Giro81
/ Movimento Addio al 41 bis così è
partita la trattativa con la mafia un documento, tratto dall'edizione di
Palermo di La Repubblica: quotidiano che pochi possono leggere
in Sicilia. Facciamo opera di divulgazione...
Carcere duro addio. Quattro colloqui al mese,
il fornello a gas per
scaldarsi i cibi. Piccole cose nel mondo dei normali, ma
non tra i dannati del 41 bis. Conquiste in sordina che sembrano
dei bonus concessi da pezzi delle istituzioni che confermano
un atteggiamento più morbido e vanificano il regime
duro previsto dall'ordinamento penitenziario per chi si
è macchiato di crimini orrendi: torture, sequestri
di persona, stragi, omicidi
di bambini.
Termometro sensibilissimo di ciò che
matura nelle scelte strategiche dello
Stato nei confronti di Cosa nostra, le carceri scelgono
la linea del meno
rumore possibile, ma ottengono qualcosa. In parallelo con
una trattativa
lunga anni che procede tra cavilli e intoppi. Le concessioni
ottenute, del
resto, erano in cima alla lista delle rivendicazioni contenute
nel
cosiddetto «papello», la lista di richieste
redatta da Riina per trattare la
fine della strategia del terrore. La risposta, allora, eravamo
tra il 1992 e
il 1993, fu un no secco. Seguì la sanguinosa risposta
con le bombe di
Milano, Firenze e Roma.
Ora, dopo l'arresto di Riina e degli altri
grandi boss, non ci sono
direttive precise, né nulla di scritto, ma una serie
di piccoli, grandi
passi in avanti che vanno proprio nella direzione di un
carcere meno pesante
da tollerare.
Sul versante dei grandi scenari la strategia
è quella della dissociazione
che avrebbe avuto il consenso di Bernardo Provenzano. Al
capo dei capi di
Cosa nostra i boss detenuti hanno fatto sapere: «Ci
facciamo il carcere, ci
accolliamo i delitti che abbiamo fatto ma non quelli di
Falcone e
Borsellino. Di questi non rispondiamo, né accuseremo
altri».
E Binnu avrebbe detto di sì, facendosi
garante della fine della strategia
del terrore e assicurando una «protezione» per
evitare vendette trasversali
e pesanti condanne. Un imprevisto avrebbe però messo
in discussione i piani
e la leadership del boss corleonese: la condanna all'ergastolo
di Giovanni
Riina, il figlio di don Totò.
Una vicenda giudiziaria di cui si è
abbondantemente discusso dentro le
carceri e che, come ha detto al nostro giornale, l'8 dicembre
scorso, il
consigliere del Csm Gioacchino Natoli «è suscettibile
di grave turbamento
negli equilibri di Cosa nostra». Un equilibrio che
è stato ulteriormente
indebolito, almeno apparentemente, dalla denuncia del numero
due del
Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Alfonso
Sabella che ha
messo in luce la strategia strisciante di Cosa nostra e
di pezzi delle
istituzioni che nonostante tutto continuerebbero a trattare.
Sabella aveva
messo per iscritto che il braccio destro di Riina, Salvatore
Biondino,
l'uomo indicato come ambasciatore dell'ala moderata di Cosa
nostra per
convincere i corleonesi più duri, Riina e Bagarella,
a scendere a patti con
lo Stato, aveva chiesto di accedere a un lavoro dentro il
carcere di
Rebibbia. Una richiesta, anche questa apparentemente innocua,
ma che, ha
svelato Sabella, in realtà gli avrebbe consentito
di girare liberamente per
i bracci speciali del 41 bis e incontrare con più
facilità i capimafia.
Dopo questa denuncia, affidata a un carteggio
riservato finito ora al Csm,
Sabella è stato di fatto esautorato. Il capo del
Dap, l'ex procuratore di
Caltanissetta Gianni Tinebra, ha abolito l'ufficio ispettivo,
assumendo le
competenze nell'ufficio di direzione. Una mossa a sorpresa
che ha bruciato i
tempi di una riorganizzazione in programma da tempo e che
avrebbe dovuto
essere attuata a gennaio. Lo stesso Sabella sembra aver
lamentato la
singolare coincidenza dei tempi tra la sua denuncia dei
movimenti di
Biondino e il suo siluramento. Del resto la ricerca di un
negoziato da parte
dei boss è un obiettivo antico. Ne cominciarono a
parlare in tempi non
sospetti i camorristi di Raffaele Cutolo. Prevedevano una
dichiarazione di
resa in cambio di un carcere più umano. Nel 1996
il primo a proporre
qualcosa di simile fu il killer di Pio La Torre, Salvatore
Cucuzza, offrì la
dichiarazione di resa e l'ammissione di responsabilità
dichiarando di non
volere accusare nessuno. Incontrò la ferma opposizione
dei giudici e si
risolse a varcare il fosso della collaborazione piena. Nello
stesso periodo
l'allora latitante Carlo Greco, intercettato in uno dei
suoi covi, valutava
favorevolmente una eventualità del genere. Negli
anni, voci di colloqui
ufficiosi tra boss e magistrati sul punto si sono rincorse.
Pierluigi Vigna,
procuratore nazionale avrebbe personalmente sondato la fattibilità
di una
corale dichiarazione di resa di capimafia eccellenti. E
lo stesso Gianni
Tinebra, in un'intervista del giugno dello scorso anno disse:
«Ero
contrario, ma adesso non più». Recentemente
si è arrivati alla pubblica
presa di distanza da parte di Pippo Calò. Ufficialmente
un "no" deciso a
qualsiasi operazione negoziale è arrivato dalla Procura
di Palermo e anche
di fronte al caso Sabella l'aggiunto Guido Lo Forte e il
pm Antonio Ingroia
hanno valutato con toni preoccupati l'infittirsi di voci
proprio sulla
ripresa della trattativa.