Logo Girodivite
Homepage | Bancarella | Sherazade | Antenati | OpenHouse | Mappa del sito |
  Giro83 / Movimento
Terrorismo, l'arma dei potenti
di Noam Chomsky*, da: www.ilmanifesto.it/MondeDiplo

«Come mai - si chiede il presidente Bush - siamo così odiati», quando siamo
«così buoni»? I leader statunitensi continuano a non curarsi degli effetti a
lungo e medio termine della loro politica estera, che li spinge ad usare
qualsiasi mezzo per imporre al mondo la propria supremazia. Il finanziamento
da parte dell'amministrazione Reagan della contro-rivoluzione
anti-sandinista in Nicaragua (57mila vittime), l'aiuto militare alla «lotta
contro il terrorismo» condotta dal governo di Ankara contro i kurdi (due-tre
milioni di rifugiati, decine di migliaia di vittime, 350 città e villaggi
distrutti), il sostegno incondizionato all'occupazione israeliana dei
territori palestinesi sono tutti episodi che mostrano come i dirigenti
statunitensi non si facciano alcuno scrupolo ad appoggiare pratiche di
violenza calcolata e «guerre di bassa intensità» che possono essere
equiparate al terrorismo. Ma, come mostra efficacemente la parabola di Osama
bin Laden, i loro successi di ieri possono essere scontati successivamente
ad un prezzo altissimo. Bin Laden è il prodotto della vittoria statunitense
contro i sovietici in Afghanistan: quale sarà il costo del loro nuovo
trionfo in questo paese?

Dobbiamo partire da due postulati. Primo, che gli avvenimenti dell'11
settembre costituiscono una atrocità spaventosa, probabilmente la maggiore
perdita simultanea di vite umane della storia, guerre escluse.
Il secondo postulato è che dovremmo porci l'obiettivo di ridurre il rischio
che possano ripetersi tali attentati, siano essi rivolti contro di noi o
contro altri. Se non accettate questi due punti di partenza, tutto quello
che segue non vi riguarda; se invece li accettate, si pongono molti altri
problemi. Cominciamo dalla situazione in Afghanistan. In tale paese vi
sarebbero milioni di persone minacciate dalla carestia. Questo era già vero
prima degli attentati: sopravvivevano soprattutto grazie all'aiuto
internazionale. Ma, il 16 settembre, gli Stati uniti hanno imposto al
Pakistan di sospendere i convogli di automezzi che portavano cibo e altri
generi di prima necessità alla popolazione afghana. Tale decisione non ha
provocato alcuna reazione in Occidente e il ritiro di personale umanitario
ha reso ancora più problematica l'assistenza della popolazione. Una
settimana dopo l'inizio dei bombardamenti, le Nazioni unite ritenevano che
l'avvicinarsi dell'inverno avrebbe reso impossibile l'invio di cibo, già
ridotto al lumicino dai raid dell'aviazione americana.
Quando alcune organizzazioni umanitarie civili o religiose e lo stesso
portavoce della Fao hanno chiesto una sospensione dei bombardamenti, tale
notizia non è stata neppure riferita dal New York Times; il Boston Globe se
l'è cavata con appena una riga, ma all'interno di un articolo dedicato a un
altro argomento, cioè alla situazione nel Kashmir. Nell'ottobre scorso, la
civiltà occidentale si era rassegnata al rischio di veder morire centinaia
di migliaia di afghani. Nello stesso momento, il leader di tale civiltà
faceva sapere che non si sarebbe degnato di rispondere alle proposte afghane
di negoziare sulla questione della consegna di Osama bin Laden, né sulla
richiesta di una prova su cui fondare una possibile decisione di
estradizione.
Avrebbe accettato soltanto una capitolazione senza condizioni.
Ma torniamo all'11 settembre. Nessun crimine, nulla ha fatto più morti nella
storia - o soltanto su tempi molto più lunghi. Peraltro, questa volta le
armi hanno puntato su un bersaglio insolito: gli Stati uniti. L'analogia
così spesso evocata con Pearl Harbor non è appropriata. Nel 1941 l'aviazione
nipponica ha bombardato alcune basi militari in una colonia di cui gli Stati
uniti si erano impadroniti in condizioni poco raccomandabili; i giapponesi
non avevano attaccato direttamente il territorio americano.
In questi ultimi due secoli, noi americani abbiamo scacciato o sterminato
popolazioni di indios - milioni di persone - conquistato la metà del
Messico, saccheggiato le regioni dei Caraibi e dell'America centrale, invaso
Haiti e le Filippine, uccidendo in quest'ultima occasione anche 100mila
filippini. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo esteso il nostro
dominio sul mondo nella maniera ben nota. Ma quasi sempre eravamo noi ad
uccidere e il combattimento avveniva al di fuori del nostro territorio
nazionale.
Ma, come si ha modo di constatare quando ci fanno domande, ad esempio,
sull'Ira e sul terrorismo, le domande dei giornalisti sono molto diverse, a
seconda che riguardino una sponda o l'altra del mare di Irlanda. In
generale, il pianeta appare sotto tutt'altra luce a seconda che si impugni
da molto tempo la frusta o che si sia abituati a subirne i colpi nel corso
dei secoli. Forse è per questo, in fondo, che il resto del mondo, pur
dimostrando un orrore senza eccezioni di fronte alla sorte delle vittime
dell'11 settembre, non ha reagito come abbiamo reagito noi agli attentati di
New York e di Washington.
Per comprendere gli avvenimenti dell'11 settembre, occorre operare una
distinzione fra gli esecutori del crimine e l'area diffusa di comprensione
di cui ha goduto tale crimine, anche fra i suoi oppositori.
Gli esecutori? Supponendo che si tratti della rete di bin Laden, nessuno
conosce la genesi di questo gruppo fondamentalista meglio della Cia e dei
suoi accoliti, che ne hanno tanto incoraggiato la nascita. Zbigniew
Brzezinski, segretario alla sicurezza nazionale dell'amministrazione Carter,
si è addirittura felicitato della «trappola» tesa ai sovietici nel 1978,
manovrando gli attacchi dei mujaheddin (organizzati, armati e addestrati
dalla Cia) contro il regime di Kabul: una manovra che ha spinto alla fine
dell'anno successivo i sovietici ad invadere il territorio afghano. Solo
dopo il 1990 e dopo l'installazione di basi americane permanenti in Arabia
saudita, su una terra sacra all'Islam, questi combattenti sono diventati
nemici degli Stati uniti.
Adesso, se si vuole spiegare l'area diffusa di simpatia di cui godono le
reti di bin Laden, anche fra le classi dominanti dei paesi del Sud del
mondo, occorre considerare innanzitutto la collera che suscita l'appoggio
degli Stati uniti a regimi autoritari o dittatoriali di ogni sorta; occorre
ricordarsi della politica americana che ha distrutto la società irachena
consolidando nel contempo il regime di Saddam Hussein; occorre non
dimenticare l'appoggio costante di Washington all'occupazione israeliana dei
territori palestinesi dal 1967 ad oggi. Nel momento in cui gli editoriali
del New York Times lasciano intendere che «loro» ci detestano perché noi
difendiamo il capitalismo, la democrazia, i diritti umani, la separazione
fra stato e chiesa, il Wall Street Journal, meglio informato, dopo aver
parlato con banchieri e alti dirigenti non occidentali ci spiega che «ci»
detestano perché abbiamo ostacolato la democrazia e lo sviluppo economico -
e appoggiato regimi brutali, o addirittura terroristici.
Fra le alte sfere dell'Occidente, la guerra contro il terrorismo è stata
equiparata ad una «lotta contro un cancro diffuso dai barbari».
Ma queste parole e questa priorità sono tutt'altro che nuove; ne parlavano
già venti anni fa il presidente Ronald Reagan e il suo segretario di stato
Alexander Haig. E per combattere i nemici depravati della civiltà, all'epoca
il governo americano organizzò una rete terroristica internazionale di
dimensioni senza precedenti. E, se tale rete commise atrocità innumerevoli
da un capo all'altro del pianeta, il massimo impegno venne dedicato
all'America latina.
Il diritto internazionale è debole Un caso, quello del Nicaragua, è
incontestabile: e infatti è stato risolto dalla Corte internazionale di
giustizia dell'Aja e dalle Nazioni unite. Chiedetevi pure quante volte
questo precedente indiscutibile di un'azione terroristica a cui uno stato di
diritto ha voluto rispondere con i mezzi del diritto sia stato richiamato
dai commentatori più in voga. Eppure, si trattava di un precedente ancora
più estremo degli attentati dell'11 settembre: la guerra
dell'amministrazione Reagan contro il Nicaragua ha provocato 57mila vittime,
fra cui 29mila morti (gli altri sono feriti o mutilati), e la rovina di un
intero paese, forse in maniera irreversibile (si legga alle pagine 16 e 17).
All'epoca, il Nicaragua aveva reagito. Non facendo esplodere bombe a
Washington, bensì appellandosi alla Corte internazionale di giustizia.
E la Corte decise, il 27 giugno 1986, dando ragione alle autorità di
Managua. Condannò «l'uso illegale della forza» da parte degli Stati uniti
(che avevano minato i porti del Nicaragua) e ingiunse a Washington di porre
fine al crimine, senza dimenticare di pagare danni e interessi rilevanti.
Gli Stati uniti replicarono che non si sarebbero piegati a tale giudizio e
che non avrebbero più riconosciuto la giurisdizione della Corte.
Allora il Nicaragua chiese al Consiglio di sicurezza dell'Onu l'adozione di
una risoluzione secondo cui tutti gli stati erano tenuti a rispettare il
diritto internazionale. Non si citava nessuno stato in particolare, ma il
messaggio era evidente. Gli Stati uniti esercitarono il loro diritto di veto
contro questa risoluzione. A tutt'oggi sono quindi l'unico stato che sia
stato condannato dalla Corte internazionale di giustizia e che nel contempo
si sia opposto a una risoluzione che chiedeva il rispetto del diritto
internazionale. Dopo di che, il Nicaragua si rivolse all'Assemblea generale
dell'Onu. La risoluzione proposta ottenne soltanto tre voti negativi: quelli
degli Stati uniti, di Israele e del Salvador. L'anno successivo il Nicaragua
richiese di votare sulla stessa risoluzione. Stavolta, soltanto Israele
appoggiò la causa dell'amministrazione Reagan. Arrivato a questo punto, il
Nicaragua aveva esaurito tutti i mezzi giuridici a sua disposizione, e tutti
erano falliti, in un mondo dominato dalla forza. Questo precedente non
lascia adito a dubbi. Quante volte se ne è parlato, all'università, sui
giornali?
Si tratta di una vicenda per molti aspetti rivelatrice. Innanzitutto rivela
che il terrorismo funziona. E anche la violenza. In secondo luogo che ci si
sbaglia a considerare il terrorismo uno strumento dei deboli. Come la
maggior parte delle armi di morte, il terrorismo è soprattutto l'arma dei
potenti; quando si sostiene il contrario, ciò avviene unicamente perché i
potenti controllano anche gli apparati ideologici e culturali che consentono
di far passare il terrore per qualcosa di diverso. Uno dei mezzi più
correnti di cui dispongono per ottenere tale risultato consiste nel far
scomparire la memoria degli avvenimenti di disturbo; in tal modo, nessuno se
ne ricorda.
Del resto, la potenza della propaganda e delle dottrine americane è talmente
grande da imporsi alle sue stesse vittime. Andate in Argentina, e vedrete
che dovrete essere voi a rievocare certi fatti. Allora vi diranno: «Ah, sì,
ma lo avevamo dimenticato!».
Nicaragua, Haiti e Guatemala sono i tre paesi più poveri dell'America
latina. Figurano anche tra i paesi in cui gli Stati uniti sono intervenuti
manu militari, il che non è necessariamente una coincidenza fortuita.
Tutto ciò avvenne in un clima ideologico contrassegnato dai proclami
entusiasti degli intellettuali occidentali. Qualche anno fa,
l'autocompiacimento faceva furore: fine della storia, nuovo ordine mondiale,
stato di diritto, ingerenza umanitaria e via dicendo. Era moneta corrente,
proprio mentre lasciavamo che si commettessero atrocità innumerevoli.
Anzi, peggio, davamo un nostro contributo attivo. Ma chi ne parlava?
Una delle più grandi conquiste della civiltà occidentale consiste forse nel
rendere possibile questo tipo di incongruenza in una società libera. Uno
stato totalitario è privo di questo dono.
Che cosa è il terrorismo? Nei manuali militari americani, si definisce
terrore l'uso calcolato a fini politici o religiosi della violenza, della
minaccia di violenza, dell'intimidazione, della coercizione o della paura.
Il problema di una simile definizione è che essa coincide abbastanza
precisamente con quello che gli Stati uniti hanno definito guerra di bassa
intensità, rivendicando questo genere di attività.
D'altronde, nel dicembre 1987, allorché l'Assemblea generale dell'Onu ha
adottato una risoluzione contro il terrorismo, c'è stata una sola
astensione, quella dell'Honduras, e due voti contrari, quelli di Israele e
degli Stati uniti. Perché lo hanno fatto? A causa di un paragrafo della
risoluzione che precisava che non si intendeva rimettere in discussione il
diritto dei popoli a lottare contro un regime colonialista o contro una
occupazione militare.
Orbene, all'epoca il Sudafrica era alleato degli Stati uniti. Oltre agli
attacchi contro i paesi limitrofi (Namibia, Angola, ecc.) che hanno
provocato centinaia di migliaia di morti e causato danni nell'ordine di 60
miliardi di dollari, il regime dell'apartheid di Pretoria doveva affrontare
all'interno del paese una forza definita «terrorista»: l'African National
Congress (Anc). Quanto a Israele, occupava illegalmente alcuni territori
palestinesi fin dal 1967, altri in Libano fin dal 1978, guerreggiando nel
sud del Libano contro una forza che Israele stesso e gli Stati uniti
tacciavano di «terrorismo»: gli Hezbollah.
Nelle analisi abituali del terrorismo, questo tipo di informazione o di
richiamo non è frequente; affinché le analisi e gli articoli dei giornali
siano ritenuti rispettabili, conviene in realtà schierarsi dalla parte
giusta, ossia dalla parte di chi dispone delle armi più potenti.
Gli inglesi non distruggono Boston Negli anni '90 i peggiori attacchi contro
i diritti umani sono stati riscontrati in Colombia. Tale paese è stato il
principale destinatario dell'aiuto militare americano, ad eccezione di
Israele e dell'Egitto, che costituiscono due casi a sé. Fino al 1999, il
primo posto spettava alla Turchia, a cui gli Stati uniti hanno consegnato
una quantità crescente di armi fin dal 1984. Perché proprio quell'anno? Non
perché questo paese, membro della Nato, dovesse affrontare l'Unione
sovietica, già allora in fase di disfacimento, ma affinché potesse portare
avanti la guerra terroristica che aveva iniziato contro i kurdi. Nel 1997,
l'aiuto militare americano alla Turchia ha superato quello che il paese
aveva ottenuto in negli anni dal 1950 al 1983, cioè il periodo della guerra
fredda. Risultato delle operazioni militari: da 2 a 3 milioni di rifugiati,
decine di migliaia di vittime, 350 città e villaggi distrutti. Man mano che
la repressione si intensificava, gli Stati uniti continuavano a fornire
quasi l'80% delle armi utilizzate dai militari turchi, accelerando
addirittura il ritmo delle consegne.
La tendenza si è ribaltata nel 1999, allorché il terrore militare -
naturalmente denominato «controterrorismo» dalle autorità di Ankara - aveva
conseguito i suoi obiettivi. Succede quasi sempre così quando il terrore è
gestito dai suoi principali utilizzatori, cioè dalle forze al potere.
Nel caso della Turchia, gli Stati uniti hanno trovato un paese tutt'altro
che ingrato. Washington le aveva dato gli F-16 per bombardare la sua
popolazione e la Turchia li ha utilizzati nel 1999 per bombardare la Serbia.
Poi, pochi giorni dopo l'11 settembre, il primo ministro turco Bülent Ecevit
ha fatto sapere che il suo paese avrebbe partecipato con entusiasmo alla
coalizione americana contro la rete di bin Laden.
In tale occasione, il primo ministro spiegò che la Turchia aveva un debito
di gratitudine nei confronti degli Stati uniti, che risaliva alla sua
«guerra contro il terrorismo» e all'appoggio incondizionato che era stato
assicurato da Washington. Certo, anche altri paesi avevano sostenuto la
guerra di Ankara contro i kurdi, ma nessuno con zelo ed efficacia
paragonabili a quelli degli Stati uniti. L'appoggio dei turchi ha goduto del
silenzio, e forse è più giusto dire del servilismo, degli ambienti colti
americani, che non potevano certo ignorare le vicende in corso. Gli Stati
uniti dopo tutto sono un paese libero e i rapporti delle organizzazioni
umanitarie sulla situazione in Kurdistan erano di dominio pubblico.
All'epoca, quindi, abbiamo deciso di dare il nostro contributo alle
atrocità.
La nostra coalizione contro il terrorismo comprende altre reclute di prima
scelta. Il Christian Science Monitor, probabilmente uno dei migliori
giornali sull'attualità internazionale, ha rivelato che alcuni popoli che
non amavano affatto gli Stati uniti cominciavano a rispettarli di più,
particolarmente felici di vederli alla testa di una guerra contro il
terrorismo. Il giornalista, che peraltro era uno specialista dell'Africa,
citava come esempio simbolo di questa svolta il caso dell'Algeria. Eppure,
doveva sapere che l'Algeria conduce una guerra terroristica contro il suo
stesso popolo. Altri due paesi che hanno abbracciato la causa americana sono
la Russia, che porta avanti una guerra terroristica in Cecenia, e la Cina,
autrice di una serie di atrocità contro quelli che definisce i secessionisti
musulmani.
Sia pure: ma che fare nella situazione attuale? Un radicale estremista come
il Papa suggerisce di ricercare i colpevoli del crimine dell'11 settembre
per sottoporli a giudizio. Ma gli Stati uniti non desiderano ricorrere alle
forme giudiziarie normali, preferiscono non dover addurre alcuna prova, e si
oppongono all'esistenza di una giurisdizione internazionale. Anzi, quando
Haiti chiede l'estradizione di Emmanuel Constant, giudicato responsabile
della morte di migliaia di persone dopo il colpo di stato che ha rovesciato
il presidente Jean-Bertrand Aristide il 30 settembre 1991, e presenta prove
della sua colpevolezza, la richiesta non sortisce alcun effetto a
Washington, e non suscita alcun dibattito.
Per lottare contro il terrorismo è necessario ridurre il livello del
terrore, e non aumentarlo. Allorché l'esercito repubblicano irlandese (Ira)
commette un attentato a Londra, gli inglesi non distruggono né Boston, città
in cui l'Ira conta numerosi sostenitori, né Belfast.
Cercano i colpevoli, e poi li giudicano. Un mezzo per ridurre il livello del
terrore consisterebbe nel cessare di contribuirvi noi stessi. Per poi
riflettere sugli orientamenti politici che hanno creato un'area diffusa di
appoggio, di cui hanno poi approfittato i mandanti dell'attentato. In queste
ultime settimane, la presa di coscienza dell'opinione pubblica americana
sulle realtà internazionale di ogni sorta, di cui prima solo le élite
sospettavano l'esistenza, costituisce forse un passo avanti in questa
direzione.

Zoom 85
in questo numero:

"Un altro mondo è possibile":
speciale Girodivite su Porto Alegre

Girodivite scrive a Letizia Moratti...

Consigli per la dieta...
(in collaborazione con MacDonald's)
Rosso o blu: la riforma fiscale del governo...
Indymedia / Storia del coniglietto vibratore, di gaetano mangiameli
Micromega / Un referendum contro la legge sulle rogatorie. Come aderire.

Savoia Vittorio Emanuele, tessera P2 numero 1621...

Bologna / Il Forum Sociale nazionale: sì allo sciopero generale, di gaetano mangiameli.
Addio alla lira... ma siamo già europei?, di alessandro calleri
Le cifre del "villaggio globale"

[Kaoticamente] Avvistamenti
Un altro mondo è possibile... non in Italia: Scaloja, Sgarbi, Rai, i komunisti...
Accade... A Catania le associazioni sfrattate, Libera ha "finalità poco chiare", conviamo con la mafia...

[StopBus]
Voci catturate aspettando il bus, a cura di angelo l. pattavina
StopBus two

[Segnali di fumo]
a cura di Pina La Villa

[ZeroBook]
La banda dei (giro)brocchi (Coe)
Una stanza chiusa a chiave (Mishima)
Nick Horby narratore dei nostri giorni

[Kaoticamente]

[Risonanze]
Michael Gira
Visioni: Dazeroadieci (Ligabue)
Jimmy Grimble (Hay)

[Movimento]
L'attacco a Indymedia...
Parla la madre di Carlo Giuliani
Lo sciopero nazionale del 5 aprile.

[Catena di san Libero, di Riccardo Orioles]


Nel numero (84): "Rissi u surci: Rammi tempu ka ti perciu..."
Moratti Letizia... assente! Iniziativa di Girodivite: Fà una domanda alla Moratti.
Le immagini della manifestazione: Aspettando Letizia

Il quiz per i lettori di Girodivite: "Cosa c'è dietro?"
Il Vittorini: il giornale del liceo scientifico di Lentini
Cravatta dell'anno? Paolo Limiti. Moretti, Berluska, la rinascita della DC, piccoli Cucuzza crescono...
Alessandra Mussolini e la circoncisione, Dario Fo, le vignette di ElleKappa e Vauro...

Nel numero (83): "Fatti a nomina e vo' kukkiti"
No alla chiusura dell'Auro / le foto del sit-in, i documenti
Librino l'ombelico del mondo
Intervista a Bartolomeo Pirone: alla ricerca dell'Islam perduto.
Un carro armato per lavorare: a Catania Job-Sud 2002
"Gent.le vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini: Girodivite Le scrive..."
"Hai un'amico idraulico? Chiamalo subito!": un buon consiglio di Dario Fo & Franca Rame
[Humour] Upgrade...

Nel numero (82): Ku nun mancia, nun fa muddiki
Abbiamo le prove: Berlusconi ci ha scritto!
La satira sul web: Votantonio Previti e la Boccassini...
Come dovrebbe essere il "perfetto europeo"...
Storie di ordinaria immigrazione, di Alex Calleri
Catania / Più topi o più biblioteche?

Nel numero (81): "Nkoppu kabbanna nkoppu dabbanna..."
Festa di Lapis
speciale con foto, articoli ed interviste
Girodivite chiede a Ezio Mauro direttore di La Repubblica...
Gli insegnanti del Boggio Lera contro la Moratti e con gli studenti
Intervista a Babbo Natale
Il discorso all'umanità di Beppe Grillo

[Up] Inizio pagina | [Send] Invia questa pagina a un amico | [Print] Stampa questa pagina | [Email] Mandaci una email | [Indietro]
© 1994-2004, by Girodivite - E-mail: giro@girodivite.it