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Il popolo che non ci sta

Due giornate di manifestazione di protesta a Roma. Il diritto al lavoro, il precariato, il diritto alla casa, la questione degli immigrati, i tagli alla funzione pubblica, tra le tante motivazioni.

di Piero Buscemi - domenica 20 ottobre 2013 - 2978 letture

Ci hanno provato in tutte le maniere per scoraggiare il popolo degli antagonisti, come hanno scelto di chiamarlo le principali testate giornalistiche italiane. Sin dalle scorse settimane, raccogliendo l’eredità informativa del recente passato, che aveva regalato al mondo le immagini degli incidenti di piazza del 15 ottobre 2011, senza entrare nel dettaglio delle origini e delle vere responsabilità di quanto accadde allora, si è preferito fare a gara sui titoli allarmistici che avrebbero dovuto frenare l’impeto di rivolta sociale, motivato da ben più nobili sollecitazioni, rispetto alla forma riduttiva scelta dai più per descrivere quanto stava accadendo per le strade della capitale.

Immagini di repertorio e approfondimenti televisivi sul fenomeno dei black bloc, esasperanti paure per i minorenni graffitari coperti dalle maschere di Anonymous e armati di bombolette spray colorate, le temibili mamme NoMuos, con i pericolosissimi passeggini a seguito e qualche centinaio di abitanti del Mediterraneo, un po’ troppo abbronzati come avrebbe detto un famoso esponente della politica italiana degli ultimi venti anni. Ma soprattutto, centinaia di migliaia di cittadini che stanno pagando con il proprio destino la crisi economica di un ambiguo mercato finanziario, rappresentavano un "giudizio" dal quale sottrarsi, per qualsiasi politico italiano.

La concomitanza di uno sciopero generale, organizzato per il 18 dai sindacati di base e preannunciato da mesi, con la imponente manifestazione di protesta del 19, rischiava di mescolare gli intenti e di originare confusione a coloro che guardavano a queste due giornate, come una risposta a quanto sta accadendo nella vita quotidiana del singolo cittadino.

Il precariato, flagello psicologico e sociale di una classe politica che è partita chiedendo il requisito dell’elasticità ai giovani disoccupati, per restituirgli un "ammortizzatore" sociale sul quale far crollare il proprio futuro. Un baratto avulso e perverso, che ha accomunato più generazioni, finendo per coinvolgere anche gli ultracinquantenni, che attendevano gli ultimi anni, diventati decenni con le varie riforme, per andare in pensione.

Ma oggi, in una botte di ferro, non si sente più nessuno. Neanche l’ambito posto statale, più volte ridicolizzato, ma sempre invidiato, dal nostro cinema, rappresenta una certezza per il futuro. Lo abbiamo visto con i precari a tempo indeterminato della scuola, sfruttati e bistrattati per anni, che si sono alternati tra una segreteria del Ministero della Pubblica Istruzione, a leggere le graduatorie, e una coda all’Ufficio per l’impiego, per iscriversi e chiedere il sussidio di disoccupazione.

Capire il disagio e l’impotenza di milioni di lavoratori, stretti al muro e al giudizio dei padroni, quasi a doversi difendere da un’accusa da "costo" del lavoro, non lo si può capire se non vivi la stessa esperienza, con in mano una busta paga sempre meno spendibile, e una notte in più ad attendere la lettera per la cassa integrazione. Nella migliore delle ipotesi.

Chi si attendeva in questi due giorni di protesta sociale una reazione violenta e manipolata da chissà quale mano minacciosa dell’ordine pubblico, si è dovuto ricredere e si è dovuto confrontare con una rabbia pacifica che ha invaso le strade di Roma, trascinata su striscioni, bandiere, cartelloni improvvisati.

Capire che tutto questo è un destino comune, che unisce popoli, estradizioni sociali diverse, ideali opposti, vuol dire prendere coscienza di un baratro sociale che una classe politica opportunistica e un’oligarchia finanziaria ci sta tessendo giorno dopo giorno. Spingendo e fomentando antiche lotte tra poveri, dove oggi il cassaintegrato, il disoccupato, il precario, l’immigrato sono le facce alternate di una stessa medaglia.

Capire che la volontà di disgregazione sociale, la divisione, il razzismo ed anche, l’allarmismo, la cattiva informazione e la rivalità tra classe sociali dello stesso livello, sono le armi migliori che i politici, non solo italiani, utilizzano da secoli per allontanare sempre di più quel nord e quel sud del mondo, di cui tanto si straparla.

Non capirlo, inevitabilmente, è esserne complici.

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