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La privatizzazione della guerra

Anche qui viene meno la separazione, si ridefiniscono i ruoli, vengono meno i cuscinetti di protezione che prima esistevano.

di Sergej - venerdì 3 aprile 2020 - 1567 letture

In un articolo precedente parliamo della caduta della separazione tra lavoro e privato, tra spazio del lavoro e spazio della casa.

C’è un altro ambito in cui la separazione ha subito un radicale cambiamento dopo il 1989.

Nella nuova guerra del XXI secolo non esiste una zona civile separata da una zona militare. Il “fronte”, il luogo della guerra, è spostato nella città. La trasformazione delle guerre da guerre tra Stati a guerre all’interno dello spazio territoriale di uno Stato fa sì che tutte le guerre siano “guerre civili”. Gli eserciti non sono più eserciti nazionali, ma eserciti privati: milizie ingaggiate. Anche la guerra si è privatizzata. Non c’è più un cittadino in armi il cui retroterra culturale è la rivoluzione francese e la difesa della Nazione, ma un miliziano che ha delle “regole d’ingaggio”, un contratto, il cui retroterra culturale è sempre di più il soldato di ventura, il mercenario. Un individuo che non ha più una vita civile separata dalla vita militare - non ha più una vita civile a cui tornare. Il tempo della guerra ha così la possibilità di allungarsi a dismisura, le guerre sono irrisolvibili e - per i profitti multinazionali del capitale, debbono essere eterne e irrisolvibili - le istituzioni sovranazionali nate nell’epoca precedente sono impotenti.

Anche qui viene meno la separazione, si ridefiniscono i ruoli, vengono meno i cuscinetti di protezione che prima esistevano.

La guerra è un business - lo è sempre stata. È scontato che lo sia, i libri di storia non ne parlano nemmeno tanto è scontato. La guerra dopo il 1989 ha assunto caratteristiche specifiche interessanti. Ne parliamo perché queste caratteristiche diventano caratteristiche culturali, estese in altri àmbiti - e coinvolgono la vita e la mentalità delle persone.

È d’uso tra gli storici, il tentativo della razionalizzazione della storia, puntare lo sguardo su certi eventi particolari per usarli come delimitatori. Alcuni trattati internazionali (Vestfalia, Yalta) o alcuni eventi eclatanti (l’uso delle bombe termonucleari a Hiroshima e Nagasaki, o i lager per lo sterminio scientifico degli ebrei ecc_) sono utilizzati come cardine. Sono cardini che servono per attribuire non solo il cambiamento politico in atto; ma anche il cambiamento sul piano dei costumi, della sessualità, dell’economia, della vita sociale e individuale. Per paradosso si potrebbe dire che quando i Grandi si riuniscono e scrivono nuovi trattati, non delimitano solo le nuove frontiere (politiche) ma stabiliscono anche quale debba essere la morale sessuale delle popolazioni, quali religioni sono vincenti e quali no, cosa possano consumare le popolazioni ecc_. A Vestfalia fu determinano il valore del diapason in Occidente.

Per noi “dopo il 1989” (e dunque, la caduta del muro di Berlino) è uno di questi cardine-simbolo. In realtà queste date-cardine sono il tentativo della storiografia di dare una razionalità a qualcosa che non va esattamente come si vorrebbe che andasse; per i “potenti” della terra che si riuniscono e patteggiano “per l’avvenire” è il loro tentativo di mettere ordine a una realtà, secondo i propri pii desideri, e naturalmente le cose nel dopo non vanno mai come essi vorrebbero. La storia (cioè la realtà) ha una testa e una direzione che non segue né i politici né gli storici.

Dopo il 1989 non c’è più separazione tra nemico civile e nemico militare. Gli Stati egemoni nella nuova era si sono presi il diritto di non fare distinzioni, e di poter uccidere chiunque, in qualsiasi parte e in qualsiasi momento. L’evoluzione tecnologica interviene per spazzare i confini in questo àmbito. Sono le “bombe intelligenti” che possono uccidere i civili, e i droni che possono ammazzare i singoli che entrano nella lista delle persone da uccidere. Il nemico non è egualitariamente immune solo da ogni forma delle vecchie discriminazioni (non importa il sesso, la razza, l’etnia ecc_) per cui è tout court nemico “democratico”; viene scavalcato anche il crinale civile/militare nel momento in cui l’arma fisica non è direttamente azionata da un “nostro” soldato ma il tutto avviene per interposto monitor o circuito. Ovviamente è chi è egemone in questo momento che stabilisce queste nuove regole. E le regole assicurano non solo ciò che è lecito e ciò che non lo è, ma anche ciò che è “morale” e ciò che non lo è. Il “terrorismo” (degli altri) non distingue civili e militari, così anche questo serve a giustificare le nuove regole vigenti. Occhio per occhio…

Nessun equilibrio è mai stabile. Dopo il 1989 gli Stati Uniti hanno tentato il colpo gobbo dell’unica potenza egemone sola al comando (la dottrina dello “sheriffo del mondo”). Dopo la guerra di Siria si è tornati a una situazione di competizione tra Stati continentali - un equilibrio che ancora si va cercando tra Stati ma con la Cina che progressivamente prende il sopravvento. Nella dottrina militare si fa strada la caduta anche di un’altra forma di separazione esistente ante-1989. Quella tra guerra regionale e guerra nucleare. Con le nuove bombe tattiche nucleari di “piccola” potenza diviene teoricamente possibile l’impiego di tali bombe anche nei teatri regionali. Cade il tabù sull’uso del nucleare nelle guerre moderne. Si aprono nuovi scenari.

Non più guerra tra Stati, la guerra non è solo “guerra civile” ma “guerra in determinate aree”. Cambia lo spazio. La geografia viene cambiata. Si individua un’area, la si bolla come “area di crisi”, lì avviene la nuova guerra localizzata. Il parallelo più immediato è lo stato di default che investe periodicamente questo o quell’altro Stato: si dice: “oggi l’Argentina è in crisi”, “oggi tocca alla Grecia ecc_”. Lo stesso succede per le pandemie: “oggi l’Italia è interdetta a causa della pandemia”, la regione di Wuhan è stata interdetta ecc_.

“Area di crisi” è il nuovo delimitatore culturale che sostituisce il “fronte” nato dalla dottrina militare delle guerre “classiche” del Novecento. È un delimitatore provvisorio, proprio della transizione. Perché tra il 1989 e il primo decennio del XXI secolo le aree di crisi non solo si moltiplicano, ma tendono sempre di più a interessare tutto il pianeta, diventare lo stato permanente - senza separazioni geografiche - di tutto il sistema globale. Gli Stati nazionali sono travolti; gli Stati continentali tentano di governare la crisi limitando per quanto è possibile le perdite, divenendo l’unico modello politicamente vincente e possibile in questo momento.

Nello stato permanente di crisi, o se si vuole, di guerra - viene meno la separazione tra guerra e pace, tra produzione “civile” e produzione militare, tra cultura della guerra e cultura della pace. Ciò che ha vinto non è la cultura della guerra. Ma la cultura economica che ha assunto in sé anche la cultura della guerra ed è diventata egemone. Come dicono molti pensatori: è il turbo-capitalismo, bellezza!


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