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Un brutto sogno

Da piccola, odiavo Sanremo. Il festival, intendo. Lo odiavo perché teneva unite tutte le famiglie italiane, tutte, tranne la mia. Il motivo è che...

di Alessandra Calanchi - mercoledì 5 febbraio 2020 - 1946 letture

Da piccola, odiavo Sanremo. Il festival, intendo. Lo odiavo perché teneva unite tutte le famiglie italiane, tutte, tranne la mia. Il motivo è che non avevamo ancora un televisore in casa, così i miei genitori andavano a vederlo dagli zii e mi lasciavano in casa da sola, con una radiolina che mi avrebbe permesso di condividere almeno in parte la loro grande serata. Così credevano loro; ma io ero così furiosa che invece di ascoltare le canzoni rubavo sempre un libro dalla libreria di mio padre e passavo tutto il tempo a leggere i romanzi russi e americani.

Da ragazza, odiavo Sanremo ancor di più. La ragione è semplice: erano gli anni della contestazione, e un festival che aveva condotto Luigi Tenco al suicidio (ammesso che le cose stessero così) e che incarnava lo spirito più conformista e sorridente del mio paese (un paese in cui si poteva morire a vent’anni per mano poliziotta o per bombe nelle stazioni) non trovava spazio nelle mie serate, che trascorrevo più volentieri immersa tra i libri di studio o in osteria fra canti spontanei e vino.

Da giovane mamma, vidi finalmente la mia prima edizione di Sanremo: era una donna a condurre il festival e tanto mi bastò a incuriosirmi e - ammetto - ad apprezzarlo. Amai il festival. Amai Sanremo. Poi non lo vidi più, passarono gli anni e semplicemente non mi interessava, avevo altro da fare. Era come una storia di una notte, un uomo che hai amato e subito dimenticato, ma senza alcun rancore.

Anni dopo, da donna matura (un eufemismo per indicare chi ha già passato la mezza età ma ancora non può e non vuole definirsi anziana), ho visto la mia seconda edizione di Sanremo e, stavolta, solo perché me lo chiedeva mia figlia. Ero piena di pregiudizi, ma invece no, quanto mi sono divertita! a  tifare, fischiare, applaudire, tutto mangiando tranci di pizza e arancini di riso, io e lei, come due amiche. E nemmeno lo stupore che seguì - le polemiche sul vincitore, percepito come non abbastanza italiano da una parte del mio paese che mi faceva e mi fa orrore - nemmeno lo stupore, dicevo, bastò a rovinare il ricordo dell’idillio di me e mia figlia che ci godevamo insieme il festival di Sanremo.

Oggi, a distanza di un solo anno, quella mia stessa figlia mi chiede con rabbia di boicottare il festival, di cambiare canale, di spegnere la tv. E così devo documentarmi, informarmi, e scopro cose che vorrei non mi riguardassero, come gli insulti alla Segre sul web, come il femminicidio, cose che vorrei appartenessero a un altro pianeta o non appartenessero a nessuno nell’universo: leggo di un conduttore che avrebbe trattato le donne come fossero esseri inferiori, di un cantante che avrebbe incitato alla violenza contro le donne, e vado a vedere in rete e non voglio credere a nulla, e firmo petizioni che mi arrivano dalle amiche e non mi basta ancora, non mi basta, ho bisogno d’aria e spalanco la finestra e intanto però sento la radio, e qualcuno sta parlando delle ricercatrici che hanno isolato il coronavirus, italiane, e per un attimo sorrido, e le benedico in cuor mio, e per un attimo spero che quello che si dice di Sanremo sia stato solo un brutto sogno, che passerà col risveglio. 



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