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Quale Storia? Le motivazioni della sentenza al processo «‘ndrangheta stragista»

È vero, la ricostruzione della nostra storia collettiva non può passare soltanto dalle aule giudiziarie e dalle relative sentenze, come asseriscono tanti osservatori

di francoplat - mercoledì 20 marzo 2024 - 708 letture

C’è bisogno di una riflessione ulteriore, affidata a coloro i quali della Storia si occupano per mestiere, che affrontano il passato con un armamentario metodologico e concettuale raffinato, che incrociano i dati, assemblano le voci, intrecciano i fenomeni e li connettono tra loro e con processi più ampi, che inglobano le sentenze all’interno di una ricostruzione di maggior respiro, che collocano criticamente le voci della “giustizia” in un contesto non neutro, anche loro – le voci giudiziarie – inevitabilmente orientate, per quanto improntate al rispetto del dettato legislativo.

C’è bisogno che i tanti decenni della nostra storia repubblicana passino al vaglio di un certosino lavoro di scavo, per verificare in che modo si sia srotolata la vicenda collettiva del potere e di quest’ultimo in relazione a coloro i quali avrebbe dovuto ricevere, da un potere non rapace e in uno Stato realmente democratico, il riconoscimento dei loro diritti, l’attuazione di quei princìpi liberal-democratici e sociali ai quali si richiama la tanto discussa e stropicciata nostra Costituzione. Ce n’è bisogno perché questo Paese vive, da sempre, in una sorta di ottundimento della memoria; perché i conti con il passato non riguardano il mondo dei morti ma il senso profondo dell’attualità, come e perché siamo arrivati sino qua; perché siamo quello che siamo e, soprattutto, cosa siamo.

Più volte, su queste stesse pagine, è capitato di scrivere che sarebbe opportuna una coraggiosa rilettura della vicenda italiana, filtrata attraverso una lente rifrangente particolare: il peso, l’incidenza del potere mafioso sulla storia nostrana. Sia chiaro: non si tratta di immaginare uno stravolgimento radicale delle sorti della nazione, ma di correggere, da un lato, l’analisi delle consorterie criminali e, dall’altro e correlato a tale analisi, il percorso storico italiano alla luce di quegli accadimenti attraverso i quali, anziché in una direzione, lo sviluppo sociale, politico, economico e culturale del Paese ha imboccato un’altra strada. Per quanto riguarda l’analisi della vicenda mafiosa, ci si riferisce alla necessità – suggerita da Enzo Ciconte – di strappare la storia delle cosche da un’analisi di una storia esclusivamente criminale per collocarla all’interno di «una sostanziale storia del potere» (“Mafie del mio stivale”, 2017). E, se ciò è vero, risulta comprensibile l’altra urgenza, ossia quella di indagare in che modo tale relazione – mafie e potere – abbia inciso sulla storia patria. Isaia Sales, un altro storico, in più di un’occasione ha osservato quanta amarezza desti il fatto che alcuni episodi, lontani e recenti, della nostra vicenda unitaria non trovino posto nelle analisi della storia con la “s” maiuscola, quanto risulti poco comprensibile aver espunto le cointeressenze fra mafia e potere da alcuni momenti chiave del Paese: dal soffocamento delle istanze contadine dei Fasci siciliani, operato grazie anche alle armi mafiose, al peso politico della strage di Portella della Ginestra sul voto siciliano nelle elezioni nazionali del ’48, dopo che le regionali dell’anno precedente avevano dato al “Blocco del popolo” (formato da PCI e PSI) una maggioranza relativa del 30%. Ancora: è così irrilevante l’accertato coinvolgimento della ‘ndrangheta e di Cosa nostra nel tentato e poi rientrato golpe Borghese del 1970?

Si dirà che quegli avvenimenti non hanno comportato il crollo del sistema repubblicano e democratico, che, a dispetto dell’atteggiamento repressivo del vecchio Crispi, in anni più vicini a noi il piano dei diritti collettivi è stato consegnato ai nostri connazionali. In parte ciò è vero, ma solo in parte. Perché, se è innegabile che oggi l’Italia non sia più quella orientata alla difesa a oltranza dei privilegi del blocco agricolo (e mafioso) a detrimento delle condizioni di vita del ceto contadino, è anche vero che la persistenza delle mafie, che molto deve al suo lontano intreccio con alcune strutture del potere, ha determinato e determinato tutt’ora l’erosione di quegli stessi diritti per una parte dei cittadini italiani. Vale la pena sottolineare, a mo’ di esempio, quanto comporti per i calabresi un sistema sanitario pregno della presa ‘ndranghetista – e della correlata collusione di una parte degli amministratori pubblici – o, ancora, può essere utile rammentare quanto scrisse nel 2022 la Dia nella relazione semestrale dell’anno precedente: a fronte di un potenziale azzeramento dell’indice di presenza mafiosa nel Mezzogiorno, secondo alcune stime si assisterebbe, in questa parte della penisola, «a un aumento del tasso di crescita annuo del PIL di 5 decimi di punti percentuali (circa il doppio rispetto all’analogo esercizio per il Centro Nord)». E, per ultimo, non è forse di qualche rilevanza il fatto che, dal 1991 a oggi, circa cinque milioni di persone si siano trovate a vivere in amministrazioni sciolte per mafia, ossia l’8% della popolazione italiana in ben 11 delle 20 regioni italiane? Ossia a vivere in realtà locali nelle quali era stato compromesso qualsiasi indirizzo di governo orientato al servizio della collettività e improntato alla logica del profitto personale o di cosca.

Non è vero che, riannettendo il fattore mafioso in una più puntuale analisi del peso che esso ha rivestito e riveste sulle dinamiche collettive, sulle condizioni di vita, sulle scelte individuali e comunitarie, ci troveremmo dinanzi una storia simile, perché, pur senza snaturarla, quel fattore e il suo abbraccio con altre forme organizzate di potere – lecito o meno lecito – ha contribuito a condizionare in qualche modo la nostra storia. In tal senso, assume un forte rilievo quanto, di recente, è stato sottolineato dalla motivazione della sentenza d’Appello del processo “’ndrangheta stragista”. Molti quotidiani hanno già trattato ampiamente la questione, fornendo particolari e dettagli di una motivazione ponderosa, di circa 1400 pagine, che precisa il perché della conferma, in secondo grado, dell’ergastolo inflitto un anno fa a Giuseppe Graviano e a Rocco Santo Filippone per l’omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo nel 1994. Accogliendo le richieste della procura generale e della Dda di Reggio Calabria, oltre che le risultanze dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e del suo collegato Walter Ignazitto, la Corte d’Assise d’Appello traccia un quadro drammatico del contesto in cui si collocò quell’omicidio, quello cioè delle “stragi continentali” dei primi anni Novanta.

È una vicenda in larga parte nota, che qui si riassume per brevità. ‘Ndrangheta, Cosa nostra, massoneria e servizi segreti deviati, non senza il contributo dell’eversione di destra e di un segmento della politica, avrebbero portato un attacco allo Stato, volto alla sua destabilizzazione; per quanto, va precisato, i fini e gli obiettivi delle forze sopra indicate non fossero necessariamente sovrapponibili. Obiettivo dei clan era sostituire la vecchia classe dirigente, macchiatasi del peccato di non aver adeguatamente preservato le cosche dalle sentenze del maxi-processo, con un altro referente politico, inizialmente individuato in una potenziale forza autonomista – la Lega meridionale –, e, in seguito, nel nascente partito di Forza Italia. Si lasci parlare il documento redatto dal presidente della Corte d’Appello, Bruno Muscolo, e dal giudice a latere, Giuliana Campagna: «con tutta evidenza Cosa nostra e la ‘Ndrangheta si interessarono al nuovo partito di Forza Italia […] con alcuni dei cui esponenti i siciliani avevano avviato contatti, tant’è che le stragi cessarono nel corso dell’anno 1994, sussistendo l’aspettativa che il nuovo soggetto politico avrebbe ‘aiutato’ le organizzazioni criminali che l’avevano elettoralmente sostenuto».

Per Cosa nostra e per la ‘ndrangheta, recitano i giudici, lo scopo era quello di costringere le istituzioni a trattare, esercitando «una pressione sempre più asfissiante e ad ampio raggio nei confronti dello Stato, in vista del raggiungimento degli obiettivi inerenti l’eliminazione del regime previsto del 41bis dell’ordinamento penitenziario e la modifica della legislazione sui pentiti». In realtà, neanche il nuovo referente politico, ossia Forza Italia, avrebbe del tutto soddisfatto i boss, almeno stando alle intercettazioni relative a Giuseppe Graviano, che nel dialogo con Umberto Adinolfi, carcerato insieme a lui, avrebbe manifestato la propria delusione in quanto, «nonostante l’appoggio politico, non era intervenuta alcuna attenuazione del regime del carcere duro né le altre modifiche auspicate dalle organizzazioni criminali, tant’è che numerosi detenuti lamentavano il mancato adempimento degli impegni assunti».

Dal risentimento di Graviano contro «quello del Canale 5», grazie al quale pensava di avere «il Paese nelle mani», alla precedente furia di Riina per il “tradimento” della Dc – da cui l’omicidio di Salvo Lima – agli attentati del ’93 e del ’94; dalla costruzione, per fini di depistaggio, della sigla “Falange armata”, con cui sarebbero stati compiuti omicidi eccellenti e le stragi e che, a detta dei giudici, sarebbe una creazione dei servizi segreti, al «presidio mafioso» in casa Berlusconi rappresentato da Vittorio Mangano; dal coinvolgimento della ‘ndrangheta nel rapimento Moro alla decisione della ‘ndrangheta stessa di collaborare al piano stragista di Cosa nostra, il materiale documentario in questione restituisce uno spaccato dal quale è difficile staccarsi senza veder confermato quanto osservato sopra, ossia che appare urgente porre mano a una più accurata narrazione del nostro passato. Quella vergata dai giudici di Reggio Calabria è una motivazione che altrove, forse, farebbe tremare le vene e i polsi, ma da noi pare non aver scosso troppo le coscienze di governanti e governati, essendo nota, di quelli, la sostanziale indifferenza al problema da decenni e, di questi, l’ignoranza delle faccende sporchissime del caso Italia.

A conferma della rilevanza complessiva dell’analisi giudiziaria, vale la pena ancora sottolineare come gli estensori del documento, attraverso le considerazioni del commissario capo della Dia, Michelangelo Di Stefano, trovino punti di contatto in una lunga serie di avvenimenti che, prima ancora di approdare alle stragi degli anni Novanta, hanno costituito parte integrante della storia italiana: il golpe Borghese, il rapimento e la morte di Aldo Moro, il caso Sigonella, la struttura paramilitare Gladio, il caso Moby Prince. È questa sequenza cronologica che i giudici ritengono «sintomatica dell’interconnessione assolutamente palese tra eventi e soggetti che forniscono una chiave di lettura convergente e univoca», ossia la sinergia tra forze eversive di varia natura. Una sinergia così tanto pervasiva e reiterata che rende insopportabile e inaccettabile il racconto ordinario della storia di questo Paese.

Come si è detto all’inizio e per dare un timbro di coerenza all’articolo, non è sufficiente questo pur poderoso documento giudiziario per enunciare una verità priva di ombre su quegli anni, non è sufficiente fermarsi all’analisi della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria per provare a comprendere quale sia stata la reale portata della relazione tra una certa politica e il mondo mafioso siciliano e calabrese e la partecipazione di altri compagni di merende tra massoneria, servizi segreti deviati, eversione neo-fascista. Ma il copione di quegli anni non è una novità assoluta, come non è una novità assoluta il silenzio di tomba sulle vicende meno dichiarabili di questo Paese. Non si è ancora levato un novello Mario Scelba odierno a dichiarare che «la mafia non esiste da tempo», come l’allora ministro dell’Interno dichiarò in una tribuna politica nel Sessanta. E tuttavia ci troviamo dinanzi alla grottesca situazione per cui una fetta rilevante della nazione ha cantato le lodi, sino a elevarlo al “famedio”, di un uomo le cui responsabilità politiche appaiono gravi, tanto che avrebbero richiesto, almeno, la discrezione di un silenzio, se non onesto, almeno furbo.

Ma non si tratta di un solo uomo, non si tratta di scalzare il “Cavaliere” dal piedistallo su cui, per tante ragioni, non avrebbe dovuto essere collocato. Si tratta di valutare una lunghissima stagione politica, che dalle carceri borboniche, dentro le quali presumibilmente nacque la camorra, giunge sino a Crispi, Giolitti, passando per la nebulosa vicenda del prefetto Mori – che urtò frontalmente la mafia militare, ma non incise su quella apicale – e continua, poi, con gli anni del Centrismo, in piena età repubblicana, giungendo sino a noi, allo stalliere Mangano. «Governare, è far credere», asseriva l’inventore della scienza politica, Niccolò Machiavelli; e noi stiamo credendo, o facciamo finta di credere, a una storia che fa acqua da tutte le parti, che raccontiamo incompleta, parziale, fingendo che lo Stato, univocamente orientato al servizio ai cittadini, abbia tenacemente operato affinché i nemici della democrazia fossero resi inermi, per il trionfo dei diritti di tutti.


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