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La parola che uccide: I Siciliani, di Pina La Villa | [1] | [2] | [3] | [4] | [5] | [6] | [7] | [8] | [9] | [10] | Addamo | Orioles | [Bibliografia]

 

[5] I Siciliani di Fava

Gennaio 1983, ( il primo numero). Tre i titoli e tre le immagini: "I cavalieri di Catania e la mafia", l'immagine è quella di un brindisi a una festa fra tre dei cavalieri catanesi; "E' difficile essere giudici in Sicilia", l'immagine è quella di un magistrato in toga; "La donna e l'amore nel Sud". Si parla inoltre dell'inquinamento del golfo di Augusta, dell'emigrazione. "Duecento pagine che parlano di mafia, di questione meridionale, di costume. Nelle edicole arriva per la prima volta il 22 dicembre 1982: le tremila copie stampate vengono esaurite in poche ore. Sono necessarie altre due ristampe" [23].

"Il primo numero de "I Siciliani" scatena reazioni durissime. Il "Caso Catania" diventa caso nazionale […] Una parte della città reagisce. Autorità e intellettuali insorgono. Viene costituito un comitato "pro Catania" che ha il fine di tutelare l'immagine della città" [24].

Alcuni titoli degli articoli di Giuseppe Fava, nel breve tempo che gli fu lasciato di dirigere la nuova rivista: I quattro cavalieri dell'Apocalisse mafiosa (a.I, n.1, gennaio 1983,); I cento padroni di Palermo (a.I, n.6, giugno 1983); Sindrome Catania (a.I, n.4,aprile 1983); I dieci più potenti della Sicilia (a.I, n.7, luglio 1983); Vendiamo questi bravi ragazzi, chi li vuole? (a.I, n.4, aprile 1983); Politicus - Arringa in difesa di un cavaliere mafioso (a.I, n. 9, ottobre 1983).
Gli articoli che Fava scrive per il giornale sono in realtà dei lunghi saggi, uno spazio oratorio che il giornalista usa per colpire l'atteggiamento di acquiescenza nei confronti della mafia, l'incomprensione che la città "voleva" continuare ad avere del fenomeno mafioso. Dice infatti nel famoso I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa ("I Siciliani", n. 1 gennaio '83):

Chi sono dunque i quattro cavalieri? Quale il loro ruolo in questo autentico tempo di apocalisse?[…] quattro personaggi i quali, con superiore astuzia, temerarietà, saggezza, intraprendenza, hanno saputo perfettamente capire i vuoti e i pieni della struttura sociale italiana del nostro tempo e della classe politica che la governa, ed essere più rapidi e decisi nel trarne i vantaggi;

Nell'articolo Ti lascio in eredità i missili di Comiso ("I Siciliani" n. 1 gennaio '83) Fava spiega come i siciliani dimostrano ancora una volta di essere imbecilli, e la guerra nucleare diventa come un assassinio mafioso: "non si dichiara ma si esegue, cioè si scatena senza preavviso e nel momento più imprevedibile" nello stesso momento in cui i cavalieri del lavoro si accaparrano gli appalti per Comiso, in Russia qualcuno lavora per colpire la nuova base al minimo cenno di pericolo, o per errore umano. Fava racconta, immagina la riunione in un bunker sovietico e l'allestimento del team che lavorerà nei prossimi anni a distruggere quello che a Comiso stanno costruendo.

"Un giorno ci accadrà che i nostri figli o nipoti che ancora debbono nascere ci guarderanno negli occhi con un sorriso sprezzante, e ci chiederanno: voi dove eravate quando fu deciso di costruire la base di missili a Comiso e condannarci quindi ad una vita provvisoria. Come vi siete permessi di appropriarvi del nostro destino umano prima ancora che fossimo concepiti. Un essere umano afflitto da un'atroce inguaribile deformità, il quale apprende che il padre, pur sapendo che sarebbe nato malato, deforme e infelice, volle tuttavia egualmente farlo nascere, ha il diritto di sputare in faccia al padre;

Sindrome Catania ("I Siciliani" n. 4 aprile '83), un articolo che parte dalla questione della criminalità per affermare l'originalità dei catanesi, e poi vira nel costume e nell'analisi sociologica quando dice che, a differenza di Milano, in cui sono arrivati i poveri che diventano manovalanza criminale

A Catania negli ultimi quarant'anni non sono arrivati i miserabili dall'interno dell'isola, ma decine di migliaia di famiglie borghesi le quali non cercavano dignità civile, ma prestigio sociale nella più grande città dell'oriente siciliano: agricoltori che vendevano le loro terre per trasferire i piccoli capitali in speculazioni edilizie, giovani professionisti, medici, avvocati, architetti, ingegneri che fuggivano la tetraggine della provincia per scoprire ben altri spazi di lavoro e di affermazione, commercianti che vedevano la loro piccola economia vacillare nei paesi sempre più spopolati dall'emigrazione, e radunavano le loro forze per tentare nuova fortuna in una città che era l'unico grande emporio di approvvigionamento per almeno sei province e per tre milioni di abitanti.

Così Fava aveva colpito non solo i mafiosi, ma lo spirito dei "catanesi"

tutta gente avida, forte, talvolta rapace, spesso dotata di talento, con quella limitata ma precisa preparazione culturale della provincia che riempie i lunghi tedii invernali di letture e polemiche intellettuali, gente comunque animata da fantasia e spirito di iniziativa, indotta dallo stesso complesso di inferiorità ad una aggressività costante, in tutti i settori: gli ospedali, la scuola, l'edilizia, i commerci, le professioni, gli appalti, la politica

Un esempio perfetto degli articoli di Fava, in cui accanto alla denuncia, all'analisi sociologica, alla storia, c'è il piacere delle storie, delle descrizioni, la capacità di rendere un'atmosfera e di comunicare immediatamente un'idea. Articoli in cui la notazione precisa o la precisa denuncia si perdono nel fiume di parole e nel piacere di narrare le storie: sono storie degli anni sessanta, Fava è la fonte e l'interprete più attendibile dilla storia di questi anni nella Sicilia orientale.
I cento padroni di Palermo ("I Siciliani", n. 6 giugno '83) è un articolo che vale la pena di esaminare nella sua struttura per capire come in un articolo di Fava si può trovare di tutto, dalla cronaca alla storia, all'analisi politica e sociologica: " Camminare a Palermo" è l'incipit, ripetuto tre volte a descrivere le strade e i personaggi, i cattivi - i ricchi - e i buoni - i poveri, i bambini che corrono in mezzo ai cani. Poi il pezzo da inviato: Palermo come nuova Delhi, il rapporto fra Palermo e la Sicilia, la diversità fra Sciascia e Brancati con Pirandello in mezzo. E poi la morte, un diverso immaginario a Catania e Palermo, qui "la morte è spettacolo da non perdere. La morte ha sempre una ragion d'essere. A Palermo essa va meditata e capita". Si passa al tema, i padroni: chi sono? Si parte intanto dal dato che non può essere solo uno, sono alcuni e comandano non solo a Palermo ma in tutta la Sicilia "Le virtù che contano a Palermo non sono quelle di un Pericle, ma piuttosto di un cardinale Mazzarino": emblematico il caso di Piersanti Mattarella, che da Mazzarino volle diventare Pericle, e venne fatto fuori. Per individuare ancora meglio i padroni ecco enumerate le questioni: il porto, l'appalto per la pubblica illuminazione, ecc. Da qui a Ciancimino, Sindona, Andreotti, per finire con "Camminare a Palermo" vedere i luoghi del potere e i tuguri.
Un altro articolo, Cose nostre divertenti, probabilmente scritto dopo le prime critiche alla "pesantezza" della rivista (da "I Siciliani" n.5 maggio '83):

Allora, dopo cinque numeri de "I Siciliani", siamo tornati a scrutare la Sicilia e il Sud, quella del nostro tempo, dentro la quale viviamo: abbiamo rivisto il corpo del generale Dalla Chiesa, insanguinato e ancora gettato là, in mezzo a quella strada di Palermo, senza che nessuno abbia saputo nemmeno dirci chi veramente lo uccise e chi lo fece uccidere e per quale ragione di Stato; e i corpi insanguinati di Terranova, Giuliano, Basile, Costa, La Torre ancora gettati in mezzo alle strade di Palermo senza che nessuno abbia saputo spiegare come, chi e perché; e a Comiso la grande imprenditoria mafiosa già lanciata alla conquista delle aree fabbricabili e degli appalti per la costruzione della base nucleare; e in ogni procura siciliana un terremoto di inchieste per abusi, sperperi, predonerie di governanti e politici; e nel golfo di Augusta le industrie velenose che continuano a uccidere gli abitanti e generare creature deformi; e Palma di Montechiaro e cento altri paesi siciliani dove la gente continua a vivere nelle tane come bestie; e un milione di siciliani poveri, emigrati sulla faccia della terra.
Tu guardi la Sicilia e questo soprattutto vedi! E il sole, il mare, gli incantesimi, i Malavoglia e il prode Orlando, in mezzo alla polvere e alla paura, al dolore e agli stracci insanguinati. E capisci che, se vuoi onorare il tuo ideale di vita e di professione, questo dev'essere anzitutto il tuo compito: raccontare le cose tragiche, grottesche o infami dentro le quali viviamo, affinché tutti possano conoscerle. E, insieme, tentare finalmente una soluzione politica.
E il divertimento, la sorridente ricreazione del lettore? E non è divertente anche chi fece uccidere il presidente Mattarella o il generale Dalla Chiesa e, alle solenni esequie, andò a sedersi in doppiopetto fra le massime autorità, e porse sentite condoglianze a vedova e orfani?

La tradizione dei Pupi siciliani è evidentemente forte in Sicilia, come tradisce anche questo articolo, col suo riferimento al prode Orlando. E' una tradizione popolare molto viva nei piccoli paesi ancora negli anni cinquanta. Fava doveva conoscerla molto bene.
Una distinzione nettissima fra buoni e cattivi, in cui il disprezzo per "gli altri" è così forte da farli diventare degli alieni - di cui peraltro, colpevolmente, si subisce il fascino - da cui stare lontani, la cui contaminazione è da evitare nel modo più assoluto.


Il 1983 è alla fine. Il bilancio de "I Siciliani", in termini di vendite, è ottimo. Ci sono mesi in cui si vendono trentaduemila copie, ma ci sono mesi in cui se ne possono stampare solo novemila. Non perché la richiesta registri cali improvvisi, ma perché i debiti accumulati con una tipografia romana non consentono di effettuare ristampe frequenti. Dopo il successo dei primi mesi, infatti, il centro stampa della cooperativa Radar si è rivelato inadeguato per tirare un così alto numero di copie, e allora è stato necessario rivolgersi a uno stabilimento della capitale dotato di macchinari più moderni. Questa decisione, paradossalmente, causa un aggravio della situazione debitoria. "I Siciliani" è il giornale dell'isola più diffuso e apprezzato in Italia, ma - altro paradosso - non riesce a ottenere della pubblicità che gli consenta di arginare il deficit.
Un'inserzione di mezza pagina per la modica somma di quattrocentomila lire è stata proposta al Banco di Sicilia, ma l'istituto di credito, malgrado i miliardi spesi ogni anno per promozioni in testate di gran lunga meno diffuse (una delle più recenti la Gazzetta di Mantova) ha risposto che la pubblicità su "I Siciliani" "non rientra nei nostri programmi" [25]

Il 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava viene ucciso.

E' molto probabile che non avesse scoperto nulla di nuovo, e che sia stato ucciso più come rappresentante di un gruppo, e di un giornale che si poneva platealmente, in un atteggiamento di sfida, contro la mafia. Una specie di dimostrazione. [26]
Più che denuncia, insieme alla denuncia - gli articoli di inchiesta di Orioles, di Claudio Fava e di Miki Gambino - la rivista faceva opinione, usando un linguaggio e una retorica familiare ai siciliani e soprattutto istituendo con i lettori un rapporto che esaltava il senso di appartenenza: "ma una rivista "si sceglie" i suoi lettori, ed essi non sono comuni" sta scritto in un appello, che la redazione lancia ai lettori nel numero uscito il mese della morte di Fava, a scrivere dei pezzi non di memoria ma di azione. E' questo - il senso di appartenenza - un tratto caratteristico della rivista soprattutto dopo la morte di Fava.

"Il 7 gennaio 1984, il giornale "I Siciliani" esce in edizione straordinaria con un titolo "alto", Un uomo, quattro pagine formato quotidiano, dedicate all'impegno del direttore ammazzato dalla mafia per il suo "coraggio di parlare". La redazione, in una conferenza stampa, ribadì che il giornale avrebbe continuato a "gridare" le notizie come faceva prima" [27]

La memoria di Giuseppe Fava, e la difesa delle buone ragioni della rivista, costituiranno un altro grande tema della rivista dopo la morte del direttore [28].

Alcuni dei giudizi critici acuti e precisi su Giuseppe Fava di Sebastiano Addamo [29] spiegano anche i caratteri della scrittura e dell'atteggiamento che "I Siciliani" - inteso come redazione al completo, prima e dopo la morte del fondatore - assumono. L'atteggiamento febbrile, la cronaca che deve sconfinare nella letteratura spinta dalla immaginazione - perché mancano le prove - la predilezione per il tema dell'asservimento e dello sfruttamento, l'invettiva e l'intolleranza, "un risentimento che sfiorava il rancore", la ricerca di nemici da combattere e di colpevoli da accusare, la prosa virulenta, che non serve per "placare, tanto meno per assolvere, bensì per agitare".


Note:
[23] Mirone, op.cit., p. 170

[24] Mirone, op.cit., p. 190

[25] Mirone, op.cit., p. 195

[26] Per il ruolo di Giuseppe Fava si veda anche il giudizio di Nando dalla Chiesa, in: Cannavò, op. cit. : "Credo davvero che, sia pure con le migliori intenzioni, si faccia un torto a Giuseppe Fava classificandolo tra i giornalisti uccisi dalla mafia. Con Fava è stato ucciso un intellettuale, uno specifico modo di intendere la funzione dell'intellettuale nella Sicilia degli anni Ottanta. Dietro il suo omicidio non c'è d'altronde la paura dello scoop compromettente, non c'è la notizia polveriera che deve rimanere in un cassetto. Sta una produzione multiforme, un complesso integrato di parole, di sentimenti, di capacità, di analisi, di abitudini, che certo si trasfondono pienamente nella sua attività giornalistica e le fanno qualcosa di particolare; ma che sono prima di tutto opposizione intellettuale. […] Una figura poliedrica, che ha accoppiato in sé la straordinaria forza della denuncia civile con una prosa tagliente, capace di squarci improvvisi e di particolari insistiti, degustati con voluttà al momento stesso che si accinge a tornare ai colori forti."

[27] Cannavò, op.cit., p. 168

[28] Per un giudizio sull'opera complessiva di Giuseppe Fava si veda , nell'appendice, lo scritto di Sebastiano Addamo.

[29] Vedi appendice

 


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