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È questa l’Università che vogliamo?

Tutto è iniziato col considerare le università “aziende”. Il personale, “risorse umane”. Le pubblicazioni, “prodotti della ricerca”. Gli studenti, “clienti” e “utenti”. I docenti, “guide” o “facilitatori”...

di Alessandra Calanchi Massimo Stefano Russo - domenica 5 maggio 2024 - 785 letture

Leggere la notizia che molti Rettori di università pubbliche, in Italia, si stanno aumentando il compenso con effetto domino, non ci rallegra. L’università pubblica, come la scuola, il sistema sanitario, insomma tutto ciò che ci hanno insegnato ad amare e proteggere insieme alle nozioni di democrazia, repubblica e senso civico, si sta disgregando. Impariamo con amarezza (sgomento?) che “possono farlo” a causa di una legge firmata nel 2022 dall’allora primo ministro, in piene emergenze pandemiche prima e belliche poi. Ciò ci rallegra ancora meno. Non faremo nomi, ma ascoltando colleghi di varie università possiamo dichiarare che le stime contenute nell’articolo pubblicato su Open sono sbagliate per difetto.

Non si tratta solo di aumenti – alcuni rettori si sono duplicati, triplicati, quadruplicati l’indennizzo. In atenei dove un contrattista prende un paio di migliaia di euro per tenere un intero corso (compresi esami, tesi e attività didattiche e gestionali), ai collaboratori linguistici viene abbassato lo stipendio e ai docenti di laboratorio vengono offerti 600 euro lordi. Dove negli uffici amministrativi serve personale che non arriva.

Tutto è iniziato col considerare le università “aziende”. Il personale, “risorse umane”. Le pubblicazioni, “prodotti della ricerca”. Gli studenti, “clienti” e “utenti”. I docenti, “guide” o “facilitatori”. Gli esami, “sfide”. I progetti, “incubatori”. Sta tutto nelle parole? No, certo, ma bisognava capirlo, e fermarlo, questo processo canceroso e cancerogeno che ha distrutto ciò che funzionava e sta creando marciume e ineguaglianza. Non diciamo che i dirigenti dovrebbero ispirarsi alla Repubblica di Platone, e lavorare senza compenso alcuno, ma almeno che non giustificassero la loro avidità in nome dell’adeguamento alle loro “crescenti responsabilità”. Troviamo mostruoso questo ragionamento. In questo paese – per fare un esempio, ma ne potremmo fare tanti – ci sono giovani donne e uomini che guadagnano 1.200 euro al mese lavorando nelle scuole primarie come insegnanti di sostegno, in una società cambiata e sempre più complessa, con una crescente richiesta di attenzione e professionalità per gestire i problemi di apprendimento, le fragilità psicologiche, i rapporti complicati con i genitori. Non fanno parte dello stesso sistema “aziendale”? Non fanno parte dei lavoratori della conoscenza? Non fanno parte del mondo che cambia, delle esigenze mutate, non hanno responsabilità pazzesche?

Una società in cui chi è al vertice può aumentarsi lo stipendio (come fanno i politici) o gli indennizzi (come fanno i dirigenti d’azienda, fra cui i Rettori) è una società malata, allo sfascio, prossima alla morte. È una società che ha abdicato ai principi della giustizia e ai valori condivisi. E questa università è pubblica solo perché riceve soldi dallo Stato, e si adegua ai dettami del Ministero, ma quanto denaro riceve dai privati? Lo sa, la gente comune, che gli assegni di ricerca – e anche alcune posizioni da ricercatore – sono ormai possibili solo grazie a finanziamenti di privati? Questa è la libertà della ricerca? Per quanto riguarda la didattica, è d’uopo citare Alessandro Carrera (Sapere, 2022): “Di fatto, da una dozzina d’anni in qua non insegno veramente, faccio il dj. […] Sto facendo il dj della cultura. I miei studenti, peraltro, non sono consumatori estatici. Come utilizzatori di applicazioni (lo stadio successivo al consumo), mi considerano una app che è supposta sapere qualcosa in più di quanto loro siano tenuti a imparare.”

È questa l’Università che vogliamo? Vogliamo davvero spacciare ignoranza mentre le dirigenze si arricchiscono? O non è venuto il momento di una sana protesta condivisa? Indubbiamente l’aumento in busta paga dello stipendio dei rettori che rientra nella logica dei premi di produzione autocertificati dai medesimi e del motto “Siamo bravi e ce lo meritiamo”, deve far riflettere. Da anni in silenzio e sottotraccia nell’Università, dove tutto viene commissionato, si è affermata una controriforma che privilegia la quantità alla qualità. Il criterio passa attraverso i punti e i crediti, a partire dalla formula 3+2 che ha declassato la laurea e reso la vera formazione sempre più elitaria ed esclusiva. Alle facoltà si sono sostituite le scuole, alla laurea il titolo di studio, alla tesi, l’elaborato finale. Un linguaggio aziendale nello spirito neoliberista della competizione dove l’egoismo si afferma come una virtù e la solidarietà viene additata quale fragilità.

Di fatto l’Università intesa nel senso nobile del termine come sede per trasmettere sapere, cultura e conoscenza scientifica si trasferisce nei master e nei dottorati di ricerca riservati all’élite meritocratica, dove vengono sempre più chiamati a insegnare quasi esclusivamente gli ordinari. A “preparare” nelle lauree di primo livello si ritrovano i ricercatori a tempo determinato (Rtd) e gli ultimi ricercatori a tempo indeterminato (ruolo ormai in scadenza), a cui si affidano i moduli corrispondenti agli insegnamenti. Si tratta di ricercatori che da dottori acquisiscono la “nomea” di professori aggregati, chiamati a svolgere la loro attività con l’ausilio degli associati, lanciati in carriera e la garanzia accademica di avallo degli ordinari sovrannumerari, tutto nel rispetto dei dettami istituzionali, in risposta ai requisiti minimi richiesti dal Ministero.

Gli insegnamenti, frazionati in moduli nell’accreditare un sapere minimo, in chiave smart, vedono gli studenti e alla prova d’esame avvalersi più che dello studio, dove si applica l’intelligenza ingegnosa, della furbizia maneggiona, del sapersi dare da fare tra appunti e fotocopie, nell’affidarsi all’arte dell’arrangiarsi nel tentativo di superare la prova. Cosa pretendere da lezioni compresse ridotte in schermate che scorrono commentate a voce alta, rilette alla bella e meglio, dove 6 crediti corrispondono a 6 ore a settimana per 36 ore? Un insegnamento di 36 ore diluito in 6 settimane, al massimo raddoppiato (12=72) che formazione può dare?

Il valore e il ruolo dell’Università lo si è perso da tempo, senza nemmeno accorgercene, con la compiacenza dei docenti cooptati negli ingranaggi del sistema (tra attività gestionali, terza missione e commissioni), nel proliferare in modo sconsiderato di sedi distaccate e insegnamenti autoreferenziali, con la comunicazione fattasi scienza di non si sa bene quale sapere. Quali le conseguenze della nuova Università spacciata di massa che arriva ad accreditare l’ignoranza come “capitale sociale”? Cos’è l’Università oggi?

Formalmente l’obiettivo della laurea di primo livello rientra nel voler fornire un’adeguata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali e acquisire le specifiche conoscenze professionali, come recita il decreto ministeriale n. 270 del 22 ottobre 2004. (La laurea triennale la si ottiene conseguiti 180 crediti formativi universitari (CFU) distribuiti in un massimo di 20 esami. Il titolo, previo l’abilitazione richiesta, permette l’iscrizione agli albi professionali e di immatricolarsi ai corsi di perfezionamento e ai master di primo livello, così come iscriversi ai corsi di laurea magistrale. I concorsi pubblici per i laureati solitamente richiedono la laurea magistrale).

Semplificato lo studio e resa sempre più burocratica l’attività di insegnamento e ricerca di fatto la preparazione universitaria ha sempre meno credito. L’intenzione in questi anni è stata quella di svuotare di contenuti le aule universitarie, trasformando il sapere in citazionismo e conoscenza stereotipata che arriva a rasentare la banalità. I fermenti nelle Università nell’esprimere un atto d’accusa del sistema, rivolti contro il potere politico dominante e la governance accademica accondiscendente, rivelano come un’Università declassata a facile esamificio mette a rischio il pensiero nel suo essere critico e impoverisce il dialogo.

Bisogna ritrovare la capacità di riprendersi l’Università quale fonte primaria di ricerca e trasmissione di sapere scientifico ed evitare che diventi spazio di speculazione e fonte di arricchimento per i privati che attratti da facili e lauti guadagni in diverse forme in essa opportunisticamente investono.


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