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Alexander Zverev trionfa alle Atp Finals

6-4/6-3 il punteggio finale ai danni del numero 1 del mondo, Nole Djokovic.

di Piero Buscemi - domenica 18 novembre 2018 - 5319 letture

Finalmente. Al di là delle delusioni degli sfegatati fan di Federer, che lo hanno visto soccombere in semifinale contro il tedesco, regalando alla storia del tennis alcuni episodi di folclore, con la vicenda della pallina scappata dalle mani del raccattapalle durante una fase importante dell’incontro, oltre ad una delle più belle partite del 2018. Al di la, anche, del sorriso deluso del campione serbo, il cui primo posto nel ranking mondiale, riconquistato con la sua tipica tenacia e continuità, nonostante qualche scettico gli aveva disegnato attorno una sorta di carriera finita anticipata, un primo posto che non è servito a sufficienza a nascondere una sorta di stizza per un’altra preventivata vittoria, sfuggita in finale.

Finalmente. E’ il commento riassuntivo di una fase storica di questo sport che, retto sui risultati alternati di tre ultratrentenni a scambiarsi il vertice mondiale, denota una parabola ambigua di interesse mediatico e di pubblico, tra folli tentativi di cambiarne le regole, vedi i recenti Nex Gen di Milano, e la spettacolarizzazione di tutto il sistema, con le introduzioni degli stacchetti musicali e gli effetti speciali durante i cambi di campo, senza tralasciare le stesse cerimonie di premiazione, degne di una finale di Champion calcistica, tra coriandoli e giochi d’artificio.

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Alexander Zverev

Se a tutto questo, inevitabilmente, ci siamo a poco a poco abituati, una caratteristica di questo sport, amato da sempre in qualsiasi angolo del mondo, che abbiamo evidenziato più volte, è la sua graduale trasformazione in una dimostrazione e confronto tra prove di forza e resistenza, fino allo spasimo, fino all’ultimo game che, spesso, consegna agli annali il nome del vincitore che è stato fisicamente più resistente agli scambi estenuanti di tre ore in media di partita.

Alexander Zverer è figlio di questo nuovo modo di interpretare il tennis moderno. Potente, alto un paio di metri, personaggio segnato dal destino con il suoi capelli biondi e gli occhi azzurri. Forse avrebbe fatto il modello, se non avesse imbracciato una racchetta da tennis, spinto da una tradizione di famiglia, il cui fratello Misha ha rappresentato per anni la punta di diamante, tra il padre giocatore di Davis e suo principale preparatore insieme al recente Ivan Lendl e la madre ex tennista e allenatrice. Un predestinato, come è d’uso oggi affermare. Lo è sicuramente, più di tanti altri speranzosi giovinastri in giro per i campi del mondo, a mostrare prima il personaggio estroso e poi, più raramente il talento.

Il ragazzino di Amburgo è cresciuto, come molti dell’ambiente si aspettavano e avevano preventivato già dalle sue prime uscite tra i juniores. Lo abbiamo visto, in questi anni, alternare prestazioni convincenti a crolli imprevedibili, motivati più da una ancora immatura condizione mentale nell’affrontare gli incontri che ad una lacuna tecnica. E’ cresciuto come il suo gioco. Più frequente sotto rete dove, sfruttando il suo potentissimo servizio, oggi riesce a chiudere di volo le eventuali disperate risposte degli avversari. Sta anche affinando il gioco di fino, con il rovescio in back che usa sempre più spesso, staccando la mano sinistra per spezzare il ritmo dei giocatori più potenti.

Partito in sordina in questa edizione delle Finals, perdendo proprio contro Djokovic nella prima partita del suo girone, ha acquistato fiducia vincendo le altre due partite previste contro Cilic e Isner. In semifinale, come abbiamo già anticipato, si è ritrovato un Federer combattivo e ancora affamato di vittorie. Contro lo svizzero ha dimostrato quei segnali giusti che davano ad intendere che, nonostante i suoi 21 anni, non si sarebbe di certo rassegnato a rappresentare la parte dello sconfitto predestinato. Contro lo svizzero, il fato gli ha dato una mano. L’episodio della pallina "pazza" ha segnato sicuramente il risultato finale, ma innegabile la sua meritata vittoria, del resto riconosciuta dallo stesso Federer.

La finale contro Djokovic ha rispecchiato le attese, almeno per i primi otto giochi. Le elastiche giocate del serbo, a recuperare l’impensabile da fondo campo e a tracciare traiettorie millimetriche in direzione degli angoli più remoti del campo di gioco, hanno avuto la meglio fino al fatidico nono game. Qui un crollo di continuità quasi robotica del serbo, ha consentito al tedesco di andare a servire per il set. Tre potentissimi servizi consecutivi hanno portato il punteggio sul 40-0. Un timido ritorno di Nole nel tentare di prolungare il set, ma risultato vano, costretto a cedere il set al giovane tedesco.

Il secondo set ha dimostrato una inconsueta insicurezza del serbo, costretto a rincorrere il tedesco nel tentativo di recuperare il break a inizio set. 1-3, 2-4, 3-5 la sequenza dei turni di battuta, con Zverev sempre più sicuro al servizio e Djokovic nel provare a contrastarlo con scambi lunghissimi da fondo campo, nella speranza dell’errore dell’avversario. Il tedesco ha resistito alla tattica del serbo e ha chiuso 6-3. Una vittoria netta. Forse eccessivamente. Un trionfo i cui risvolti adesso sono imprevedibili. Immaginare un Zverev più continuo e maturo, pronto anche alle grandi sfide dei 5 set previsti negli slam, è plausibile ma non scontato. Di certo, non è difficile prevedere un ruolo da protagonista anche nella prossima stagione. Ancora più scontato è pensare che i "vecchietti" del ranking, che avranno ancora la voglia di dire la loro anche nel 2019, saranno prima o poi costretti a cedere lo scettro a questo nuovo "maestro" del tennis moderno. Quanto meno, per un inevitabile ricambio generazionale. Verrebbe da dire: finalmente...


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