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Mafia: alcune indicazioni da Falcone e Borsellino

Il modo migliore di ridurre il rischio della retorica è certamente il tentativo di riattualizzarne almeno alcuni degli insegnamenti.

di Augusto Cavadi - mercoledì 19 giugno 2024 - 399 letture

Nei mesi tra maggio e luglio di ogni anno ci si ricorda (anche se con intensità decrescente, per ovvie ragioni generazionali) delle stragi del 1992 per assassinare Falcone e di Borsellino. Il modo migliore di ridurre il rischio della retorica è certamente il tentativo di riattualizzarne almeno alcuni degli insegnamenti.

Una prima consegna ereditata non solo da Falcone e Borsellino, ma da tutto il pool antimafia fondato da Rocco Chinnici (assassinato con una bomba nel 1983) e coordinato successivamente da Antonino Caponnetto (sino al 1988), è di non regalare alla mafia né il “silenzio” né il “rumore” (Graziella Priulla): né la clandestinità epistemica – quasi che non fosse un oggetto di studio degno d’interesse – né la spettacolarizzazione folkloristica. Se la storia della mafia è un intreccio di “continuità” e di “trasformazione” (Umberto Santino) non possiamo rinunziare né a scavare nel suo passato né a monitorarne i sorprendenti adattamenti: del tutto opportuni, dunque, convegni interdisciplinari come “Mafia e antimafia oggi” organizzato da alcuni Dipartimenti dell’Università di Palermo nei giorni 17 – 18 maggio 2024.

Una seconda consegna è di inserire le associazioni criminali mafiose (soprattutto Cosa nostra) nel contesto socio-politico di ogni periodo storico. Cinquemila “uomini d’onore” (su cinque milioni di abitanti in Sicilia) non costituirebbero un cancro devastante se non fossero in rapporti organici con una cerchia molto più ampia (il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta propendeva per circa un milione) di concittadini: se, quando parliamo di mafia, non pensiamo a questo “sottoinsieme” (o “sottosistema” o “blocco sociale”) non cogliamo nel segno. Gli affiliati alle cosche non avrebbero resistito dall’unità d’Italia a oggi se non avessero tessuto una rete di relazioni sociali con concittadini appartenenti a tutti gli strati sociali e a tutte le fasce d’età. Tra questi concittadini (filo-mafiosi e para-mafiosi per interesse o per affinità culturale o per paura o per altre ragioni) i più preziosi per le cosche sono certamente gli esponenti del mondo politico, della burocrazia statale, dell’imprenditoria e della finanza. Tra l’esercito in armi di Cosa nostra e questa “Cosa grigia” (Giacomo Di Girolamo) i rapporti di forza sono variabili: sembrerebbe che, grazie all’efficace repressione giudiziaria degli ultimi decenni, l’ala militare sia in posizione subordinata (Salvo Palazzolo su “Repubblica-Palermo” scrive in questi mesi di mafiosi che fanno la coda nelle anticamere dei politici); ma che, tuttavia, non sia a corto né di profitti illeciti (grazie soprattutto al traffico delle droghe di ogni genere) né di influenza sociale (se è vero che, come risulta ai militanti di “Addio Pizzo”, sono adesso i commercianti che vanno a chiedere protezione e supporto promozionale ai mafiosi e che i candidati ai vari turni elettorali continuano a negoziare l’acquisto di preferenze).

Una terza consegna almeno va ricordata a più di tre decenni dalle stragi del ’92: lo stile “nonviolento” che caratterizzava gli interrogatori condotti da Falcone e da Borsellino. Questo aspetto, che sarebbe già degno di menzione dal punto di vista etico, è rilevante anche dal punto di vista dell’efficacia investigativo-giudiziaria. Chiunque abbia consuetudine con detenuti per reati commessi all’interno del mondo della criminalità mafiosa sa quanto sia difficile mantenersi in equilibrio fra il moto di disprezzo verso quel mondo di carnefici spietati e il rispetto per la dignità delle persone con cui si interloquisce (e di cui non si ha diritto di escludere il rinsavimento operoso). Danilo Dolci espresse questa ambivalenza in versi limpidi: “Un mafioso è un mafioso./In quanto per sistema è prepotenza/parassitaria, occorre eliminarlo/mentre l’uomo che è in lui (non è facile/ distinguere il mafioso dalla mafia/ e l’uomo dal mafioso;/negli altri e in noi, in ogni forma possibile)-/ va educato a vivere da uomo”. I casi di Falcone con Buscetta e di Borsellino con Rita Atria sono eloquenti: nessuna demonizzazione dell’interlocutore radicato in famiglie mafiose, in alcuni casi addirittura affezione paterna. E’ un approccio che non sempre funziona, evidentemente; ma quando funziona, scardina barriere ataviche e consente di entrare – mediante l’animo di alcuni soggetti – nei meandri organizzativi delle associazioni di stampo mafioso.


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