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Giro85 / Un altro mondo è possibile
Come è scialbo il documento di Porto Alegre!
di Lanfranco Caminiti, da Granello di Sabbia, ATTAC - http://attac.org/

Come è scialbo il documento finale di Porto Alegre! Senza emozioni,
senza vibrazioni, senza calore. Giornate straordinarie, piene di entusiasmo,
dolore, gioia, balli e lacrime, progetti, futuro, piene di colore
finiscono in un documento grigio. Scialbo senza essere brutto, anzi è quasi
inappuntabile. Perché? Che quanto di più vivo, emozionante, stimolante
si sia trovato più nelle strade, nei contatti personali e di gruppo, nello
scambio di esperienze, nei pochi momenti di relax, nelle manifestazioni
improvvisate, nei seminari [i media, gli osservatori ecc], nei gruppi di
lavoro delle "oficinas", nelle assemblee di dibattito [Chomsky, Hardt,
Klein, Ramonet ecc], piuttosto che nelle riunioni di elaborazione della
"rappresentanza" internazionale del movimento, mi pare un dato evidente
e, al contrario ch'essere sconfortante, un elemento di enorme fertilità per
il futuro. E certo si sa che nessun documento può riuscire a "contenere"
quell'esuberanza, che presumo ciascuno di coloro che vi hanno
partecipato continuerà a serbare come memoria preziosa: ma questa non è
un'obiezione.
Che la "rappresentanza" internazionale del movimento sia meno
interessante della minuta attività quotidiana che ormai milioni di attivisti svolgono in tutti gli angoli del pianeta è un'affermazione talmente banale da essere incontrovertibile. Che sia necessaria una qualche "burocrazia" che stia
lì a passar le ore a discutere di aggettivi e sostantivi, a mediare sulle
prossime date e scadenze, sui luoghi e la scaletta dei temi e degli
interventi, è anch'essa un'evidenza che appartiene al regno delle
necessità [non ho davvero alcuna invidia per questo defatigante lavoro e mostro anzi enorme comprensione per i suoi esecutori]. Però, ecco, il documento dei movimenti sociali riuniti a Porto Alegre è proprio scialbo. Non intendo entrare nei dettagli del documento: ciascuno dei punti qualificanti ha
ragioni di validità, presenta con buon senso le battaglie intraprese e
quelle che si intendono iniziare, mostra, insomma, con linguaggio
semplice, divulgativo, popolare, un "programma". Non è neanche difficile
immaginare la fatica del mettere assieme "ragioni" economiche e squisitamente politiche, una attenzione all'ambiente e un'altra al lavoro, la cura per i diritti minuti e quella per i grandi scenari. Benché risulti davvero difficile "tenere assieme" tutte le intenzioni [troppo europeiste alcune, troppo
socialiste altre, troppo fondamentaliste altre ancora], bisogna
riconoscere che sta proprio qui probabilmente la gran qualità di questo nuovo
movimento dove - almeno sinora e questa comunque è l'intenzione dichiarata della quasi totalità dei suoi attivisti - "tout se tient" in maniera
straordinariamente propositiva. La sensazione, ovvero, è che il lavorio di mediazione non sia al ribasso ma si provi a andare avanti, a cercare verifiche, a trovare il terreno cruciale della costruzione. Però, ecco, il documento di Porto Alegre è proprio scialbo. E provo a dire perché esso a me sembra così, senza alcuna spocchia - che non ho per carattere -, e senza alcuna saccenza. Esso sembra intenzionalmente pensato per mostrare urbi et orbi [all'interno del movimento come a tutti coloro che verso esso mostrano interesse o anche ostilità] come il movimento abbia superato la fase del suo carattere tutto accidentale [propriamente, legato ad accidenti, ad eventi] e sia in grado di porsi come interlocutore planetario credibile, stabile, "programmatico" appunto, capace cioè di immaginare esso eventi, di relazionarsi, modificarli, intervenirvi, adattarvisi, in una parola di fare la
"politica grande " [anche a partire da territori circoscritti, quasi periferici],
e di riuscire a infilare i tasselli delle sue espressioni geografiche e di
campagne politiche [dalla Tobin tax ai bilanci partecipativi all'acqua a
che] dentro un grande mosaico non solo geografico. Da Seattle a Porto
Alegre diventa così non tanto un riferimento geografico e di diverse
espressioni di un movimento, ma una progressione: Porto Alegre, questa Porto Alegre è un punto d'arrivo e di una "ripartenza" [come si dice in gergo calcistico], e se ne immaginano sue riproduzioni e cloni [i forum continentali nelle Americhe, nell'Europa]. Da Seattle a Porto Alegre, passando per Praga,
Nizza, Genova [ma anche Washington, Davos e tante altre scadenze] tutto
sembra ricondursi qui, e via così, immaginando nuove Praga, Nizza,
Genova [con la speranza che non siano più quelle "sommosse di polizia" di cui parla Walden Bello] e tante altre scadenze e tante altre campagne, per tornare a Porto Alegre a fine giro. Con in più - e non è certo cosa di poco conto - che adesso c'è un "programma", una credibilità internazionale, un
"soggetto politico". Che ha le sue "strutture", di base, intermedie, di vertice.
Ora è proprio questo a risultarmi poco convincente, ed è proprio questa scelta di percorso a risultarmi un'idea di "ripartenza" che non mi entusiasma,
perché - e su questo credo ci sia un assoluto comune convincimento dei
milioni di attivisti che in tutto il mondo giorno per giorno si battono,
elaborano, fanno proposte, organizzano riunioni e giornate di
mobilitazione -, è vero, è necessario un passaggio forte e importante
del movimento. Solo che il suo riferimento centrale non sta
nell'osservazione del proprio percorso, già accaduto [da Seattle a Porto Alegre passando per Genova] o da accadere, non sta insomma nelle "proprie" scadenze, che siano di elaborazione, che siano di campagne, che siano di mobilitazione contro questo o quell'organismo di governo internazionale dell'economia o del commercio, ma in quello che già accade "fuori di sé". E quello che già accade fuori di sé ha sostanzialmente un nome: Argentina. La crisi argentina è contemporaneamente l'evidenza del fallimento del modello neoliberista applicato nelle sue forme "pure" [dove cioè la resistenza di altri soggetti politico-economici oltre il governo erano deboli - la sinistra, i sindacati, associazioni di interesse corporativo, nazionalismi statali] e l'improvvisa irruzione di un nuovo soggetto sociale mai visto prima d'ora per la sua composizione [classe media, descamisados, operai, donne e anziani], che è stato capace, senza "strutture" consolidate e visibili, di tenere testa a un governo, di chiedere la testa di uno, due, tre governi, di ottenere
immediate concessioni, di "fare politica", governando la piazza e
autogovernando la mobilitazione quotidiana. Che è stato capace di
applicare in termini massivi una mobilitazione, una disobbedienza assolutamente pacifiche, in cui convogliare tensioni e interessi diversi
[corporativismi, egoismi di ceti differenti, disperazione ambigua], ma anche di saper fare "pressione di piazza" quando è stato necessario. Che ha pagato un prezzo altissimo in termini di sangue ma non ha perso la testa, mantenendo e anzi allargando ancora la propria capacità di resistenza e di influenza sugli eventi, mostrando una maturità inimmaginabile in termini così diffusi. In Argentina abbiamo assistito al primo grande movimento che abbia messo al centro della sua lotta la questione della moneta, incarnando quindi di fatto per la prima volta, in termini di massa, in termini di mobilitazione
sociale, quella che è stata la grande trasformazione economica [non dico
produttiva, dico economica] di questi ultimi anni: la finanziarizzazione
dell'economia mondiale. E, in questo senso, impiantando una battaglia
che è contemporaneamente estremamente radicata nel territorio di riferimento ma la cui valenza [anche immediata] rimbalza ovunque nel mondo, foss'anche solo per via dei mercati internazionali. Come se, insomma, il braccio di ferro di Soros contro la sterlina o le manovre della Banca della Malaysia sui cambi del dollaro o l'improvviso crollo dell'indice nikkei [tutti episodi di anni
fa] avessero questa volta per "soggetto" la mobilitazione sociale. Per la prima volta, una mobilitazione sociale sul "simbolico" [e la moneta è segno per eccellenza] e non per una qualche materialità [il posto di lavoro per una fabbrica che chiude dislocandosi altrove, un incidente in una fabbrica della morte, una inondazione, la siccità nei campi, la manipolazione di un qualche gene alimentare] ha assunto dimensioni straordinarie e un impatto straordinario, mostrando la forza di cogenza che il simbolico ha nelle nostre relazioni umane e sociali [a cominciare dalle differenze di ceto sociale di appartenenza, di materialità del possesso di oggetti] e, nello stesso tempo, la sua enorme fragilità, la possibilità cioè di
liberarsene [gli assalti ai bancomat sembrano la versione attualizzata degli
"assalti ai forni" di manzoniana memoria]. Qui siamo ben oltre - come è facile
intuire - le mobilitazioni contro il "logo", per riferirci a iniziative simboliche
già messe in atto dal movimento [contro mc'donalds, la nike ecc.]. O se si
vuole, qui stiamo parlando del "logo" per eccellenza: il denaro, la
moneta.
In Argentina la situazione è ancora fluida e questo può significare
diverse cose: un riflusso delle iniziative di piazza, una svolta autoritaria e
repressiva capace di spezzare ogni resistenza, una qualche composizione
che riesca a cooptare una parte della stratificazione sociale abbandonando
il resto a qualsiasi tipo di gestione [da quella repressiva a quella della
marginalizzazione, del controllo], una capacità di determinare ancora
crisi nel governo di quell'economia strappando progressivamente piccole
conquiste e tenendo sempre aperto l'affrontamento tra la "piazza" e il governo.
Forse altri scenari possono immaginarsi e delinearsi [non ho una conoscenza
talmente approfondita da poter con leggerezza delineare ipotesi], ma una
cosa mi sembra certa: qualunque sia lo scenario che si determinerà in
Argentina esso avrà un impatto notevole sull'immaginario di questo nuovo
movimento a livello mondiale. E sarebbe grave se non fosse così. Una
sconfitta dura [repressiva, militare o poliziesca] avrà un impatto duro,
una capacità di gestire ancora la crisi in modo aperto da parte del
movimento argentino avrà un impatto di grande sensazione positiva. Ecco, io credo che la questione argentina dovrebbe essere al centro della riflessione,
dello sforzo, dell'attenzione, della mobilitazione persino di tutto il
movimento mondiale. Ecco, io mi sarei aspettato da Porto Alegre che la
"delegazione argentina" non venisse solo accolta con entusiasmo e calore - come è stato - e con l'impegno solenne a stare loro vicino - come è stato - anche andando lì - come sarà -, ma che diventasse occasione "fisica" di un confronto generale sulla situazione del loro paese. Mi sarei aspettato che già
prima di Porto Alegre la riflessione sull'Argentina coinvolgesse tutti coloro
che hanno un compito nelle "strutture della rappresentanza internazionale" e
in qualche modo a Porto Alegre la ponessero al centro. Senza rinunciare a
altri seminari, a altre elaborazioni, a altri programmi. Ma dando un punto di
gravità, un centro focale. E le diverse anime, le diverse intelligenze,
le diverse intenzioni avrebbero avuto modo di controbattersi anche
duramente [peraltro, proprio una riflessione "nazionalista di sinistra" che chiede "più Stato e più istituzioni" si va coagulando in Argentina], di
proporre, di ascoltare, di immaginare insieme, perché ancora "tout se tient", ma
attorno una questione precisa, immediata, di potenziale enorme. Perché è questo a mio modesto parere il modo e il percorso che possono avere
questo movimento, che non può e non deve più - come è dichiarazione comune - guardare a se stesso solo in termini di "appuntamenti": individuare di volta in volta quelle situazioni che in qualche modo focalizzano una o più
questioni "centrali" e farne occasione di mobilitazione internazionale.
Come è stato - o sarebbe dovuto essere stato - per la guerra contro
l'Afghanistan. E come è certamente stato l'11 settembre, quando, ovunque
nel mondo [nella microcooperativa indiana come tra i volontari statunitensi
come tra gli immigrati in Italia], qualunque attivista ha dovuto fare i conti
- in mezzo ai suoi compagni e le realtà in cui interveniva - con quello
che stava accadendo. E come in parte è stato ancora dopo l'11 settembre
quando la sensazione diffusa nel movimento internazionale era che il movimento americano fosse quello nella difficoltà maggiore, attanagliato tra il
revanscismo patriottico e l'orrore che aveva assunto l'attacco
all'impero; che il movimento americano avesse più di ogni altro bisogno
dell'attenzione del movimento internazionale, perché senza il movimento americano - soprattutto dopo l'11 settembre - non ci sarebbe mai stato movimento internazionale. Solo che qui va rovesciata l'iniziativa. Solo che qui - in Argentina - la situazione è già rovesciata. Certo, altre, tante
situazioni urgono o ancora incancrenisono, e alcune d'esse hanno un significato enorme [la situazione in Palestina, per dire, i vari "plan" per l'America del sud, l'assenza di diritti elementari in troppe parti del mondo], ma nessuno ci impedisce di essere contemporaneamente attenti a quante più cose possibile [come d'altronde il documento fa] ma mettendo al centro di volta in volta "un punto focale" [come il documento non fa]. Non ci serve un cahier de doléances, benché sotto forma di programma e di mobilitazione; ci serve individuare - come d'altronde il movimento ha finora spontaneamente
fatto, a Seattle, a Praga, a Nizza, a Genova - delle "porte strette", non per
restarvi intrappolati ma per forzarle, teoricamente, attivisticamente,
analiticamente, politicamente, come appunto è stato fatto con il Wto, il
Fmi o il Wef. Allora, sì, abbiamo una agenda fitta fitta, tra incontri della
Fao e del Wto da contestare, tra forum sociali da consolidare a Quito come a
Yoknapatawpha, benché io non riesca a trovare alcun interesse al quesito
se il forum continentale europeo si debba svolgere in Francia o in Italia
[propongo di tenerlo in Spagna, per la sua importanza sul mondo di
lungua latina, o di tenerlo in Germania, dove un confronto con la parabola
istituzionale discendente dei Grünen è di estremo interesse e dove si
può aprire una porta verso l'est europeo, un luogo dove di "esplosioni
all'argentina" contro il liberismo ne potrebbero accadere presto, in
Romania, Bulgaria, Russia]. E non basta immaginare un percorso secondo
il criterio "natura non facit saltus": certo, ci vuole un lento lavoro di
accumulazione, di sedimentazione, di rassodamento, ma il movimento può
andare avanti solo a salti, può andare avanti solo impadronendosi di
volta in volta di una questione cruciale, cavandone fuori tutti i significati,
tutte le applicazioni anche immediate per il proprio lavoro quotidiano:
non c'entra niente la solidarietà, l'internazionalismo socialista. Qui non
si tratta di "non lasciare solo" il movimento argentino: qui è il movimento
internazionale che rischia di restare solo. E poi qui il saltus c'è, e
bello bello: si chiama Argentina: un confronto e uno scontro diretto tra una
moltitudine sociale composita e il governo mondiale dell'economia, che
stritola, spazza via i nazionalismi, quei ceti dirigenti compradori o
"analisti" o da jet-set che si vogliano definire. Perché la costituzione
materiale che avrà qualunque definizione di questo confronto e scontro
si delineerà, essa non potrà, per principio, che essere post-nazionale,
anche nelle ipotesi che prenda corpo una soluzione da nazionalismo argentino
in cui più schieramenti politici si intendano: e nelle dinamiche di quei
ceti dirigenti e nelle dinamiche dei movimenti: la questione del "debito
estero", per principio - appunto - post-nazionale, e della sua remissione, ne è
evidenza. E' lì [a mio parere, ma, come è noto, le "ripartenze" nel
calcio non sono un dato oggettivo ma punti di vista molto soggettivi] che
dobbiamo puntare gli occhi, inventare, mobilitare, partecipare. Ecco perché a me il documento finale di Porto Alegre sembra scialbo senza essere brutto,
anzi persino inappuntabile: è una agenda ma non ha punti focali, non ha
colore e non ha calore. E non ha - curioso, no? - senso immediato della politica.

Roma, 7 febbraio 2002


Zoom 85
in questo numero:

"Un altro mondo è possibile":
speciale Girodivite su Porto Alegre

Girodivite scrive a Letizia Moratti...

Consigli per la dieta...
(in collaborazione con MacDonald's)
Rosso o blu: la riforma fiscale del governo...
Indymedia / Storia del coniglietto vibratore, di gaetano mangiameli
Micromega / Un referendum contro la legge sulle rogatorie. Come aderire.

Savoia Vittorio Emanuele, tessera P2 numero 1621...

Bologna / Il Forum Sociale nazionale: sì allo sciopero generale, di gaetano mangiameli.
Addio alla lira... ma siamo già europei?, di alessandro calleri
Le cifre del "villaggio globale"

[Kaoticamente] Avvistamenti
Un altro mondo è possibile... non in Italia: Scaloja, Sgarbi, Rai, i komunisti...
Accade... A Catania le associazioni sfrattate, Libera ha "finalità poco chiare", conviamo con la mafia...

[StopBus]
Voci catturate aspettando il bus, a cura di angelo l. pattavina
StopBus two

[Segnali di fumo]
a cura di Pina La Villa

[ZeroBook]
La banda dei (giro)brocchi (Coe)
Una stanza chiusa a chiave (Mishima)
Nick Horby narratore dei nostri giorni

[Kaoticamente]

[Risonanze]
Michael Gira
Visioni: Dazeroadieci (Ligabue)
Jimmy Grimble (Hay)

[Movimento]
L'attacco a Indymedia...
Parla la madre di Carlo Giuliani
Lo sciopero nazionale del 5 aprile.

[Catena di san Libero, di Riccardo Orioles]


Nel numero (84): "Rissi u surci: Rammi tempu ka ti perciu..."
Moratti Letizia... assente! Iniziativa di Girodivite: Fà una domanda alla Moratti.
Le immagini della manifestazione: Aspettando Letizia

Il quiz per i lettori di Girodivite: "Cosa c'è dietro?"
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Cravatta dell'anno? Paolo Limiti. Moretti, Berluska, la rinascita della DC, piccoli Cucuzza crescono...
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Nel numero (83): "Fatti a nomina e vo' kukkiti"
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Librino l'ombelico del mondo
Intervista a Bartolomeo Pirone: alla ricerca dell'Islam perduto.
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Nel numero (82): Ku nun mancia, nun fa muddiki
Abbiamo le prove: Berlusconi ci ha scritto!
La satira sul web: Votantonio Previti e la Boccassini...
Come dovrebbe essere il "perfetto europeo"...
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Catania / Più topi o più biblioteche?

Nel numero (81): "Nkoppu kabbanna nkoppu dabbanna..."
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Gli insegnanti del Boggio Lera contro la Moratti e con gli studenti
Intervista a Babbo Natale
Il discorso all'umanità di Beppe Grillo

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