La poesia della settimana: Sandro Penna

di Piero Buscemi - martedì 28 gennaio 2014 - 9686 letture

Sandro Penna nacque il 12 giugno 1906 a Perugia, dove trascorse la giovinezza compiendo studi irregolari. Nel 1929 si trasferì a Roma, città nella quale visse sino alla morte (salvo una breve parentesi milanese), esercitando i più disparati mestieri.

Le prime liriche di Penna uscirono su «L’Italia letteraria», nel ’32. Se ne deve la pubblicazione alle premure di Umberto Saba che fraternamente lo incoraggiò a coltivare il dono della poesia. Ci sono rimaste, di quegli anni, alcune lettere che oltre a essere un documento letterario, costituiscono anche la testimonianza di un’amicizia, come traspare dal tono affettuoso, talvolta svagato e scherzoso, dell’epistolario. Così il 23 novembre 1932 il poeta triestino scriveva a Penna: «Ho copiato le tue nuove poesie in un fascicoletto che ora gira per le mani dei miei amici. Tutti quelli che l’hanno letto, Stuparic, Giotti e altri che non conosci, sono rimasti entusiasti. […] Ti vedo sempre con la tua valigetta, le tue nove meravigliose poesie, e poca (non molta) nevrosi. O leggero Penna, tu non sai una cosa: non sai quanto t’ho invidiato!».

Solamente nel dopoguerra, però, uscirono le raccolte più significative di Penna: nel ’56 Una strana gioia di vivere, nel ’58 Croce e delizia. Per dodici anni il poeta non pubblicò altri volumi di versi: fino al ’70, quando da Garzanti apparve il libro Tutte le poesie, che comprendeva le raccolte precedenti e importanti inediti.

Dopo il ’70, nel frattempo, intorno al personaggio Penna, al vecchio poeta malato e vagabondo, alle sue difficili condizioni di vita, si rivolgeva l’interesse di molti intellettuali italiani, i quali in un appello sul quotidiano romano «Paese Sera» esprimevano l’urgente necessità di occuparsi di lui, ormai «ammalato e in condizioni di estrema indigenza».

Le ultime due raccolte del poeta furono pubblicate postume: nel ’76, a pochi mesi dalla morte, uscì Stranezze; infine, nell’’80, Confuso sogno.

Una strana gioia di vivere

La tenerezza tenerezza è detta
- se tenerezza cose nuove dètta.

Oh non ti dare arie
- di superiorità.
- Solo uno sguardo io vidi
- degno di questa. Era
- un bambino annoiato in una festa.

La tua giusta fierezza
- per il mio gesto vile
- pareva senza asprezza
- dorata dal tuo stile.

Come è bello seguirti
- o giovine che ondeggi
- calmo nella città notturna.
- Se ti fernú in un angolo, lontano
- io resterò, lontano
- dalla tua pace, - o ardente
- solitudine mia.

O solitario intorno a una fontana.
- Il poetico nudo della leva
- militare nel tuo cuore ardeva
- più che la Venere Botticelliana.

Le stelle mi guardavano se a tratti
- socchiudevano gli occhi come fanno i gatti.

Era la vita tua lieta e gentile.
- Quando a un tratto arrivò, gonfio d’amore,
- un lombrico vestito da signore.
- E’ quieta la tua vita e senza stile.

Il ciclista polverosa
- castità offre alla sposa.

Passando sopra un ponte
- alto sull’imbrunire
- guardando l’orizzonte
- ti pare di svanire.
- Ma la campagna resta
- piena di cose vere
- e tante azzurre sfere
- non valgono una festa.

Tra due malandri in fiore
- deriso era il mio cuore.
- Nel sonno al loro viso
- perdonai con amore.

Il fanciullo magretto torna a casa
- un poco stanco e molto interessato
- alle cose dell’autobus. Pensa
- con quella luce che viene dai sensi
- dai sensi ancora appena appena tocca -
- in quanti modi adoperar si possa
- una cosa ch’è nuova e già non tiene
- se inavvertito ogni tanto egli tocca.
- Poi si accorge di me. E raffreddato
- si soffia il cuore fra due grosse mani.
- lo devo scendete ed è forse un bene.

Della romantica tuta
- oh non amai solo la scorza.
- Ma proprio la dolcezza ch’è sperduta
- fra le montagne della forza.

Per averlo soltanto guardato
- nel negozio dove io ero entrato
- sulla soglia da dove egli usciva
- è rimasto talmente incantato
- con gli occhi tonti ferma la saliva
- che il più grande gli fece: Hai rubato?
- Poi ne ridemtno insieme tutti e tre
- ognuno all’altro tacendo un perché
- uniti da quell’ultimo perché
- che lecito sembrava a tutti e tre.

Un po’ di pace è già nella campagna
- L’ozio che è il padre dei miei sogni guarda
- i miei vizi coi suoi occhi leggeri.
- Qualcuno che era in me ma me non guarda
- bagna e si mostra negligente: appare
- d’un tratto un treno coi suoi passeggeri
- attoniti e ridenti - ed è già ieri.

La luna ci guardava assai tranquilla
- al di là dello schermo ov’egli attento
- seguiva le incredibili vicende
- col suo profilo di bambino, caro
- a quella luna già, ma assai lontano
- solo mezz’ora prima...

Un amore perduto quanta gioia
- di nuove sensazioni in me sorprende.
- Ma l’amore è perduto.
- E la pena riprende.

Cercando del mio male le radici
- avevo corso tutta la città.
- Gonfio di cibo e d’imbecillità
- tranquillo te ne andavi dagli amici.
- Ma Sandro Penna è intriso di una strana
- gioia di vivere anche nel dolore.
- Di se stesso e di te, con tanto amore,
- stringe una sola età - e te allontana.

Oh se potessi io lo compererei.
- Solo cosi forse mi calmerei.

Dacci la gioia di conoscer bene
- le nostre gioie, con le nostre pene.

Notte bella, riduci la mia pena.
- Tormentami se vuoi. ma fammi forte

Ma insieme a tanto urlare di dolore,
- te scomparso del tutto dai miei occhi,
- perché restava in me tanto fervore
- ch’io posavo ogni giorno in altri occhi?
- Rimase in me di te forse una scia
- di pura gioventù se tu scomparso
- dalla mia scena la malinconia
- restava come neve al sol di marzo?

Se l’inverno comincia sulle calde
- e sporche mani un odore di arance
- al quieto sole della festa arde
- nell’aria come qualcosa che piange

«Cullo una solitudine mortale
- nel mortale mattino, che da sempre... »
- Il verso dell’amico si era imposto
- da qualche giorno. Il fiume, come un olio
- lucido e calmo nello stanco agosto...
- Forse mia madre era perduta. Solo
- lucido e calmo mi era intorno, specchio
- a quello specchio nell’ampio silenzio,
- quegli che poi doveva il mio silenzio
- già triste come di un lontano assenzio -
- rompere con tanto mio consenso...
- (Il suo odore, la sera, come un cane
- sporco e fedele dopo le campane).
- Notte d’inverno, la tua dolce boria
- fa lontana, fa buffa questa storia.

Un dì la vita mia era beata.
- Tutta tesa all’amore anche un portone
- rifugio per la pioggia era una gioia.
- Anche la pioggia mi era alleata.

Con il cielo coperto e con l’aria monotona
- grassa di assenti rumori lontani
- nella mia età di mezzo (né giovane né vecchia)
- nella stagione incerta, nell’ora più chiara
- cosa venivo io a fare con voi sassi e barattoli vuoti?
- L’amore era lontano o era in ogni cosa?

Il gatto che attraversa la mia strada
- o bianco o nero stasera mi aggrada.
- Ma non mi aggradi tu stanca puttana:
- chiuditi con un altro nella tana.

Come è bella la luna di dicembre
- che guarda calma tramontare l’anno.
- Mentre i treni si affannano si affannano
- a quei fuochi stranissimi ella sorride.

E l’ora in cui si baciano i marmocchi
- assonnati sui caldi ginocchi.
- Ma io, per lunghe strade, coi miei occhi
- inutilmente. lo, mostro da niente.

Come è forte il rumore dell’alba!
- Fatto di cose più che di persone.
- Lo precede talvolta un fischio breve,
- una voce che lieta sfida il giorno.
- Ma poi nella città tutto è sommerso.
- E la mia stella è quella stella scialba
- mia lenta morte senza disperazione.

La rosa al suo rigoglio
- non fu mai cosi bella
- come quando nel gonfio orinatoio
- dell’alba amò l’insonne sentinella


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