismi mentali si sono messi in moto: fare
il giornale, organizzare la "diffusione militante",
mandare subito qualcuno nelle scuole dove i ragazzi avevano
le assemblee in corso. Un'altra fotografia potrebbe essere
la nostra Cettina, che era a capo delle fotocompositrici,
che piangeva e teneva in mano la strisciata delle fotocomposizioni,
e così via. Uscita l'edizione straordinaria ci siamo
trovati in una situazione che avevamo previsto molte volte,
contro la quale nessuno di noi aveva la minima obiezione
sul piano dell'analisi, è ovvio, siamo a Catania,
c'è la mafia, la mafia ammazza, può capitare
anche a noi, è nelle regole del gioco. Però
una cosa è pensarlo, altra cosa è trovarsi
improvvisamente immersi in una realtà che fa saltare
ogni precedente punto di riferimento, impone per forza,
a calci nel sedere, di cominciare a ragionare in modo radicalmente
diverso. Alcune delle scelte fatte allora, non come scelte
del momento, ma come scelte della realtà e come le
uniche cose da fare in quel momento, erano scelte che, viste
adesso, a cinque anni di distanza, hanno del miracoloso
e sono come l'eredità che noi lasciamo al resto del
movimento antimafioso. A partire da quel momento la redazione
si riunì ogni giorno, per tre quarti d'ora circa,
per le riunioni operative, a turno qualcuno organizzava
la scaletta con i punti da trattare, si davano gli incarichi,
poi si riferiva sugli incarichi del giorno prima, nel modo
più naturale, senza che dovessimo obbligatoriamente
schierarci per una posizione o per un partito. Da giornale
a movimento di massa Nei primi giorni ci trovavamo totalmente
isolati e ci siamo resi conto che non potevamo fare marcia
indietro, che eravamo ormai troppo avanti e che l'avversario
era estremamente potente, quindi dovevamo avere l'obiettivo
immediato di moltiplicarci il più possibile, di esplodere,
di non essere più giornale, ma di diventare, in tempi
velocissimi, movimento di massa. Come fare? Non eravamo
politicizzati come gruppo, eravamo un giornale, non volevamo
cadere nell'orbita ideologica di qualcuno, per motivi difensivi,
dovevamo elaborare una "ideologia" con obiettivi
strategici intermedi e non ci aiutavano molto i libri, ma
i ragazzini con cui parlavamo nelle assemblee nelle scuole
eccetera. Nel giro di tre-quattro mesi si organizzò
un modo di pensare molto caratteristico, basato sulle riunioni
operative e su piccoli gruppi, non c'erano più di
due o tre persone a fare la stessa cosa, con l'individuazione
di una serie di obiettivi che centravano i punti di maggiore
contraddizione di una società mafiosa. Nostri interlocutori
erano i ragazzi delle scuole, che non avevano il problema
del posto o del lavoro, ma intendevano lottare per qualche
cosa di più, una realizzazione della vita, una realizzazione
di noi stessi: si trattava di una situazione emozionalmente
molto alta che saltava i passaggi intermedi: il lavoro serve
ad avere una sicurezza, una vita serena, mentre il ragazzino
di liceo percepiva che si poteva essere immediatamente felici,
che si poteva cercare immediatamente la sicurezza, che si
potevano cercare subito alcune cose, non dopo il diploma
o dopo il posto di lavoro, che si poteva avere molto senza
il bisogno di chiederlo a nessuno. Si formò così
il movimento per i Centri Giovanili Autogestiti: si trattava
di ragazzi che cercavano di aggregarsi intorno ad attività
inventate sul momento. Grazie al lavoro della sinistra ufficiale
non riuscimmo a conseguire l'obiettivo di occupare alcuni
spazi, stabilimenti industriali abbandonati, perché
questi locali erano già nell'ottica di, non vorrei
usare la parola "intrallazzo", di un'operazione
in cui doveva entrare l'Arci, un architetto di sinistra,
che non andò mai in porto, ma fu sufficiente a mobilitare
tutti contro il nostro tipo di progetto. Un'altra situazione
contro cui ci trovammo a cozzare fu questa: sì, lottiamo
contro la mafia, ma qui a Catania i mafiosi sono importanti,
hanno le fabbriche, hanno i posti di lavoro in mano, e se
acchiappano i mafiosi, che cavolo facciamo, le fabbriche
chiudono e tutti a casa, discorso non di un professore,
ma di una ragazzina, Sabina, figlia di un operaio di questi:
rispondemmo elaborando una proposta alternativa, quella
dell'utilizzo popolare dei beni mafiosi sequestrati, che
dovevano essere posti sotto controllo di un organismo apposito
e utilizzati per mantenere ed aumentare l'occupazione. Questi
due obiettivi, centri popolari autogestiti ed utilizzazione
alternativa dei beni mafiosi poi, due o tre anni dopo, divennero
oggetto di conferenze, incontri, dibattiti della sinistra
ufficiale, la FGCI, a fase conclusa, fece un bel documento
sui centri giovanili e il PCI cominciò, timidamente,
a parlare di utilizzazione alternativa, ma nei sei mesi
in cui questi obiettivi cominciavano ad aggregare forze,
il ruolo della sinistra organizzata fu di netta e intransigente
opposizione. Nella nostra storia abbiamo fatto da collettore,
da canale catalizzatore, ma non erano nostre né le
idee né la spinta che queste idee riuscivano a raccogliere:
il solo nome de "I Siciliani" riuscì a
coagulare, per un anno e mezzo circa, una diversa sinistra
che si basava sulla grande contraddizione reale esistente
a Catania, tra il potere mafioso e la grande massa di coloro
che da questo potere erano espropriati. L'Associazione dei
Siciliani, sorta parallelamente intorno al giornale, con
intenti molto modesti, di aiutare materialmente la diffusione,
si trasformò rapidamente in un'avanguardia politica
che diventò un interlocutore ricercato dai partiti:
ne facevano parte svariate persone, alcuni venivano dagli
autonomi, altri erano liberali, altri comunisti in servizio
permanente effettivo, altri cattolici: nel giro di pochi
mesi queste componenti si erano omogeneizzate su ipotesi
concrete, non tanto per la forza della nostra proposta,
quanto per la debolezza delle proposte di partiti ufficiali.
Ripensando a quegli anni ho una grande rabbia e un grande
rimpianto: la rabbia è quella che, con il senno di
poi, mi ispira la condotta della sinistra ufficiale, quasi
mai d'appoggio, qualche volta di sabotaggio, in ogni caso
d'incomprensione totale; gli intellettuali che si raccolsero
intorno all'ipotesi ebbero due tipi di comportamento, alcuni
rimasero sino alla fine insieme a noi, quelli di sinistra,
che non avevano mai fatto politica attiva eccetera, altri
invece, alla prima possibilità, utilizzarono il peso
nuovo acquisito individualmente, per precipitarsi in quella
o questa soluzione di partito, molti in buona fede, ma con
il risultato di bloccare lo sviluppo di un movimento a Catania,
senza che nessuno peraltro riuscisse poi a spostare alcunché
all'interno del palazzo in cui era entrato con il famoso
obiettivo di "cambiare dall'interno". Dal Giornale
del Sud a "I Siciliani" Sotto l'aspetto professionale
"I Siciliani" erano già qualcosa di estremamente
anomalo: il gruppo giornalistico nasce intorno al 1980,
come gruppo dei cronisti del Giornale del Sud, con la precisa
caratteristica dell'estrema libertà d'iniziativa:
non eravamo molto ortodossi come giornalisti, eravamo molto
liberi nell'espressione, dopo una serie d'inchieste sulle
carceri passammo per il "giornale della malavita",
ed eravamo disponibilissimi a valerci delle fonti più
svariate, per ultime quelle ufficiali; peraltro invece le
esigenze del direttore erano ferocissime, l'orario di lavoro,
teoricamente sei-sette ore, era assolutamente libero, ma
per acquisire il fondamentale diritto di andare la notte
in pizzeria, bisognava non andare via dal giornale prima
delle due di notte. Il giornale avversario era "La
Sicilia", il giornale dei cattivi, noi eravamo i buoni
e non potevamo permetterci la minima svista, bisognava spesso
creare la notizia, o far diventare notizia il crollo di
un cornicione, via Palermo 234, il direttore ci tirò
fuori due pagine e mezzo bellissime perché la signora
cui era caduto addosso il cornicione era la moglie di una
guardia notturna, licenziata due giorni prima per intrallazzi
nella sua ditta, a pianoterra abitava un ragazzino arrestato
due giorni prima per un furto, a sua volta "sciarriato"
con il cognato per una storia di giornaletti pornografici
rubati, insomma siamo stati su questa storia per quindici
giorni scrivendo cose molto belle. Fummo licenziati tutti
quando il direttore cominciò a fare campagna contro
la base di Comiso ed io contro Ferlito; a "I Siciliani"
fu più dura, perché non avevamo una struttura
organizzativa alle spalle, si andava col biglietto d'andata
per fare un'intervista, non si parlava d'alberghi o rimborsi,
e tuttavia c'era questa forma di autodisciplina che ci spingeva
a cercare e scrivere una cosa che nessun altro al mondo
aveva. Non ci sentivamo, a partire dal direttore, dei grandi
giornalisti, e forse non ci sentivamo neanche dei giornalisti,
ci sentivamo dei portavoce, gente che facesse un lavoro,
diciamo per conto di qualcun altro: a questo buon mestiere
ci siamo aggrappati soprattutto dopo il 5 gennaio 1984,
lasciando entrare in dialettica, a nostra insaputa, due
cose differenti, da un lato un livello molto alto di efficienza
tecnica, le notizie erano buone e non sono mai state smentite,
dall'altro la necessità pressante di uscire dal ghetto,
di essere punto di riferimento. Su questo abbiamo commesso
infiniti errori, perlopiù di timidezza, nella campagna
per la legge La Torre o nella vicenda de "I Siciliani"
giovani, nato con un'assemblea di venti ragazzi, che alla
seconda assemblea erano diventati una sessantina e successivamente
riuscì a coinvolgere 320 ragazzi. Eravamo molto forti
su alcuni terreni, molto meno su altri, sul piano politico
avevamo molta spinta, ma poca consapevolezza, e avevamo
una fiducia smisurata nei cosiddetti intellettuali della
sinistra catanese, nel PCI, nei sindacati, nella Lega delle
cooperative: non erano l'ideale, ma altra cosa dalla Democrazia
Cristiana, vuoi mettere? e tuttavia le delusioni erano frequenti.
Questa situazione è durata per quattro anni, sino
a quando non ci siamo trovati davanti a una scelta: o arroccarci
nel mensile, che andava bene, oppure giocare la carta del
settimanale popolare, dove tutti potessero scrivere: abbiamo
fatto tardi questa scelta, quando eravamo ridotti in pochi,
isolati dalle forze politiche ufficiali. Era un brutto giornale
sotto molti aspetti, fatto con mezzi deboli e in fretta.
Il nostro contributo Per quanto riguarda la lotta alla mafia
abbiamo portato, la realtà ci ha portato dei contenuti
specifici, come nel caso dei "cavalieri di Catania":
da quando "I Siciliani" hanno cominciato a lottare,
Rendo non è stato più il grande industriale
progressista, la gente non ci crede più. C'era a
Catania, non solo nel PCI, questa solida convinzione: Catania
è una città miserabile, africana, messicana,
brasiliana, con i contadini col forcone, con Brancati, le
donne vestite di nero, e quindi, giustamente, ci vuole la
rivoluzione industriale, la borghesia moderna, ci vuole
Rendo, non per un fatto di corruzione, ma per l'incapacità
di elaborare un'analisi specifica sulla Sicilia, e così
la maggior parte dei giornalisti del giornale di Rendo è
iscritta al PCI. I "cavalieri" rappresentano una
forma di potere mafioso, secondo me "ultima":
la tipologia dei "cavalieri" catanesi, il tipo
di potere, il tipo di rapporto mafia-politica si è
sviluppato più tardi e più lentamente che
a Palermo, in una situazione più moderna, più
metropolitana: Rendo è meno classico, meno radicato,
ma molto più grosso di un Cassina, per esempio, opera
con tipologie differenti. Un secondo contributo è
stato quello del rapporto tra mafia e poteri occulti, per
esempio la massoneria, non privo di connessioni con il primo.
Un terzo contributo, troncato dalla chiusura del giornale,
è quello del rapporto "nuovo" tra mafia
e politica: il rapporto tradizionale era di corruzione,
nel senso che era il mafioso a corrompere il politico, il
rapporto nuovo può essere inteso in senso opposto,
cioè lo stato corrompe la mafia, ossia lo stato ha
i suoi interessi specifici, ad esempio l'intervento in un
determinato scacchiere politico, tramite la fornitura di
armi, e si serve di strumenti adatti, tra i quali può
esserci qualche gruppo mafioso, collegato con l'imprenditorialità,
cosicché il rapporto tra mafia e politica, le contraddizioni
che ne conseguono, si spostano a livelli più alti,
per cui, mentre ieri potevamo dire che il potere mafioso
è Lima e che Andreotti è mafioso in quanto
protettore di Lima, oggi possiamo dire che il politico mafioso
è Andreotti e che Lima è mafioso in quanto
dipendente da Andreotti: diciamo che la mafia non è
più un fatto parassitario dentro lo stato, ma tende
a inserirsi nel centro dello stato e, in taluni aspetti,
a coincidere, quasi meccanicamente, con esso. Com'è
andata a finire Come in tutte le storie, diciamo pure come
va a finire: "I Siciliani" non escono più
da un anno e mezzo: è in corso una trattativa con
la Lega delle cooperative per fare un consorzio e rilanciare
il giornale: alla fine il consorzio è stato fatto,
ma con i "cavalieri" e non con noi e per tutte
altre storie, per cui proprio in questi giorni è
partita una lettera di denuncia di questa trattativa; nel
frattempo a Catania il giornale padronale, "La Sicilia",
ha cambiato direttore e ha cambiato il carattere delle testatine:
questo è stato sufficiente a convincere i compagni
perbene che "La Sicilia" era cambiata; il PCI
sta facendo a Catania una buona campagna elettorale, con
una bella lista, e con un programma in cui c'è la
mafia a pagina uno, per dire che i commercianti sono incazzati
per via delle estorsioni, e poi, da pagina 2 a pagina 143
un elenco di belle cose da fare. E' più o meno la
nuova linea politica della Democrazia Cristiana, che non
dice più a Catania che la mafia non esiste, che non
bisogna fare indagini sui "cavalieri", non spara
più, il capolista è un signore perbene che
fa parte del consiglio superiore della magistratura, tutto
ritorna normale e si propone un grande patto con dentro
il PCI: "La Sicilia" fa le lodi dei comunisti,
i quali fanno le lodi de "La Sicilia", è
arrivato il pluralismo anche nella stampa, perché
non c'è più il giornale di Costanzo, ma anche
il settimanale di Rendo, "I Siciliani" sono spariti,
Antonio sta facendo un articolo per Il Manifesto, e forse
glielo pagano, Claudio è appena tornato dal Sudamerica,
dove ha cercato di raccogliere qualche cosa, Miki neanche
questo, io sono qui, Elena ha abbandonato il mestiere e
sta facendo delle supplenze, ogni tanto ci si vede e si
chiacchiera: ci siamo dati appuntamento tra un anno, le
idee sono tante e belle, siamo abbastanza ottimisti, adesso
sappiamo come si fa un giornale in Sicilia, cioè
coinvolgendo centinaia di persone che giornalisti non sono,
sappiamo che un giornale in Sicilia non ce lo farà
nessuno e che potrà spuntare se un organismo collettivo,
non legato al "palazzo", si porrà quest'obiettivo
in tempi lunghi, lavorando intanto per realizzarlo senza
sperare in vie di mezzo; sappiamo anche che dall'aspetto
tecnico si possono fare molte cose e con pochi soldi attraverso
i computers. Quando abbiamo iniziato "I Siciliani"
ci siamo indebitati per circa 250 milioni, comportandoci
da milanesi, rispetto a furbi milanesi che si sono comportati
da catanesi: gli stessi materiali, con la stessa funzionalità,
adesso si potrebbero trovare per 60 milioni. Infine, sul
piano dell'esperienza di mestiere, per una volta voglio
ricordare persone di cui nessuno parla, Miki Gambino, il
miglior cronista di nera in Sicilia, il nostro fotografo,
Nuccio Fazio, la fotografa Giusi Spampinato, la nostra compositrice
Cettina, adesso a Milano perché non ha più
trovato lavoro, Mario Sparti, nostro tipografo, il professor
D'Urso, il primo in Italia a intuire il rapporto tra logge
massoniche e mafia. Insomma, un'esperienza come la nostra
ha coinvolto tante persone ed ha lasciato in ognuno qualcosa:
io penso che saranno loro a girare la prossima puntata.