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Un ministro evanescente preoccupato solo della sorte del suo principale

Si spendono 11 milioni di euro l’anno per gli inutilizzati "braccialetti", ma non ci sono soldi per curare i detenuti e neppure per i detersivi. In Tribunale, a Milano, per il processo Ruby, si coprono le gabbie così da non farle vedere ai giornalisti stranieri

di Adriano Todaro - martedì 26 aprile 2011 - 3064 letture

Sarei molto curioso di sapere cosa pensa il nostro Angelino Alfano, ministro della Giustizia. Sì, sono curioso di sapere se oltre a studiare leggi prêt-à-porter per il suo principale, abbia mai pensato alle carceri italiane, se si sia mai interessato di come vivono detenuti, agenti, personale vario all’interno delle carceri. Cosa penserà Angelino nostro quando il suo segretario gli farà presente che un altro detenuto si è ammazzato, magari un ragazzo di 21 anni, magari uno straniero, uno zingaro?

Forse non penserà affatto. Forse è troppo stanco dopo aver passato giorni, settimane, mesi alla ricerca di qualche cavillo per una nuova legge a favore del suo amministratore delegato. Alfano è un ministro perfettamente al passo con i tempi, uno dei più evanescenti. Non che i suoi predecessori fossero molto meglio. Fra Mastella e Fassino, difficile riuscire a dire chi ha svolto meglio la sua opera di responsabile della Giustizia. E così questo avvocato di Agrigento, classe 1970, dalla carriera fulminante, forse un giorno diventerà anche presidente del Consiglio. Nel frattempo studia. Studia come salvare Berlusconi dai processi.

Quello che non fa, invece, è interessarsi delle carceri. Ed anche degli sprechi che avvengono nelle carceri. Già varie volte abbiamo denunciato su queste colonne lo scandalo dei “braccialetti elettronici”, uno strumento introdotto nel 2001 e subito fallito considerato che il primo detenuto che lo portava, è fuggito. Ma se i detenuti scappano, le bollette bisogna pagarle lo stesso. Il contratto stipulato con il gestore di telefonia prevedeva che lo Stato pagasse 11 milioni di euro all’anno, per un minimo di 10 anni. Quindi abbiamo continuato a pagare questa stratosferica cifra senza utilizzare i braccialetti.

Se Alfano dirigesse un’azienda privata, invece che utilizzare i soldi di tutti, lo avrebbero già cacciato a calci nel culo. Ma, si sa, noi siamo magnanimi e ci preoccupiamo dell’ultima fesseria detta dalla scosciata valletta seduta sugli strapuntini bianchi del prode Vespa, piuttosto che sapere come i nostri governanti spendono i nostri soldi. E il ragioniere di Sondrio che il mondo c’invidia, tal Tremonti, non ha nulla da dire? E l’impavido Brunetta?

Non dicono nulla e intanto gli uffici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non hanno neppure la carta per le fotocopie. Nel carcere di Lucera, in provincia di Foggia, all’entrata, all’aperto, sono state posizionate delle sedie, unico modo per accogliere i familiari dei detenuti che ricevono visite dei familiari quattro giorni la settimana. Può piovere e fare freddo, esserci un caldo pazzesco, quelle sedie sono là in attesa dei parenti che si sono sobbarcati anche lunghi viaggi per riuscire a stare un po’ con il proprio familiare. Le sedie le ha messe monsignor Domenico Cornacchia il quale afferma che “Come chiesa locale ci sentiamo umiliati e mortificati per la situazione che queste famiglie sono costrette a vivere che con le dovute proporzioni è paragonabile a quella di Lampedusa, con i concetti di accoglienza e sensibilità che possono essere tranquillamente trasferiti”.

Si sentirà umiliato e mortificato il nostro Angelino? Certo che no. Lui viaggia con l’autista e poi non frequenta le carceri. Eppure dovrebbe farlo perché così capirebbe quante tragedie, quanta disperazione esiste all’interno di quegli istituti. Certo, dentro ci sono coloro che hanno fatto del male, molti hanno ucciso, truffato, insomma, come si suol dire, hanno fatto piangere tanta gente. E’ giusto che siano in galera. Ma questo non vuol dire assolutamente che oltre a privarli della libertà li devi anche privare della dignità, dei diritti, in quanto persone. Dentro ci stanno soprattutto coloro che non si possono fare le leggi a loro misura, i poveracci, quelli senza potere contrattuale e senza uno Scilipoti a cui rivolgersi.

Se Angelino Alfano fosse un attento ministro, allora forse saprebbe che in pochi mesi, dal gennaio 2011 al 22 aprile ci sono stati, nelle carceri che lui dovrebbe dirigere, 19 suicidi. In quei mesi sono morti 50 detenuti per varie cause, saprebbe che in 10 anni, nelle carceri italiane, sono morti oltre 1.700 detenuti, di cui 1/3 per suicidio.

Se frequentasse le carceri, Alfano saprebbe che si vive ammassati nelle celle, che non c’è spazio per nessuna attività, spesso si sta 20 ore su 24 sdraiati in branda considerato che i posti nelle carceri sono 45.320 e ci sono 22.280 detenuti in eccesso. Qualcuno dovrebbe informarlo che dopo il suo stato di emergenza per le carceri, la situazione si è aggravata. Il governo ha creato 1.265 nuovi posti ma i detenuti sono cresciuti ad un ritmo doppio, per la precisione 2.533 unità. Coloro che hanno beneficiato della cosiddetta legge “svuota carceri” (che consente la detenzione domiciliare a chi ha un anno di pena residua da scontare) sono stati solo 1.788 di cui 430 stranieri. E sa, il signor ministro, quanti detenuti, in tutta Italia hanno la possibilità di eseguire lavori di pubblica utilità? Bene, glielo diciamo noi: 41!

Se frequentasse le carceri, verrebbe a sapere della morte, nel carcere di Padova, di Federico Rigolon, 38 anni, condannato ad una lunga pena detentiva, in carcere dal 2004. Secondo quanto raccontato da Ristretti Orizzonti, Federico si lamenta, grida di avere atroci dolori. Viene portato nell’infermeria del carcere. Una dottoressa lo visita e la sentenza del medico è che sta “simulando”. Dottoressa e detenuto litigano, lui inveisce con male parole. Poi viene riportato in cella. Quando, all’una, tutti escono dalle celle per l’ora d’aria, Federico Rigolon resta in branda, sdraiato. Quando i compagni rientrano, lo scuotono per svegliarlo e si accorgono che non respira più. Ha smesso, per sempre, di “simulare”.

Certo che a Dioune Sergigme Shoiibou, 30 anni, proveniente dal Senegal era difficile dire che “simulava”. Poco prima del suo arresto, era stato operato al cervello per rimuovere un ematoma. Un intervento che lo privava di parte della calotta cranica. Le sue condizioni erano compatibili con il carcere? Per le autorità evidentemente sì visto che dal 27 marzo scorso stava nel carcere Mammagialla di Viterbo ed è morto. Perché non si sono utilizzati gli articoli di legge che prevedono, in certi casi, di scontare la pena fuori dal carcere? A casa o in un luogo di cura? Se l’ha chiesto e lo ha chiesto alle autorità Luigi Nieri capogruppo Sel nel Consiglio regionale del Lazio. “Non è accettabile – ha sottolineato Nieri – che un uomo, in gravi condizioni di salute, sia stato lasciato morire senza pietà e nel completo abbandono”.

Già, la pietà. Sentimento nobile ma che non attecchisce nelle carceri. Ad Augusta un detenuto non può effettuare la dialisi perché il mezzo a disposizione è sprovvisto di carburante. Manca la benzina, non ci sono fondi denuncia un sindacato della polizia penitenziaria che scrive un comunicato dove si chiede quando qualcuno “risponderà all’opinione pubblica dei fatti che accadono nelle carceri”. Saremmo tentati di rispondere “mai”. Mai fino a quando ci saranno questi pupazzi che ci governano, sino a quando i cittadini continueranno ad essere avvelenati dai giornali, dalle Tv, sull’esigenza di sicurezza. La sicurezza, però, dovrebbe valere anche per i detenuti. Un ragazzo di 21 anni che, esasperato, ha ucciso il padre ha o no il diritto di essere seguito, di essere sostenuto psicologicamente? Un ragazzo di 21 anni che dice, durante l’interrogatorio con il magistrato, che cercherà di ammazzarsi deve essere tenuto sotto stretta sorveglianza oppure siccome è un parricida può fare quello che vuole? Lo scorso 1 aprile, Filippo Longo, questo il nome del ragazzo, si è messo a pancia in giù nella sua branda. Dopo un po’ il suo compagno di cella ha visto sgocciolare per terra del sangue e ha dato l’allarme. Grazie al pronto intervento di un poliziotto, Filippo è stato salvato. Si era tagliato le vene dei polsi, di nascosto, a pancia in giù per non farsi notare dal compagno di cella. Questa volta è andata bene, si fa per dire. Ma se il poliziotto pensava che stesse simulando, ora ci sarebbe un altro morto.

Dicevamo della mancanza di benzina nel carcere di Augusta. Non è un caso limite. Nelle carceri manca tutto e ci si arrangia come si può. In quello sardo di Is Arenas non hanno neppure i soldi per acquistare detersivi e disinfettanti e per pagare i detenuti addetti alle pulizie. Qua sono gli agenti di polizia penitenziaria a ribellarsi perché tutto ciò, affermano, va contro “la nostra dignità, umiliata per essere costretti a lavorare in mezzo alla sporcizia”. E in più ci sono carenze di personale. Ma questo vale per tutte le 216 carceri italiane visto che mancano psicologi, educatori, assistenti sociali.

Per finire, un episodio che la dice lunga su come vanno le cose, in campo giudiziario, nel nostro Paese. Per la prima udienza del processo sul caso Ruby a carico di Silvio Berlusconi, le gabbie della maxi-aula della prima Corte d’assise d’appello di Milano sono state coperte con grandi teli bianchi. Secondo quanto hanno spiegato alcuni ambienti giudiziari, i teli bianchi erano stati messi perché nelle aule dei vari tribunali d’Europa non ci sono più le gabbie e il processo al presidente del Consiglio sarebbe stato seguito da numerosi cronisti da tutto il mondo. Insomma, abbiamo vergogna di noi stessi e non potevamo fare vedere, in tutto il mondo, questa bruttura.

Il giorno dopo, nella stessa aula, c’è un processo, per sfruttamento della prostituzione, ad un gruppo di romeni. I teli sono stati tolti e gli imputati ficcati nelle gabbie. Siamo tornati alla normalità vergognosa perché come è risaputo, i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge. Con buona pace di Angelino Alfano.


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