La poesia della settimana: Fabrizio De Andrè
Quando la musica diventa un dettaglio e i versi tracciano piccole storie del mondo, là dove finiscono le dita e inizia una chitarra.
(a forza di essere vento) Khorakhanè
Il cuore rallenta la testa cammina
in quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento
porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio viaggiare
Il cuore rallenta e la testa cammina
in un buio di giostre in disuso
qualche rom si è fermato italiano
come un rame a imbrunire su un muro
saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scrittura
nei sentieri costretti in un palmo di mano
i segreti che fanno paura
finché un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pace
i figli cadevano dal calendario
Yugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via
e poi Mirka a San Giorgio di maggio
tra le fiamme dei fiori a ridere a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadere
ora alzatevi spose bambine
che è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi
anche oggi si va a caritare
e se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio
Fabrizio De Andrè aveva un’idea personale su come giudicare il mondo e la svariata fauna che lo abita. Lo dimostrava con le canzoni, e per esse è diventato famoso, ma era il suo modo di vivere che lo contraddistingueva e che, spesso, metteva e mette a disagio i suoi fan.
E’ diventata una moda citarne le frasi pronunciate, o magari attribuitegli per errore, durante le interviste, poche, ma intense e profonde da non farsi dimenticare. I social network ne sono piene. Eccessivamente. I "mi piace" e le "condivisioni" fanno sfoggio di un ideale che forse non sempre appartiene a chi con esso emula il poeta ligure.
Perché non basta inserire un video del suo ultimo concerto, o strimpellare un suo pezzo con la chitarra, per renderci simili al suo pensiero di libertà. Quella che non riusciva a distinguere le razze, le provenienze, gli idiomi incomprensibili che riecheggiavano assorbite dalla sua sensibilità, che creavano i versi che ispiravano le sue musiche, sempre più sofisticate e ricercate con il passare del tempo.
Eppure il suo messaggio lo aveva lanciato in più occasioni. Quel punto di vista, chissà poi se così vicino a quello di Dio, che racchiudeva il Fabrizio che si esponeva e mostrava l’anima, senza il timore del giudizio, con la spavalderia di chi sa di essere nel giusto, come dimostra la famosa foto con la penna (?) sostenuta dal labbro superiore, arricciato a prendere in giro se stesso, prima che l’osservatore. Quel messaggio cantato nei versi delle sue canzoni, De André lo aveva lanciato. A chi aveva voglia di ascoltarlo veramente.
Quel Creuza de ma, composta in dialetto genovese, era più di un segnale del suo pensiero cosmopolita del mondo. Un disco per raccontarci le sofferenze degli angoli del mondo. Quelle che uniscono l’umanità sotto un’unica ipocrisia che illude l’uomo di poter appartenere a una razza privilegiata, per finire a fare i conti con la propria stupidità.
Perché solo gli stupidi sanno leggere il pensiero dei poeti. Di intelligenti il mondo è pieno. Eccessivamente. Spesso, senza rendersi conto che di loro si riesce tranquillamente a farne a meno. E’ questa capacità di affidare la sensibilità alla stupidità, che sa di umiltà, che ci permette di comprendere quella appartenenza alla razza umana. Contraddittoria, poliedrica, imprevedibile. Speriamo, sempre con quella voglia di stupidità, che ci rende tutti, forse, un po’ più umani.
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