Gennaio 1983, ( il primo numero). Tre i titoli
e tre le immagini: "I cavalieri di Catania e la mafia",
l'immagine è quella di un brindisi a una festa fra
tre dei cavalieri catanesi; "E' difficile essere giudici
in Sicilia", l'immagine è quella di un magistrato
in toga; "La donna e l'amore nel Sud". Si parla
inoltre dell'inquinamento del golfo di Augusta, dell'emigrazione.
"Duecento pagine che parlano di mafia, di questione
meridionale, di costume. Nelle edicole arriva per la prima
volta il 22 dicembre 1982: le tremila copie stampate vengono
esaurite in poche ore. Sono necessarie altre due ristampe"
[23].
"Il primo numero de "I Siciliani"
scatena reazioni durissime. Il "Caso Catania"
diventa caso nazionale [ ] Una parte della città
reagisce. Autorità e intellettuali insorgono. Viene
costituito un comitato "pro Catania" che ha il
fine di tutelare l'immagine della città" [24].
Alcuni titoli degli articoli di Giuseppe
Fava, nel breve tempo che gli fu lasciato di dirigere la
nuova rivista: I quattro cavalieri dell'Apocalisse mafiosa
(a.I, n.1, gennaio 1983,); I cento padroni di Palermo (a.I,
n.6, giugno 1983); Sindrome Catania (a.I, n.4,aprile 1983);
I dieci più potenti della Sicilia (a.I, n.7, luglio
1983); Vendiamo questi bravi ragazzi, chi li vuole? (a.I,
n.4, aprile 1983); Politicus - Arringa in difesa di un cavaliere
mafioso (a.I, n. 9, ottobre 1983).
Gli articoli che Fava scrive per il giornale sono in realtà
dei lunghi saggi, uno spazio oratorio che il giornalista
usa per colpire l'atteggiamento di acquiescenza nei confronti
della mafia, l'incomprensione che la città "voleva"
continuare ad avere del fenomeno mafioso. Dice infatti nel
famoso I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa ("I
Siciliani", n. 1 gennaio '83):
Chi sono dunque i quattro cavalieri? Quale
il loro ruolo in questo autentico tempo di apocalisse?[ ]
quattro personaggi i quali, con superiore astuzia, temerarietà,
saggezza, intraprendenza, hanno saputo perfettamente capire
i vuoti e i pieni della struttura sociale italiana del nostro
tempo e della classe politica che la governa, ed essere
più rapidi e decisi nel trarne i vantaggi;
Nell'articolo Ti lascio in eredità
i missili di Comiso ("I Siciliani" n. 1 gennaio
'83) Fava spiega come i siciliani dimostrano ancora una
volta di essere imbecilli, e la guerra nucleare diventa
come un assassinio mafioso: "non si dichiara ma si
esegue, cioè si scatena senza preavviso e nel momento
più imprevedibile" nello stesso momento in cui
i cavalieri del lavoro si accaparrano gli appalti per Comiso,
in Russia qualcuno lavora per colpire la nuova base al minimo
cenno di pericolo, o per errore umano. Fava racconta, immagina
la riunione in un bunker sovietico e l'allestimento del
team che lavorerà nei prossimi anni a distruggere
quello che a Comiso stanno costruendo.
"Un giorno ci accadrà che i nostri
figli o nipoti che ancora debbono nascere ci guarderanno
negli occhi con un sorriso sprezzante, e ci chiederanno:
voi dove eravate quando fu deciso di costruire la base di
missili a Comiso e condannarci quindi ad una vita provvisoria.
Come vi siete permessi di appropriarvi del nostro destino
umano prima ancora che fossimo concepiti. Un essere umano
afflitto da un'atroce inguaribile deformità, il quale
apprende che il padre, pur sapendo che sarebbe nato malato,
deforme e infelice, volle tuttavia egualmente farlo nascere,
ha il diritto di sputare in faccia al padre;
Sindrome Catania ("I Siciliani"
n. 4 aprile '83), un articolo che parte dalla questione
della criminalità per affermare l'originalità
dei catanesi, e poi vira nel costume e nell'analisi sociologica
quando dice che, a differenza di Milano, in cui sono arrivati
i poveri che diventano manovalanza criminale
A Catania negli ultimi quarant'anni non sono
arrivati i miserabili dall'interno dell'isola, ma decine
di migliaia di famiglie borghesi le quali non cercavano
dignità civile, ma prestigio sociale nella più
grande città dell'oriente siciliano: agricoltori
che vendevano le loro terre per trasferire i piccoli capitali
in speculazioni edilizie, giovani professionisti, medici,
avvocati, architetti, ingegneri che fuggivano la tetraggine
della provincia per scoprire ben altri spazi di lavoro e
di affermazione, commercianti che vedevano la loro piccola
economia vacillare nei paesi sempre più spopolati
dall'emigrazione, e radunavano le loro forze per tentare
nuova fortuna in una città che era l'unico grande
emporio di approvvigionamento per almeno sei province e
per tre milioni di abitanti.
Così Fava aveva
colpito non solo i mafiosi, ma lo spirito dei "catanesi"
tutta gente avida, forte, talvolta rapace,
spesso dotata di talento, con quella limitata ma precisa
preparazione culturale della provincia che riempie i lunghi
tedii invernali di letture e polemiche intellettuali, gente
comunque animata da fantasia e spirito di iniziativa, indotta
dallo stesso complesso di inferiorità ad una aggressività
costante, in tutti i settori: gli ospedali, la scuola, l'edilizia,
i commerci, le professioni, gli appalti, la politica
Un esempio perfetto degli
articoli di Fava, in cui accanto alla denuncia, all'analisi
sociologica, alla storia, c'è il piacere delle storie,
delle descrizioni, la capacità di rendere un'atmosfera
e di comunicare immediatamente un'idea. Articoli in cui
la notazione precisa o la precisa denuncia si perdono nel
fiume di parole e nel piacere di narrare le storie: sono
storie degli anni sessanta, Fava è la fonte e l'interprete
più attendibile dilla storia di questi anni nella
Sicilia orientale.
I cento padroni di Palermo ("I Siciliani", n.
6 giugno '83) è un articolo che vale la pena di esaminare
nella sua struttura per capire come in un articolo di Fava
si può trovare di tutto, dalla cronaca alla storia,
all'analisi politica e sociologica: " Camminare a Palermo"
è l'incipit, ripetuto tre volte a descrivere le strade
e i personaggi, i cattivi - i ricchi - e i buoni - i poveri,
i bambini che corrono in mezzo ai cani. Poi il pezzo da
inviato: Palermo come nuova Delhi, il rapporto fra Palermo
e la Sicilia, la diversità fra Sciascia e Brancati
con Pirandello in mezzo. E poi la morte, un diverso immaginario
a Catania e Palermo, qui "la morte è spettacolo
da non perdere. La morte ha sempre una ragion d'essere.
A Palermo essa va meditata e capita". Si passa al tema,
i padroni: chi sono? Si parte intanto dal dato che non può
essere solo uno, sono alcuni e comandano non solo a Palermo
ma in tutta la Sicilia "Le virtù che contano
a Palermo non sono quelle di un Pericle, ma piuttosto di
un cardinale Mazzarino": emblematico il caso di Piersanti
Mattarella, che da Mazzarino volle diventare Pericle, e
venne fatto fuori. Per individuare ancora meglio i padroni
ecco enumerate le questioni: il porto, l'appalto per la
pubblica illuminazione, ecc. Da qui a Ciancimino, Sindona,
Andreotti, per finire con "Camminare a Palermo"
vedere i luoghi del potere e i tuguri.
Un altro articolo, Cose nostre divertenti, probabilmente
scritto dopo le prime critiche alla "pesantezza"
della rivista (da "I Siciliani" n.5 maggio '83):
Allora, dopo cinque numeri de "I Siciliani",
siamo tornati a scrutare la Sicilia e il Sud, quella del
nostro tempo, dentro la quale viviamo: abbiamo rivisto il
corpo del generale Dalla Chiesa, insanguinato e ancora gettato
là, in mezzo a quella strada di Palermo, senza che
nessuno abbia saputo nemmeno dirci chi veramente lo uccise
e chi lo fece uccidere e per quale ragione di Stato; e i
corpi insanguinati di Terranova, Giuliano, Basile, Costa,
La Torre ancora gettati in mezzo alle strade di Palermo
senza che nessuno abbia saputo spiegare come, chi e perché;
e a Comiso la grande imprenditoria mafiosa già lanciata
alla conquista delle aree fabbricabili e degli appalti per
la costruzione della base nucleare; e in ogni procura siciliana
un terremoto di inchieste per abusi, sperperi, predonerie
di governanti e politici; e nel golfo di Augusta le industrie
velenose che continuano a uccidere gli abitanti e generare
creature deformi; e Palma di Montechiaro e cento altri paesi
siciliani dove la gente continua a vivere nelle tane come
bestie; e un milione di siciliani poveri, emigrati sulla
faccia della terra.
Tu guardi la Sicilia e questo soprattutto vedi! E il sole,
il mare, gli incantesimi, i Malavoglia e il prode Orlando,
in mezzo alla polvere e alla paura, al dolore e agli stracci
insanguinati. E capisci che, se vuoi onorare il tuo ideale
di vita e di professione, questo dev'essere anzitutto il
tuo compito: raccontare le cose tragiche, grottesche o infami
dentro le quali viviamo, affinché tutti possano conoscerle.
E, insieme, tentare finalmente una soluzione politica.
E il divertimento, la sorridente ricreazione del lettore?
E non è divertente anche chi fece uccidere il presidente
Mattarella o il generale Dalla Chiesa e, alle solenni esequie,
andò a sedersi in doppiopetto fra le massime autorità,
e porse sentite condoglianze a vedova e orfani?
La tradizione dei Pupi
siciliani è evidentemente forte in Sicilia, come
tradisce anche questo articolo, col suo riferimento al prode
Orlando. E' una tradizione popolare molto viva nei piccoli
paesi ancora negli anni cinquanta. Fava doveva conoscerla
molto bene.
Una distinzione nettissima fra buoni e cattivi, in cui il
disprezzo per "gli altri" è così
forte da farli diventare degli alieni - di cui peraltro,
colpevolmente, si subisce il fascino - da cui stare lontani,
la cui contaminazione è da evitare nel modo più
assoluto.
Il 1983 è alla fine. Il bilancio de "I Siciliani",
in termini di vendite, è ottimo. Ci sono mesi in
cui si vendono trentaduemila copie, ma ci sono mesi in cui
se ne possono stampare solo novemila. Non perché
la richiesta registri cali improvvisi, ma perché
i debiti accumulati con una tipografia romana non consentono
di effettuare ristampe frequenti. Dopo il successo dei primi
mesi, infatti, il centro stampa della cooperativa Radar
si è rivelato inadeguato per tirare un così
alto numero di copie, e allora è stato necessario
rivolgersi a uno stabilimento della capitale dotato di macchinari
più moderni. Questa decisione, paradossalmente, causa
un aggravio della situazione debitoria. "I Siciliani"
è il giornale dell'isola più diffuso e apprezzato
in Italia, ma - altro paradosso - non riesce a ottenere
della pubblicità che gli consenta di arginare il
deficit.
Un'inserzione di mezza pagina per la modica somma di quattrocentomila
lire è stata proposta al Banco di Sicilia, ma l'istituto
di credito, malgrado i miliardi spesi ogni anno per promozioni
in testate di gran lunga meno diffuse (una delle più
recenti la Gazzetta di Mantova) ha risposto che la pubblicità
su "I Siciliani" "non rientra nei nostri
programmi" [25]
Il 5 gennaio 1984 Giuseppe
Fava viene ucciso.
E' molto probabile che non avesse scoperto
nulla di nuovo, e che sia stato ucciso più come rappresentante
di un gruppo, e di un giornale che si poneva platealmente,
in un atteggiamento di sfida, contro la mafia. Una specie
di dimostrazione. [26]
Più che denuncia, insieme alla denuncia - gli articoli
di inchiesta di Orioles, di Claudio Fava e di Miki Gambino
- la rivista faceva opinione, usando un linguaggio e una
retorica familiare ai siciliani e soprattutto istituendo
con i lettori un rapporto che esaltava il senso di appartenenza:
"ma una rivista "si sceglie" i suoi lettori,
ed essi non sono comuni" sta scritto in un appello,
che la redazione lancia ai lettori nel numero uscito il
mese della morte di Fava, a scrivere dei pezzi non di memoria
ma di azione. E' questo - il senso di appartenenza - un
tratto caratteristico della rivista soprattutto dopo la
morte di Fava.
"Il 7 gennaio 1984, il giornale "I
Siciliani" esce in edizione straordinaria con un titolo
"alto", Un uomo, quattro pagine formato quotidiano,
dedicate all'impegno del direttore ammazzato dalla mafia
per il suo "coraggio di parlare". La redazione,
in una conferenza stampa, ribadì che il giornale
avrebbe continuato a "gridare" le notizie come
faceva prima" [27]
La memoria di Giuseppe Fava, e la difesa
delle buone ragioni della rivista, costituiranno un altro
grande tema della rivista dopo la morte del direttore [28].
Alcuni dei giudizi critici acuti e precisi
su Giuseppe Fava di Sebastiano Addamo [29] spiegano anche
i caratteri della scrittura e dell'atteggiamento che "I
Siciliani" - inteso come redazione al completo, prima
e dopo la morte del fondatore - assumono. L'atteggiamento
febbrile, la cronaca che deve sconfinare nella letteratura
spinta dalla immaginazione - perché mancano le prove
- la predilezione per il tema dell'asservimento e dello
sfruttamento, l'invettiva e l'intolleranza, "un risentimento
che sfiorava il rancore", la ricerca di nemici da combattere
e di colpevoli da accusare, la prosa virulenta, che non
serve per "placare, tanto meno per assolvere, bensì
per agitare".
Note: [23] Mirone, op.cit., p. 170
[24] Mirone, op.cit., p. 190
[25] Mirone, op.cit., p. 195
[26] Per il ruolo di Giuseppe Fava si veda
anche il giudizio di Nando dalla Chiesa, in: Cannavò,
op. cit. : "Credo davvero che, sia pure con le migliori
intenzioni, si faccia un torto a Giuseppe Fava classificandolo
tra i giornalisti uccisi dalla mafia. Con Fava è
stato ucciso un intellettuale, uno specifico modo di intendere
la funzione dell'intellettuale nella Sicilia degli anni
Ottanta. Dietro il suo omicidio non c'è d'altronde
la paura dello scoop compromettente, non c'è la notizia
polveriera che deve rimanere in un cassetto. Sta una produzione
multiforme, un complesso integrato di parole, di sentimenti,
di capacità, di analisi, di abitudini, che certo
si trasfondono pienamente nella sua attività giornalistica
e le fanno qualcosa di particolare; ma che sono prima di
tutto opposizione intellettuale. [ ] Una figura poliedrica,
che ha accoppiato in sé la straordinaria forza della
denuncia civile con una prosa tagliente, capace di squarci
improvvisi e di particolari insistiti, degustati con voluttà
al momento stesso che si accinge a tornare ai colori forti."
[27] Cannavò, op.cit., p. 168
[28] Per un giudizio sull'opera complessiva
di Giuseppe Fava si veda , nell'appendice, lo scritto di
Sebastiano Addamo.