Il giudizio su Giuseppe Fava di Sebastiano
Addamo, che scriverà su "I Siciliani" alcuni
articoli, è contenuto nel breve scritto "Giuseppe
Fava e la cronaca come letteratura" nella raccolta
di scritti "Oltre le figure" Sellerio, 1989.
"Le foto lo ritraggono quasi sempre
in atteggiamento febbrile; non è mai quieto. Come
se sia sul punto di fare qualcosa. Pare del resto sia stata
una sua costante: fare qualcosa, di continuo costruire progetti
da realizzare.
Il volto affilato e mobile di rughe, pare tagliato con l'accetta,
ricavato da un vecchio ceppo centenario. Non aveva l'aria
del profeta, bensì del sovversivo e del rivoltoso.
Aveva il gusto - non l'ostentazione - della cultura e della
condizione contadina da cui proveniva, pure egli praticando
la modernità e il dinamismo del cittadino e del cosmopolita.
Guardava l'Europa e il mondo, ma avendo scelto come prospettiva
privilegiata la Sicilia.
Aveva una visione apocalittica e una predilezione per la
lotta. Non scriveva per placare, tanto meno per assolvere,
bensì per agitare.
Il suo modo di scrivere era conseguente al
suo essere. Era il suo modo d'essere. La scrittura era perciò
imputatoria e blasfema. Nessuna finalità catartica
né di giuoco estetico l'animava. Lo scrivere insomma
faceva parte del lavoro di Giuseppe Fava, del suo diverso
impegno. Romanzo, teatro, cronaca o inchiesta giornalistica,
non venivano di volta in volta scelti per una preferenza
di generi, ma essenzialmente relativamente all'efficacia,
e relativamente ai destinatari. Il romanzo, per Fava, non
era che cronaca ma per destinatari i quali non erano in
grado di avvertire la immediata tragicità che balza
dalla cronaca. Non per caso, difatti, i suoi romanzi risultano
più letti da Roma in su, e meno in Sicilia.
Le sue inchieste, pur nel loro impeto, e
forse a causa di esso, paiono risentire di una sorta di
dignità ferita, in quanto egli si sentiva parte di
una società in nome e per conto della quale riteneva
di dover scrivere. La sua passione trasformava in fatto
personale quanto era tragedia collettiva.
Cercava avversari da combattere e colpevoli da accusare;
le sue inchieste hanno martellato uomini di rispetto e uomini
politici. Uno spirito etico permeava quella sua scrittura
spasmodica e talora ridondante, aveva bisogno di reazioni
aspre, più che di compiacimenti ammiccanti; cercava
il consenso della ragione, per nulla la facile complicità
degli 'amici'.
La sua prosa conosceva l'invettiva e anche l'intolleranza,
ma nella sua indignazione s'avvertiva una forma dolorosa
di esistenza, un risentimento che sfiorava il rancore, in
qualche modo facendo assolutamente propria la condizione
di isolano, e di un'isola come la Sicilia che è antica
di civiltà e di cultura, ma altrettanto antica di
asservimento e di sfruttamento. Lo occupava di più
- naturalmente - il tema dell'asservimento e dello sfruttamento.
Perciò la sua prosa era virulenta, accanita, scorreva
come torrenti in piena. Aveva molto da dire, e molto di
più da accusare. In nome della stessa Sicilia, si
era messo a combattere la mafia, che è siciliana.
Galilei, lo sappiamo, non innova le regole
formali della scrittura, anzi si rifà al Cinquecento
più compatto e si mantiene nel solco della tradizione.
Non assegnava alla scrittura alcuna finalità edonistica,
tanto meno "di piacere al mondo" come proponeva
il seicentista Marino.
Egli si propone un compito più preciso, anche se
più prosaico: immettere nella lingua italiana la
materia scientifica di cui essa non s'era mai occupata.
Comunicare con strumenti tradizionali, una materia del tutto
nuova.
A Giuseppe Fava interessa comunicare una
cosa, la "cosa".
Egli è scrittore di fatti, e dunque non ha preoccupazioni
formali, non partecipa alle polemiche, attorno a lui in
corso, sull'essere e il proprio della vicenda letteraria.
Non è che deliberatamente le rifiutasse; semplicemente,
ne era fuori. Sotto questo aspetto egli rimane al di qua
della letteratura, ma per stare più dentro la bruciante
realtà del giorno.
Non è la prima volta che si opera
una simbiosi di giornalismo e letteratura. Scrittori come
Buzzati o Moravia o Sciascia hanno fatto alto giornalismo.
Ma si tratta di scrittori che prestano al giornalismo la
loro attrezzatura letteraria.
Più raro è invece il passaggio dal giornalismo
alla letteratura. E' avvenuto con Giuseppe Fava che nacque
giornalista, e, da giornalista, seguì da principio
la sua vicenda più pura : la cronaca.
L'esigenza di dire di più, di dire altro e in altro
modo, la necessità di raccontare con più larghezza
e più profondità, o di andare al di là
della cronaca a seguire il filo teso dell'immaginario, lo
avrà potuto condurre verso altre forme di espressione,
e anche al romanzo.
Perciò la differenza tra il suo essere giornalista
e il suo essere narratore, non sta nella differenza tra
una scrittura che riporta, e una scrittura che inventa.
Inventare, del resto, significa più propriamente
trovare: trovare tra le pieghe della cronaca, nel suo fondo
sordido e amaro, quelle verità che essa cela e vanno
rivelate, anche se non c'è alcunché che la
sorregga. Il cronista si fa romanziere per la violenza stessa
della cronaca.
Questa cronaca virulenta e imperversante, per Giuseppe Fava
è stata la mafia.
E non la mafia paleo, la mafia dei campi
e dei campieri. Questa ha i suoi codici e le sue caratteristiche.
E' decifrabile, anche se poco individuabile. La mafia, per
esempio, come può ancora risultare dalle pagine di
Michele Pantaleone, "nata - come questi scrive - nella
zona tipica del feudo, nel cuore dell'Isola".
Non questa mafia, che ancora si sorregge sulla dialettica
di campiere e proprietario e richiama i vasti assolati silenzi
della campagna. Alla fine del cammino di essa si troveranno
speculazione edilizia e droga.
Giuseppe Fava comincia dove, si può dire, finisce
la vecchia mafia e nasce la nuova.
Una mafia ferrigna, oscura, fredda, crudele e priva di codici
che non siano l'accumulo della ricchezza e il potere. Un
tessuto indecifrabile anche negli scopi. La violenza che
essa esercita parte da lontano, e non è facile capire
dove voglia arrivare.
E' questa mafia peraltro, che viene a costituire il tema
e l'impegno di Giuseppe Fava.
Giuseppe Fava è solo.
La sua scrittura non può avvalersi di riferimenti
di alcun genere, perché nulla esiste intorno a questa
mafia. Fava deve inventare la scrittura per trattare la
"cosa". L'habitat di essa non è più
la campagna, ma la città; e i grandi gregari e i
grandi capi vanno cercati non in qualche sperduto casolare
o nel palazzetto di paese, bensì nei Consigli di
amministrazione e nelle anticamere dei ministri e dei sottosegretari.
Da ciò la necessità di una scrittura che non
dia nulla per scontato, che sia circostanziata senza essere
asfittica e burocratica. Dire molte cose e le altre indicibili
- ma perché non esistono prove - farle trapelare.
Non è più un problema di eleganza, né
di effetti formali. E' una cupa tragedia che deve essere
resa per quello che è: cupamente e senza gli appannamenti
- spesso splendidi - che la parola può produrre.
La ricerca di una parola che apra spiragli su di questa.
Probabilmente i libri di Fava, le sue
inchieste, la sua prosa rapida, martellante e qualche volta
ruvida, l'insieme della sua scrittura non farà imprigionare
un delinquente in più, né farà compiere
alla Sicilia un passo in più. Fava probabilmente
lo sapeva, e sta forse in questa consapevolezza la sua misteriosa
e disperata temerarietà.
Fava, in fondo, chiedeva giustizia a un futuro di cui, in
atto, non aveva alcuna prospettiva e alcuna garenzia. Sperare
in un futuro e contemporaneamente disperare di esso. Fra
speranza e disperazione si colloca la sua scrittura.
Fava, quasi certamente, non sperava in alcun riscatto immediato
per la Sicilia. Scriveva come se una tale fede lo sorreggesse".