Verso l’America

L’emigrazione italiana tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento in una raccolta curata da Salvatore Lupo per Donzelli

di Pina La Villa - martedì 3 giugno 2008 - 7686 letture

Verso l’America. L’emigrazione italiana negli Stati Uniti Saggi di Bevilacqua, De Clementi, Franzina, Garroni, Luconi, Lupo, Martellone, Massullo, Ramella, Sanfilippo, Stella, Vecoli, Vezzosi. Introduzione di Salvatore Lupo, Donzelli, 2005

Fra gli ultimi anni dell’ottocento e il primo quindicennio del novecento, gli italiani diedero vita a uno dei più imponenti fenomeni migratori dell’età contemporanea. Complessivamente tra il 1876 e il 1915 espatriarono circa 14.027.000 persone: 7.622.650 varcarono l’oceano, 6.137.250 restarono in Europa, i rimanenti si divisero fra gli altri continenti (Sanfilippo). Partirono da tutta Italia, ma furono soprattutto gli originari delle regioni meridionali che approdarono in America. I saggi raccolti nel libro, già presenti nell’opera in due volumi Storia dell’emigrazione italiana, si occupano soprattutto di questa emigrazione, per la quale si dispone di un maggior numero di ricerche e di dati.

I saggi rispondono a diverse domande : Cosa spinse le persone ad emigrare? Quale è l’origine geografica e la composizione sociale degli emigranti? Quali sono le conseguenze dell’emigrazione sul piano macroeconomico e microeconomico? Quali mutamenti l’emigrazione comporta nelle regioni di partenza (sul piano economico, sociale, culturale)? Quali condizioni e comportamenti determina nelle regioni di arrivo? Molte delle domande nascono in maniera evidente da un dialogo molto stretto con l’attualità e leggendo il libro non possiamo fare a meno di confrontare l’emigrazione degli italiani e quella attuale che vede invece l’Italia e altri paesi europei come meta, con le varie questioni aperte: il razzismo, la questione dell’identità, il ruolo delle famiglie.

Cosa spinge le persone ad emigrare? A lungo l’emigrazione è stata associata alla miseria e in particolare alla miseria del Sud e la società rurale è stata “concepita come la sola capace di generare emigrazione, ma in aperta e drammatica rottura con la sua tradizionale stabilità sociale e immobilità demografica”(Bevilacqua). La ricerca storica degli ultimi decenni ha smentito questi luoghi comune. Intanto si partiva da tutta Italia e inoltre, è l’argomento del saggio di Bevilacqua, la società rurale, proprio perché non autosufficiente, appare mobile. “La vita delle campagne, dei borghi, dei paesi, le loro economie e il loro dinamismo sociale sono apparsi saldamente incentrati, più che sull’esclusivo lavoro agricolo, su una multiforme pluriattività” che portava soprattutto gli artigiani, ma anche contadini e piccoli proprietari, a muoversi continuamente. Al lavoro migrante è legata per esempio “una delle grandi innovazioni agricole della Valle Padana, avviata già nel XVIII secolo, la diffusione delle risaie [...] resa possibile dalle migrazioni periodiche delle popolazioni collinari e di montagna richiamati dai salari delle aziende capitalistiche.[...] Esisteva d’altra parte, soprattutto nell’Italia meridionale e in Sicilia, una migrazione agricola più strettamente legata alla geografia delle produzioni e scandita da regolari calendari consuetudinari” (Bevilacqua) Insomma le persone si spostano per lavorare, dove c’è lavoro vanno. “Gli uomini che si sarebbero messi in moto per raggiungere i lontani e ignoti porti delle Americhe avevano alle spalle l’esperienza di una società adusa agli spostamenti, di uomini e donne abituati a sradicarsi dai loro paesi anche per mesi, nella prospettiva di accumulare un piccolo reddito”. Un esempio per tutti di questa tradizione vagante è il caso avvenuto in Calabria attorno agli anni dell’Unità d’Italia. “I grandi lavori che allora si avviarono in Egitto per l’apertura del canale di Suez richiamarono su quel sito del continente africano migliaia di operai e manovali. Ma le mogli degli ingegneri e dei tecnici europei che guidavano gli scavi ebbero ben presto bisogno di balie per allattare e allevare i figli nati là, e misero perciò in moto una domanda elevata e incessante di tali figure, ricercate fra donne di colore bianco e preferibilmente europee. Così, accanto all’emigrazione maschile, si avviò allora un consistente flusso di emigrazione femminile, formato da giovani donne che di fronte alla prospettiva di un lauto e rapido guadagno violavano apertamente le rigide regole della morale del tempo, concependo e partorendo figli spesso senza matrimonio, e rendendo comunque affollato di nuovi nati il brefotrofio di Catanzaro. La cosa, com’è facile immaginare, generò grande scandalo tra le autorità locali, scandalo che peraltro in nulla influì sul fenomeno”.(Bevilacqua)

Il lavoro migrante dei secoli precedenti prepara la rete di informazione e relazioni che determinerà poi i flussi del grande esodo. Ma quali furono le sue cause determinanti?

L’emigrazione italiana è intanto solo una parte del grande fenomeno migratorio dalle campagne che si è verificato in Europa a partire dalla metà dell’Ottocento e che ha assunto dimensioni di massa a causa della crisi agraria della fine degli anni settanta del secolo. “L’arrivo massiccio di granaglie a basso prezzo provenienti dal Nord e dal Sud America, dall’Australia o dalla vicina Russia – reso possibile da mezzi più moderni e veloci di trasporto – aveva innescato sui mercati agricoli un calo costante e irrefrenabile dei prezzi che generò una diffusa depressione economica fra gli agricoltori”. Ma la crisi agì solo da detonatore di processi più generali e profondi che colpivano le campagne: la proprietà fondiaria conosceva un processo di frantumazione (abolizione del maggiorascato col Codice napoleonico e, per l’Italia, il nuovo Codice civile del 1865), aggravato ulteriormente dalla pressione fiscale dello Stato, impegnato a costruire le infrastrutture del paese; la vendita dei beni della Chiesa, la liquidazione dei demani e l’abolizione degli usi civici, privavano intanto il mondo contadino di antichi diritti comunitari; entrava in agonia l’industria domestica. “Nel frattempo, tuttavia, cominciava a cambiare profondamente il rapporto tra le classi nelle campagne. Un esteso bracciantato si era andato formando nelle aziende capitalistiche di pianura, soprattutto nelle regioni padane, e rivendicava nuovi diritti [...] negli anni ottanta esplosero lotte memorabili [...] che produssero un’ondata di nuove inquietudini e di fermenti politici”. Inoltre “il mondo delle campagne si sentiva in declino perché nel frattempo stava avanzando il mondo industriale” e si diffondevano le organizzazioni sindacali e mutualistiche. Insomma “la disgregazione della società rurale era [...] anche una disarticolazione dei suoi antichi blocchi sociali, delle sue oppressive gerarchie, una esplosione di nuove forme di libertà individuali e collettive” (Bevilacqua)

La grande emigrazione di fine secolo fu dunque la manifestazione della nuova divisione internazionale del lavoro, di un mercato del lavoro senza più confini nazionali. Da qui la nuova scoperta dell’America, da parte degli emigranti italiani. “Quella della partenza diventò una sorta di impresa dei poveri, l’avventurosa imprenditoria di artigiani sempre più privi di fonti di lavoro, di piccoli proprietari con terra sempre più insufficiente, e poi di braccianti, manovali, salariati tuttofare[...] Tale caratteristica dell’emigrazione come forma di impresa da lavoro conobbe la sua massima espressione soprattutto nel primo quindicennio del Novecento ed ebbe come protagonisti prevalenti i contadini del Sud”(Bevilacqua).

Se col saggio di Bevilacqua rintracciamo le analisi delle cause profonde e immediate dell’impresa migratoria nella realtà italiana e internazionale, col saggio di Andreina De Clementi seguiamo tutto il percorso del fenomeno migratorio come una grande epopea che si conclude tragicamente.

Il saggio parte da lontano, dall’epoca napoleonica e conferma con vari esempi, quanto già affermato da Bevilacqua a proposito della qualità migrante del lavoro e delle cause dell’emigrazione nelle trasformazioni profonde della campagna italiana all’epoca dell’Unità d’Italia e a contatto con i fenomeni della industrializzazione. Ma, per restare all’argomento che qui interessa, mi soffermo sul paragrafo dal titolo “I caratteri originari dell’emigrazione”. L’analisi delle statistiche ufficiali (che partono dal 1876) consente di identificare alcune costanti del fenomeno migratorio: “in primo luogo, la sua estrema reattività ora alle avversità interne, ora alle sollecitazioni del mercato del lavoro, ora a entrambe. La curva migratoria srotola quindi una linea spezzata, con picchi e crilli di facile attribuzione causale [...] in secondo luogo l’appartenenza emintemente agricola della popolazione mobile [...] e in fine la spiccata mascolinità, indizio di un progetto di rientro a scadenza prestabilita”. A questo proposito, una interessante e utile “digressione” sul genere : “Se però abbiamo annoverato tra i motivi di crisi la scomparsa delle lavorazioni domestiche, alle quali attendevano quasi esclusivamente le donne, e furono quindi la loro attività e i loro guadagni a venir meno, come mai, invece, la popolazione mobile fu costituita in larghissima prevalenza da uomini? Possiamo innanzitutto mutuare una constatazione di fatto, ovverossia, che quanto più distante era la meta, tanto più maschile lo spostamento. Spingendoci un poco oltre, potremmo supporre che alle donne venisse assegnata la sfera di una domesticità oscillante tra i lavori agricoli, anche i più pesanti, e le industrie racchiuse nel recinto familiare e che la divisione dei ruoli propria della famiglia contadina non riguardasse attività specifiche, ma spazi sociali. Ciò non implicava affatto sedentarietà assoluta. Le donne si inurbavano più spesso dei maschi, ma di norma – si badi – finivano nel servizio domestico o in attività similari. Il fatto poi che gran parte della mano d’opera industriale sia stata, specie agli esordi, femminile, non fa che accreditare questa ipotesi, considerato lo stigma sociale che ha marchiato a lungo la condizione di operaia” (De Clementi)

“Partire da soli oppure in compagnia di moglie e figli, e magari, assai più di rado, dei genitori, sottendeva due progetti migratori distinti.[...] L’una intenzione poteva facilmente scolorire nell’altra”(De Clementi)

L’altya interessante questione affrontata da De Clementi è quella della cosiddetta emigrazione tardiva del Meridione (rispetto alle regioni settentrionali). In realtà, se guardiamo al momento cruciale dell’esodo (collocato alla fine degli anni ottanta a causa della fillossera e della pebrina, malattie che colpirono i vigneti e la coltivazione del baco da seta) . In realtà la questione è che i contadini meridionali andarono preferibilmente negli Stati Uniti (30.000 contro i 2.000 settentrionali) e che le rilevazioni statistiche per il periodo precedente includono anche la mobilità transalpina nell’emigrazione estera. “Nessun ritardo, quindi, ma differenze ce ne furono. Anzitutto nelle mete. Gli Stati Uniti furono la Mecca dei meridionali. Diversa fu poi la diacronia, metafora di asimmetrie socio-economiche più profonde. Le punte migratorie non coincisero, o non del tutto. I trasferimenti transoceanici del Sud subirono un’impennata tra il 1885 e il 1888, seguita da una relativa contrazione, mentre sappiamo che la curva delle partenze del nord schizzò in alto proprio a partire dal 1888, vale a dire tre anni dopo. A prima vista, un intervallo irrisorio, ma la simultaneità dei due blocchi richiede un’attenta valutazione dello scarto cronologico” A questo punto i dati relativi al flusso migratorio possono offrire inedite chiavi di lettura della società e della storia nazionale. “Abbiamo già esaminato, sia pure per sommi capi, il ventaglio causale dell’esodo settentrionale, un susseguirsi di contraccolpi inferti dall’immissione dell’economia italiana nel mercato occidentale e, in via subordinata, dall’allargamento del mercato interno e dall’avvio di pur stentati processi di meccanizzazione e centralizzazione. Questo intreccio, non deflagrò prima del 1888. Come mai, allora, il Meridione si allertò qualche anno prima? Una prima risposta la si potrebbe rintracciare in quella fortissima pressione fiscale che, tra il 1885 e il 1887, vi fece dilagare gli espropri con una virulenza sconosciuta al nord. A spingere i meridionali a imbarcarsi per l’America non sarebbero stati dunque i moti sussultori del mercato, bensì un’insolvenza debitoria che aveva nello stato la controparte più esosa”(il mercato e i suoi contraccolpi non penetrarono nel sud a causa della complementarietà fra latifondo e microfondo che ne garantiva l’autosufficienza proprio nell’estrema frantumazione. Insomma la crisi fu capitalistica al nord e dovuta invece all’arretratezza nel sud. Lo conferma, indirettamente, il caso della Puglia e della Sicilia, regioni più avanzate nel sud, che “riluttarono a lungo prima di seguire l’esempio delle regioni limitrofe. Il crollo del prezzo dei cereali non le trovò impreparate. Negli anni ottanta gli agricoltori pugliesi, approfittando della crisi della viticoltura francese stroncata dalla fillossera, si dettero furiosamente a sradicare il grano e a piantare viti, convinti che ciò avrebbe significato la salvezza”. Con la guerra commerciale che eliminò la Francia dagli sbocchi esteri le cose peggiorarono ma “gettarono la spugna solo agli inizi del nuovo secolo”). Conseguenze inusitate ed effetti imprevisti: “Sembrava [...] avverarsi l’antica utopia contadina del mondo alla rovescia. [...] Accadde così che questo enorme flusso di valuta estera finanziò l’industrializzazione italiana del primo Novecento. Le mutazioni demografiche “La popolazione cambiò. Invecchiò e si femminilizzò.[...] I cicli di vita ne uscirono scompaginati. La nuzialità aumentò e l’età matrimoniale si abbassò. [...] La separazione forzata dei coniugi ridusse la natalità, mentre la mortalità infantile andò soggetta a sperequazioni di genere[...] La fine di un’epoca Guerra e minaccia bolscevica portarono negli Stati Uniti al Quota Act (1921 e 1924), in cui era chiaro anche l’intento discriminatorio. Il macro contro il micro La classe dirigente italiana aveva opinioni contrastanti. Nel 1935-36 inchiesta Lorenzoni sembra dare ragioni agli ottimisti (Einaudi e Nitti) perché effettivamente la piccola proprietà contadina era cresciuta anche grazie alle rimesse. Quello che si leggeva solo tra le righe era però che non si trattava della formazione di autentica piccola proprietà contadina ma di un congruo allargamento della proprietà particellare, frammentata e dispersa. “Insomma, la pericolosa classe bracciantile era stata a dovere , ma l’accesso alla terra era risultato impari alle aspettative. La fiducia dei Nitti e degli Einaudi in una riforma agraria autogena, finanziata dall’emigrazione, si era rivelata un’utopia. [...] A farla breve, una pletora di fazzoletti di terra fu pagata a carissimo prezzo.[...] Affittuari, mezzadri, piccolissimi proprietari, braccianti fecero a gara per accaparrarsi qualche zolla. Il trapasso da nullatenente a proprietario conferiva una patente di rispettabilità tutta giocata sul piano simbolico.”

Anni di fatiche andate in fumo, una sconfitta epocale che si aggravò con la “quota 90” che rivalutò e di molto i debiti contratti con le banche. Il peggio sarebbe venuto con la crisi del ’29.

Gino Massullo, nel suo saggio “Economia delle rimesse” affronta gli effetti macroecomici della “fantastica pioggia d’oro” che si riversò in Italia grazie alle rimesse, giungendo a conclusioni non diverse da quelle appena esposte. Le rimesse degli emigranti non finanziarono solo le infrastrutture per l’industria del Nord attraverso il loro impiego in titoli del debito pubblico, ma, mettendo a disposizione delle famiglie una maggior quantità di denaro per i consumi, contribuirono “all’aumento della domanda globale di cui poté avvantaggiarsi l’industria settentrionale in termini di ampliamento del proprio mercato [...] Effetti molto positivi esercitarono le rimesse dell’emigrazione anche sulla bilancia dei pagamenti[...] In questo modo le rimesse dell’emigrazione divenivano un’originale forma di trasferimento di risorse dall’agricoltura all’industria realizzata mediante la collocazione sul mercato internazionale a prezzi certamente competitivi della merce di cui l’Italia più abbondava: la forza lavoro. Elemento essenziale dello specifico modello di sviluppo industriale nazionale; percorso di second comer basato, come è noto, sulla importante azione dello Stato volta a compensare la limitatezza della domanda con l’ampliamento della spesa pubblica e la bassa capacità di autofinanziamento delle imprese attraverso la propria intermediazione finanziaria, e che non avrebbe potuto in alcun modo fare fronte alla vera e propria esplosione del deficit commerciale che si verificò a partire dal 1906 senza l’apporto del denaro fresco inviato in patria degli emigrati”. (Massullo).

Sul piano microeconomico altri cambiamenti si possono registrare: i primi soldi guadagnati servivano a pagare i debiti contratti, spesso con gli usurai. Col tempo i contadini riuscirono a liberarsi dal cappio dell’usura, che continuò a colpire la piccola proprietà non coltivatrice piccolo borghese, trasformando in qualche caso gli stessi emigranti in usurai e comunque trasformando i rapporti sociali nelle campagne e nelle città del meridione, con scandalo dei galantuomini.

Nell’immediato un grande trasformazione fu l’espansione e la differenziazione dei consumi familiari, a partire da quelli alimentari. Ma una certa maggiore propensione ai consumi si registra anche per quanto riguarda l’abbigliamento, il mobilio domestico, attrezzature anche di origine industriale. Nelle case si diffondono le macchine per cucire e nei paesi maggiormente coinvokti dall’emigrazione aumentano anche le botteghe artigiane di sarti e calzolai.

Ma il bene principale restava la casa, con l’immancabile balconcino, “elemento principe dealla rappresentazione sociale della nuova ambizione contadina. [...] Si trattò di una vera e propria trasformazione urbanistica dei mille presepi della montagna e della collina italiana” .

L’altro fondamentale bene era ovviamente la terra. Massullo descrive tutti i problemi connessi a questo acquisto, ma per quanto riguarda le linee generali, come abbiamo detto, le conclusioni non sono molto diverse da quelle di De Clementi.

Prima di parlare del saggio di Stella e Franzina sul razzismo antiitaliano, mi sembra utile, dato che per motivi di spazio non posso riassumerli tutti, enucleare i temi centrali degli altri saggi.

Matteo Sanfilippo si occupa delle tipologie dell’emigrazione, con dati sulle varie regioni, sulle partenze e i ritorni, senza dimenticare la prospettiva di genere.

Una prospettiva utilizzata anche nel saggio di Franco Ramella su “Reti sociali, famiglie e strategie migratorie” che sviluppa tra l’altro il tema già affrontato ad De Clementi sul maggiore successo nella strategia migratoria delle famiglie forti rispetto a quelle deboli (Il caso di Poldo, barbiere napoletano, che aveva lasciato dalla zia moglie e figli, e, avendo inviato il biglietto per farsi raggiungere questo era stato sequestrato dalla zia che rivendicava la restituzione dei soldi spesi per il mantenimento dei familiari).

Col saggio di Rudolph J. Vecoli, “L’arrivo negli Stati Uniti” , ci spostiamo adesso dall’altra parte dell’oceano, per conoscere i nuovi mestieri degli immigrati, la vita delle comunità italo-americane, i sovversivismo politico, come fu vissuta la guerra, il fascismo, la crisi del ’29, la seconda guerra mondiale, in pratica non solo la prima generazione ma anche le altre, con uno sguardo conclusivo sull’oggi.

Gli italiani vivevano fino a pochi decenni fa nelle Little Italies, che ci vengono descritte da Maria Susanna Garroni, non solo con riferimento agli Stati Uniti, dove stanno vivendo una seconda vita, ma nel confronto anche con gli altri luoghi dell’emigrazione italiana.

La mafia è certamente una componente essenziale della vita degli italiani in America. Salvatore Lupo ce ne parla distinguendo gli stereotipi dalla vicende accertate storicamente, ma non sottovalutando il peso dello stereotipo: in fondo se il termine mafia è diventato internazionale la causa è proprio l’incontro degli italiani con la cultura americana.(Da Fronte del porto al Padrino).

Elisabetta Vezzosi si occupa di “Sciopero e rivolta. Le organizzazioni operaie italiane negli Stati Uniti”, da leggere insieme al saggio di Luconi su “La partecipazione politica in America del Nord” per seguire l’educazione politica di una massa di emigranti che in patria non aveva ancora avuto modo di esercitare l’attività di cittadino di una democrazia moderna. Di “Generazioni e identità” ci parla Anna Maria Martellone, seguendone vari aspetti, ma con la questione dell’identità si misurano in particolare Gian Antonio Stella e Emilio Franzina nel saggio “Brutta gente. Il razzismo anti-italiano.

“Non abbiamo spazio in questo paese per “l’uomo con la zappa”, sporco della terra che scava e guidato da una mente minimamente superiore a quella del bue, di cui è fratello” (Arthur Sweeny, Immigrati mentalmente inferiori- Test mentali per immigrati, articolo pubblicato dall North American Revue” nel maggio 1922). Da notare la data: mentre in Italia saliva al potere chi avrebbe dichiarato la superiorità della razza italiana, altrove se ne teorizzava l’inferiorità. Gli emigranti arrivavano gravati, rispetto ad altre etnie, da una lunga tradizione di viaggi in Italia che avevano già accumulato una serie di luoghi comuni. Ad essi si aggiunsero quelli derivanti dalla povertà e dal bisogno, aggravati, a partire dalla fine della guerra, dalla decisione americana di chiudere l’accesso agli immigrati. Il saggio analizza questi stereotipi per temi: Il sangue impuro:

“L’idea che gli immigrati italiani non fossero proprio “bianchi” ma avessero quella che i razzisti americani temevano come la “goccia negra” era assai più diffusa di quanto si immagini ( e suffragati tra l’altro da studi scientifici di italiani).

“Alla fine della costruzione del Canale d’Erie, un capomastro interrogato sul bilancio umano dei lavori si congratulava che ’nessuno è rimasto ucciso, ad eccezione di alcuni wops. [...] solo dei wops’. Wop come without passport, senza passaporto. Un nomignolo che suonava foneticamente uàp. Guappo. Ed era usatissimo un po’ in tutti i paesi anglosassoni.”

Il degrado: “Quello del degrado igienico, sanitario e morale è stato uno degli stereotipi più umilianti per gli italiani. La stampa americana era piena di reportage sul tema” (Stella e Franzina) ’ in un solo isolato di caseggiati che totalizzava 132 stanze, vivevano 1324 italiani emigrati, per lo più uomini, operai siciliani che dormivano in letti accastellati a più di dieci persone per camera, per un intero isolato’ . Non diversa la situazione , e l’allarme , in Australia e in Europa. Una petizione al consiglio di stato di Basilea del giugno del 1901, firmata da una trentina di abitanti della Bartenheimstrasse, nel cuore di un quartiere popolare, denuncia: “le condizioni dei servizi igienici al n. 8 e n. 10 sono preoccupanti. In uno dei caseggiati il gabinetto è guasto e una puzza spaventosa si diffonde in tutto il vicinato[...] I giardini di notte spesso vengono danneggiati e i fiori strappati, cosicché è fatica sprecata volerli tenere in ordine”.

Il traffico di donne e di bambini:“A Nuova York gli italiani vendono le loro donne ai cinesi che abitano l’attiguo quartiere” (Paul Bourget)

“Paolucci de’ Calboli incitava a far sì che la giovane donna dovesse “anzitutto essere premunita contro la tentazione, inculcando in essa al tempo stesso quel vivo sentimento della dignità nazionale che tanto innalza le donne inglesi e fa invece in noi difetto”.

La violenza ’ Il coltello con cui taglia il pane [l’italiano] lo usa indifferentemente per tagliare l’orecchio o il dito a un altro dago. La vista del sangue gli è tanto comune come la vista del cibo che mangia’ (raccolto in Higham, 1963) (dago, da dagger, coltello, pugnale)

’ Il quartiere di Spalen, a Bale, è diventato negli ultimi anni una vera colonia di operai italiani. La sera soprattutto, queste strade hanno un vero profumo di terrore transalpino. Gli abitanti si intasano, cucinano e mangiano pressoché in comune in una saletta rivoltante. Ma quello che è più grave è che alcuni gruppi di italiani si assembrano in certi posti dove intralciano la circolazione e occasionalmente danno vita a risse che spesso finiscono a coltellate” (“La Suisse”, Ginevra, 17-8-1898)

Gli stereotipi più diffusi in questo ambito sono: l’italiano violento e attaccabrighe; l’italiano sovversivo; l’italiano malavitoso. Lo sterotipo è duro a morire. Lo ritroviamo anche nelle parole del presidente Nixon carpite da una delle intercettazioni telefoniche durante lo scandalo Watergate: “Non sono, ecco, non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Dopotutto non si possono rimproverare. Oh, no. Non si può. Non hanno mai avuto quello che abbiamo avuto noi. Il guaio è...Il guaio è che non si riesce a trovarne uno onesto”.

La religiosità pagana: A proposito di feste: “sono seccature, con i rumori stridenti delle bande e lo scoppio dei fuochi d’artificio [...] La maggioranza dei membri di questa società non va in chiesa neanche nei giorni di festa, quasi tutti restano fuori durante la cerimonia religiosa” (Tomasi, 1975). In Australia si ebbe “una reazione scandalizzata fino all’isteria” al tentativo dei nostri di introdurre il culto siciliano dei Tre Santi (Alfio, Filadelfo e Cirino) a Silkwood, nel Queensland.

La xenofobia referendaria svizzera: “Gli italiani sono venuti qui per evitare agli svizzeri i lavori più pesanti: ma ecco che, dopo due, tre , cinque anni cominciano ad aspirare a posti più comodi, fanno studiare i figli. Come dovremmo reagire? (Schwrzenbach, in Chierici 1969)

Pogrom anti-italiani nel mondo:“Tutto era cominciato nella tarda serata del 15 ottobre 1890 quando un poliziotto, David C. Hennessy, era stato assassinato da un gruppetto di killer sconosciuti men tre rincasava (Petacco, 2000). Prima di morire, Hennessy balbettò all’orecchio di un amico che stava con lui: “Latins”. Bastò questo per scatenare la caccia all’italiano che, iniziata con l’arresto e l’imprigionamento di una trentina di italiani (Gambino 1978), si concluse poi con il massacro di una decinadi loro nonostante l’esito negativo del processo nel marzo 1891. Prive di interpreti e fatte oggetto delle minacce delle stesse autorità municipali, che incoraggiarono gli abitanti costituitisi in un comitato “vendicatore” a farsi giustizia da sé, le vittime, aggredite direttamente in carcere da una folla inferocita di oltre 20.000 persone.”


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