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Senza mamma

La figura materna fra assenza e idealizzazione

di Pina La Villa - sabato 3 agosto 2024 - 286 letture

Senza mamma

Gli anni Cinquanta sono, in Italia, gli anni del culto mariano. La Chiesa cattolica organizza processioni di Madonne in tutte le città, accadono miracoli (a Siracusa, la Madonna delle lacrime). La maternità viene esaltata soprattutto nella forma del sacrificio e della purezza dell’amore materno. Nel momento in cui il protagonismo politico delle donne aveva appena cominciato a svilupparsi, a partire dalla resistenza (pensiamo anche alla nascita dell’UDI, Unione Donne Italiane), il ruolo esclusivo proposto alle donne è quello della mamma.

A partire dalla guerra fredda e dalle elezioni politiche del 1948 era cominciata la lunga stagione dei governi centristi a guida democristiana.

La svolta moderata coinvolge vari ambiti. Per restare sul terreno dell’immaginario pensiamo al passaggio dal film "L’Onorevole Angelina" (1947) - in cui Anna Magnani interpreta il personaggio di una capopopolo, al Film "Bellissima" (1951), in cui la stessa attrice interpreta una mamma e il rapporto con la sua bambina, negli anni dei concorsi di bellezza.

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L’onorevole Angelina - immagine dal film
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Bellissima, film con Anna Magnani

Inoltre, a partire dagli anni Cinquanta il cinema neorealista, protagonista negli anni immediatamente successivi alla guerra, viene soppiantato dal successo del cosiddetto neorealismo rosa. Tormento, Catene, I figli di nessuno già nei titoli segnano la svolta moderata.

Una svolta che segna anche lo sviluppo dei fotoromanzi, come ci racconta Anna Bravo:

“le storie si fanno più convenzionali [...]. Il primo problema di questa fase è non trasgredire troppo. Nell’insieme diminuiscono gli scenari di resistenza e guerra, gli intrecci diventano cauti, i buoni sentimenti obbligatori. [...]

“Mentre furoreggia quel vessillo del patetismo che è il bimbo cieco o malato, la cattiva ragazza torna a essere connotata dall’esperienza sessuale prematrimoniale e dall’eccesso di investimento nella carriera, a sfavore della famiglia e delle prospettive matrimoniali. Qualche eroina sceglie alla fine di farsi suora”.

Non sono solo i contenuti delle storie a mostrare questi cambiamenti. Il linguaggio dei fotoromanzi è fatto di immagini e di corpi, è su questo terreno che vanno soprattutto analizzati.

"Come un manifesto programmatico, la prima donna di «Grand Hotel» compare sul primo numero e sulla prima tavola di Anime incatenate. Al mare, su un pattino, Flora si inarca al sole, busto proteso, braccia allacciate dietro la nuca, sorridente, graziosissima. Ha la vita incredibilmente sottile, seno alto, fianchi morbidi, lunghi capelli biondi, lunghe gambe, viso da bimba: […] una Bardot ante litteram, il perfetto sogno maschile, come del resto si addice a un giornale che vuole rivolgersi anche agli uomini. Il due pezzi ha un reggiseno minimo, lo slip è alto, ma lascia scoperto un sospetto di ombelico. […] Manca invece l’esposizione del corpo maschile come oggetto sessuale e prelibatezza gastronomica alla Liala, e non c’è da stupirsi, considerato che persino nel cinema è quasi un interdetto. Gli uomini vestono in giacca e cravatta, o camicia e maglione, i costumi da bagno sono castigati e niente affatto rivelatori".

Ma

"la povera Flora ha vita breve. [… ] Nella quarta puntata di Anime incatenate, il bikini di Flora è già più castigato. Nel giro di pochi mesi avanzano decolletés velati di merletti, abiti più sciolti, maglioncini girocollo, colletti alla Claudine, abbigliamenti da montagna".

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Anime incatenate, I romanzi di Grand Hotel 1948

Nei fotoromanzi degli anni Cinquanta

"Dove l’interdetto regna fin dalle prime storie è nella raffigurazione del desiderio. Seducenti e seduttivi, i corpi non sono destinati ad agire la seduzione, la sessualità si manifesta solo nelle sue conseguenze, e neppure nella gravidanza, ma nel bimbo già nato. Niente baci profondi, carezze equivocabili o corpi incollati: per «Grand Hotel», che tiene al primato della pudicizia, il codice del contatto fra innamorati si rifà a quello del ballo – braccio di lui intorno alla vita o alle spalle di lei, braccia di lei intorno al collo di lui o posate sull’alto del suo torace – o a quello degli affetti familiari – testa di lei appoggiata sulla spalla di lui, braccia di lui che accolgono lei come in un porto sicuro. Più che una stilizzazione, è una parodia dell’incontro amoroso, in cui i corpi esistono solo dalla vita in su, meglio se di schiena e senza particolari in primo piano. […] Nel dialogo con le lettrici, il desiderio femminile è riconosciuto, ma – risposta ovvia quanto scoraggiante per quelle che abbiano già «ceduto» – non bisogna lasciarsene dominare. […] Il desiderio maschile è «naturale», ma minaccioso e potenzialmente ingannatore, e tocca alle ragazze addomesticarlo mentre guidano l’aspirante seduttore verso le nozze”.

Diventare mogli, diventare madri, questi i desideri delle eroine dei fotoromanzi.

Ma che fine faranno queste aspiranti madri, oltre il lieto fine?

A questo proposito sono molto interessanti le notazioni sull’assenza, nei fotoromanzi, della figura della madre. Cito sempre da Anna Bravo, che ha analizzato soprattutto i fotoromanzi fra anni Quaranta e Cinquanta, ma, a proposito di questa figura, le cose non cambieranno molto anche negli anni successivi:

“Se qualche madre di comprimari può vagare sullo sfondo, l’eroe e specialmente l’eroina sono di regola orfani. In un genere per eccellenza popolare sembra un paradosso, invece è una scelta obbligata, e non solo perché il dopoguerra ha visto acuirsi la tensione fra generazioni, in particolare fra madri e figlie. Il punto è che in una storia d’amore semplificata e tipizzata la Mamma rappresenta una complicazione. Se è quella di lui, è la rivale di lei per il possesso del maschio, e sarà la futura suocera, immagine di dubbia popolarità in anni in cui il suo potere familiare resta forte. Se è quella di lei, farle posto è ancora più difficile. Dovrebbe vegliare sulla condotta della figlia e prevenire le trasgressioni, con il risultato che il racconto morirebbe; se la trasgressione avviene comunque, rischia la vita, come in un fotoromanzo di «Bolero» del ’53, dove all’annuncio dell’«irreparabile» prima sviene e poi muore per la vergogna, vittima di un prototipo di figlia snaturata. […]Una madre in scena renderebbe ancora più spinoso parlare d’amore – la Mamma è pudica e felicemente asessuata. Con un comportamento permissivo perderebbe la sua funzione di guida morale, con uno troppo angelico entrerebbe in competizione con la figlia. Uno troppo aspro la trasformerebbe in persecutrice. La letteratura può permettersi la madre cattiva e la cattiva madre, basta pensare al romanzo femminile ottocentesco: molte eroine orfane, ma anche alcune terribili madri vittoriane, furenti, frustrate, sciocche, ridicole, tutte così letali che la figlia può salvarsi solo staccandosene. Ma il fotoromanzo non può capovolgere lo stereotipo della Mamma o ridimensionarne la virtù. I padri figurano in abbondanza e in varie caratterizzazioni, dalla massima severità alla massima indulgenza, dalla probità alla corruzione. Per le madri è meglio l’assenza, o la morte dopo una apparizione veloce. Tanto più che esiste una complicazione aggiuntiva tipica del genere: è il corpo della madre che fa problema, perché nessuna figura ha all’epoca uno statuto negativo come la donna nell’età di mezzo. Secondo alcuni produttori e registi, le lettrici e i lettori non amerebbero vedere figure femminili nella fascia fra i 40 e i 60 anni, che fra l’altro non offriva grande scelta in termini di fotogenia. Il fotoromanzo resterà sempre un universo giovane e di giovani. Il fatto che il pubblico abbracci tutte le età passa in secondo piano rispetto a suggestioni e vincoli del mercato, e addirittura si dissolve di fronte a un fenomeno più intuito che documentato, e molto tenero: quali che siano i ruoli e le trame, le lettrici più anziane non vogliono saperne di interessarsi a protagoniste loro coetanee. Fino a 75 anni viene loro spontaneo identificarsi con le eroine giovani e adolescenti.”

Sarebbe interessante verificare quest’assenza - rivelatrice per molti versi - della figura materna anche in quelle dirette eredi del fotoromanzo che sono le recenti "fiction".

Mi limito qui ad un’assenza famosa, ma poco discussa, quella della madre ne "Un medico in famiglia", una delle più longeve serie televisive italiane andata in onda dal 1998 al 2016.

L’armonia casalinga della famiglia del vedovo protagonista e degli orfani è garantita, sul piano emotivo, da nonno Libero e, sul piano pratico da Cettina, la collaboratrice domestica, che garantisce pasti sani e casa in ordine, oltre ad essere l’oggetto delle bonarie prese in giro dei vari componenti della famiglia per la sua ignoranza e ingenuità. Insomma la collaboratrice domestica ha preso il posto della moglie-mamma in tutti i sensi.

Per il resto - amore, avventure, etc. - c’è la zia, la sorella della mamma morta, una specie di vice-mamma che però abita per conto suo, è single ed è innamorata del cognato.

Ecco, nell’incertezza su come rappresentare la famiglia italiana negli anni Novanta, la fiction, letteralmente, sopprime la mamma, cioè la figura che più negli anni è cambiata e il cui ruolo è stato messo a lungo in discussione.

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I protagonisti di Un medico in famiglia


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