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La privatizzazione della malattia

"Si profila la vittoria irresistibile del linguaggio indifferenziato" (Pancho Pardi, da: blog)

di Sergej - giovedì 2 aprile 2020 - 2005 letture

Quando si è malati e si viene rimandati a casa, si continua la logica della privatizzazione della malattia che è stato il perno ideologico e finanziario (in cui il lato economicistico è stato l’alibi posticcio e la scusa vigliacca) che ha dominato negli ultimi vent’anni. Questo perno ideologico viene chiamato “pensiero neoliberista”, è stato il mantra delle classi dirigenti ed è stata la coperta dietro cui si sono celati gli speculatori e i profittatori. In altri momenti, speculatori e profittatori hanno utilizzato altre coperte; in un mondo dominato dal “pensiero neoliberista” hanno utilizzato questo.

I luoghi pubblici, gli ospedali, non sono in grado di svolgere l’assistenza medica dell’emergenza. Essi sono “tarati” per far fronte alla domanda “normale”. Il pensiero neoliberista in Italia ha operato perché questa soglia di “normalità” venisse ulteriormente abbassata.

Dunque in caso di emergenza il sistema sanitario “normale” non è in grado di provvedere. C’è bisogno della messa in campo di strutture e posti letto d’emergenza. A questo serve la protezione civile - o almeno a questo dovrebbe -. Disporre dei mezzi d’emergenza, dei depositi e magazzini che intervengono per le emergenze. Queste, nella normalità dei casi storici sono abbastanza individuabili: terremoti, maremoti, incendi ed epidemie (appunto). Non sembra che la protezione civile italiana sia attrezzata seriamente per alcuna di queste evenienze. Lo abbiamo visto nel caso dei recenti terremoti dell’Aquila o di altre zone; lo vediamo nel caso di questa pandemia.

Di fronte all’emergenza, la macchina dello Stato ha dovuto arrancare, dovendosi sobbarcare anche la scellerata scelta delle regionalizzazioni dei poteri e delle competenze. E alla mancanza di produzioni nazionali di beni di prima necessità che permettano l’immediata fornitura di questi beni e la loro disponibilità per le popolazioni colpite. In questo caso: mascherine, igienizzanti, macchine per l’assistenza respiratoria.

Lo Stato non è intervenuto attraverso lo strumento dell’esproprio. Ancora una volta, una scelta tipica del pensiero neoliberista. Le fabbriche hanno continuato a produrre, la gente a lavorare e spostarsi per poter andare al lavoro. Confindustria e il patronato hanno opposto all’inizio una dura resistenza, che ha trovato ascolto presso gli organi regionali ed è stata accolta dagli organi centrali dello Stato. Solo quando la situazione è stata giudicata non sostenibile dal punto di vista dell’ordine pubblico e del controllo del panico, si è intervenuti graduando la risposta, diluendola nel tempo. Di conseguenza in molti casi si è posticipato il picco della pandemia, allungando così i tempi di fuoriuscita dall’emergenza.

Si è arrivati a un compromesso: da una parte una lista larga di “attività ritenute essenziali” che ha permesso molte attività di continuare il lavoro e la produzione. Dall’altra, la privatizzazione di quelle attività i cui oneri si ritiene possano essere assunti dalle famiglie. Così la scuola - gli studenti di ogni ordine e grado inviati a casa, a collegarsi con i propri computer e con le proprie linee, per la “scuola a distanza”. O il telelavoro (nella forma accattivante, anglicizzata di “smart working”) con cui i lavoratori spesso con i propri computer, ma comunque utilizzando le proprie connessioni, luce elettrica e riscaldamento hanno svolto in questo modo i compiti che il lavoro “non interrompibile” richiedeva.

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La casa è diventata il luogo privato, socializzato ufficialmente per il benessere collettivo. Nei fatti si è privatizzata la casa, per permettere il lavoro su cui un privato (il padrone) trae beneficio (ed è dunque un interesse privato). Il lavoratore viene espropriato del luogo della casa a favore del “lavoro” ovvero degli interessi privati del capitale.

Mettere le mani sulla casa era stato nel corso dell’ultimo ventennio, una delle ambizioni del capitale. In Italia la casa di proprietà è un bene su cui le famiglie hanno investito, pensando alla casa come a un bene, un tesoro della famiglia. La casa come simbolo del benessere raggiunto, e della sicurezza della famiglia. Nel ventennio, l’ambizione del pensiero neoliberista era quello di uniformare il mercato delle case in Italia a quello del resto dei Paesi europei, in cui i proprietari di appartamenti sono in numero molto minore - percentualmente, sulla popolazione. La “crisi” era sulla buona strada, avendo abbattuto il “valore” degli immobili; sarebbe bastato un altro piccolo colpo perché il processo avesse la sua logica conclusione. A questo processo è stato posto un contrasto, strisciante e consensuale, da parte della borghesia italiana che non si è fidata fino in fondo del pensiero neoliberista - l’Italia nei fatti non ha mai fatto una svolta chiaramente neoliberista, ma è rimasta aggrappata a un compromesso tra il neoliberismo predicato e la paura di perdere gli antichi diritti acquisiti. Nell’impasse, su questo fronte, ora interviene il fatto nuovo della crisi da pandemia, e gli scenari cambiano.

In altre epoche le forze d’intervento statali avrebbero creato zone espropriate in cui concentrare i colpiti dalla pandemia: sotto forma da lazareti, o di campi sanitari. Niente di tutto questo è stato fatto in questa occasione. Un paziente malato viene mandato a casa con l’obbligo del domicilio coatto. Sono gli arresti domiciliari - la forma “alternativa” alla detenzione tipica della fase di passaggio dall’universo concentrazionario che si portava appresso la fabbrica fordista.

In caso di aggravio delle condizioni di salute, il paziente viene spostato in ospedale. In questi casi accade accidentalmente che possa giungervi troppo tardi; oppure che possa non trovare posto; o semplicemente non avvenga neppure lo spostamento e il paziente crepi a casa. In tal caso non viene conteggiato come vittima, essendo le statistiche basate solo sui morti negli ospedali.

La privatizzazione operata serve in questo modo anche per evitare che un più alto numero di morti possa spaventare l’opinione pubblica e pretendere un intervento restrittivo ulteriore dello Stato sulla produzione (privata). Ancora una volta il pensiero neoliberista si manifesta nell’unica cosa che sa fare: massimizzare i profitti nel breve periodo, socializzando le perdite. In questo caso, viene scambiato lavoro “buono” con lavoro “cattivo” che è quello prodotto in casa; il capitale risparmia oggi una parte del costo del lavoro (che interessa la struttura del luogo di lavoro), abbassando i costi. Nel medio e lungo periodo ciò che ottiene è lavoro cattivo, prodotto non più sul luogo costruito per produrre e che permetteva quella socializzazione tra lavoratori che contribuisce al prodotto del lavoro. Nei fatti si ha una dequalificazione del lavoro, un suo impoverimento. Con conseguenze di lungo termine negative per l’intero sistema Paese.

Il “ritorno a casa” ha poi una valenza psicologica rilevante. La casa non è solo bene rifugio, ma diventa rifugio esso stesso - in questo caso dalla minaccia pandemica. Casa e famiglia vengono rinforzati, davanti al pericolo. Nello stesso tempo si aprono, all’interno della casa, per la presenza del lavoro in casa, brecce all’interno di questa nicchia di sicurezza. Come sarà risolta questa cosa?

La famiglia come rifugio non è la comunità. Gli individui rimangono parcellizzati, il pericolo che possano formarsi aggregazioni di resistenza finquando c’è la famiglia ristretta italiana sembra scongiurato. Le cose cambiano in realtà popolari dove la famiglia è più vasta, ed esistono connessioni interfamiliari più vaste, che permettono una diversa articolazione della resistenza alla minaccia esterna.

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L’evento produce sempre una separazione tra un "prima" e un "dopo". Anche nel caso di questa pandemia esiste un "prima" e un "dopo". Noi oggi conosciamo sulla nostra pelle cosa significa la separazione. Separazione tra gli individui, la imposizione della "distanza" tra i corpi. Gli individui sono ricacciati nella propria individualità, mentre la socializzazione subisce un duro colpo. Nello stesso tempo si verifica un mutamento nella delimitazione e nelle funzioni degli spazi.

Spazio per la tua vita privata, spazio per il lavoro innanzitutto. La netta separazione, anche fisica - di luogo - aveva il vantaggio di riservare una identità netta, conservare una umanità separata dalla cosizzazione propria del lavoro. Si generava una schizofrenia tra pubblico e privato, tra lavoro e casa. Nello stesso tempo però ciò permetteva all’individuo di difendere i suoi spazi; vestire l’abito da lavoro e recarsi sul luogo di lavoro, lavorare in uno spazio diverso e in un ambiente diverso era parte di un rito del distacco che permetteva il passaggio da un “canale” a un altro, da una vita a un’altra. Le due vite in questo modo potevano coesistere, vivere contemporaneamente. Una vita doppia, come quella dello/a sposato che ha anche un amante. In questo caso, l’ordine del dovere poteva coesistere con l’ordine della libertà e dello spazio privato - degli affetti, delle passioni, degli sfoghi anche consumistici. Il sistema precedente aveva saputo intercettare anche questo aspetto, facendolo diventare business (gli sfoghi dei singoli nella propria vita al di fuori del lavoro come target per il consumo di massa). Ma ora si compie un passo ulteriore e diverso.

Quando i due ambienti si mischiano, e il lavoratore diventa lavoratore da casa, si compie una ingerenza in cui il lavoratore viene disumanizzato. Il luogo casa diventa il luogo lavoro. Non esiste più separatezza, ciò genera confusione (un vero e proprio stato confusionale psichico, come quando a volte ci si sveglia e non si riconosce il posto in cui ci si trova: all’inizio il lavoratore da casa è più “distratto” del lavoratore sul luogo di lavoro, con conseguenze anche sulla “resa”, sulla “produttività” del lavoratore che tenta di compensare la perdita aumentando il tempo dedicato al lavoro), e nel lungo tempo malessere. Il lavoratore, spossessato di una parte considerevole di sé - il senso intimo della propria vita, quello per la cui sopravvivenza si assoggettava alla cosizzazione del lavoro - si sfalda. Il compromesso (lavorare per poter vivere) si incrina, e il suo inverso (vivere per lavorare) annichilisce il singolo individuo.

barbie serialkiller 300px Se nel Novecento la casa era bene rifugio, luogo in cui si nascondevano i latitanti, dopo il 1989 diventa luogo di soggiorno per disoccupati e per malfattori “ai domiciliari”. Fino alla svolta attuale.

Divenuto luogo di lavoro, spossessata, la casa non è più luogo degli affetti e della vita intima. Non può più essere neppure luogo della malattia, perlomeno di alcuni effetti invalidanti della malattia. Il lavoratore malato finché non crolla fisicamente può continuare a lavorare malato anche da casa. Il tempo di lavoro tende a divorare tutti gli altri tempi, non ammette concorrenza alcuna. È un "signore geloso".

Il potere unico vuole il corpo nudo. È quando appaiono all’orizzonte altri poteri, che in qualche modo limitano o contrastano il potere unico, che creano la divergenza, o la possibilità del pensiero divergente. Una moltiplicazione di possibilità. La possibilità di realtà diverse. Non a caso Adam nello spazio dell’Eden era nudo, ma quando disobbedì trovò l’immediato bisogno di coprirsi, di avere uno spazio intimo nascosto. Uno spazio proprio, anche di cui vergognarsi, ma comunque separato dal panopticon. Difesa della privacy e desiderio di controllo assoluto non a caso sono due nodi del contendere della società attuale (qui si invita a leggere: Il capitalismo della sorveglianza, di Shoshana Zuboff).

Al singolo non rimangono neppure gli occhi per piangere. Neppure questi, tra non molto, gli apparterranno, sono strumento di lavoro e pertanto non possono più essere utilizzati per cose che non ineriscono al lavoro.


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