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Diciotto anni senza Faber

Era l’11 gennaio 1999 quando Fabrizio De Andrè ci abbandonava a questo mondo di contraddizioni, senza neanche più la consolazione dell’uscita di un nuovo disco da ascoltare.

di Piero Buscemi - mercoledì 11 gennaio 2017 - 4003 letture

Quando si ha l’occasione di fare una visita a Via del Campo 29 rosso, il museo dedicato a Fabrizio De Andrè a Genova, è come rientrare in contatto con il proprio virgilio personale, tra le battute strade di questo folle mondo, provando a mantenersi in direzione ostinata e contraria.

Le sue immagini alle pareti, le copertine dei dischi, le canzoni in sottofondo all’interno del locale, quella strana presenza mistica che ci osserva dalle bacheche espositive e quel silenzio irreale in mezzo agli altri visitatori, coinvolti in un bizzarro rispetto sacro di un posto unico.

Ci riuscivamo meglio, in questo arduo compito di darci delle risposte, adagiando le nostre esistenze su quei versi che ci consentivano di capire ciò che la nostra superficialità ci impedisce ancora di approfondire. Abbiamo conosciuto le storie dei mondi sconosciuti, la città di Sidone in Libano e le stragi di civili, il massacro degli Indiani d’America presso il Fiume Sand Creek, una storia sbagliata come quella di Pasolini non ancora "corretta", il suonatore Jones, attaccato alla vita nonostante i suoi novanta anni.

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Fabrizio-De-Andrè-in-concerto

Abbiamo anche imparato come dedicare canzoni d’amore, con la semplicità e la purezza di versi che non saremmo mai riusciti a comporre, se non avessimo arpeggiato le liriche di De Andrè durante i falò estivi. Le interpretazioni laiche di religioni ipocrite, la paura del mondo dei rom e del loro stile di vita disciolta dalle carezze di Faber che ci ha raccontato un altro genocidio nazista.

Sono passati diciotto anni dalla morte di De Andrè e il mondo ha trasmesso altre orride ispirazioni che, forse, sarebbero diventate canzoni. Guerre mai finite, nuovi olocausti, arroganze di potere, miseria e miseri a tempo indeterminato, lotte sociali di piazza, razzismo travestito da patriottismo. E tanta, troppa crudeltà gratuita.

E’ diventata la consolazione per la perdita di questo poeta, provare a pensare a quante meschinità umane la morte gli ha risparmiato di vivere. Quasi come se qui nel reparto intoccabili, dove la vita ci sembra enorme, perché non cerca più e non chiede, perché non crede più e non dorme (Cose che dimentico), tutti ne sentiamo il gelo e la solitudine davanti alle atrocità del mondo.

Ma non lo dimenticheremo, non solo grazie alle sue canzoni dove troveremo sempre un verso di richiamo alle esperienze che stiamo vivendo in un dato momento, non lo dimenticheremo perché senza la sua musica e le sue parole, ci troveremmo di fronte ad un chiuso e limitato modo di giudicare la vita. Non solo quella nostra.


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