Giro81
/ Zoom Le "cavie" e i "morti
viventi" della riforma universitaria di Fausto Pattavina
La nuova riforma universitaria, varata
dal precedente governo di centro-sinistra e confermata dall'attuale
governo di centro-destra, è entrata in vigore nell'anno
accademico in corso, suscitando profondi dubbi e provocando
enormi disagi ed un malcontento diffuso sia tra i docenti
che tra gli studenti.
Questa riforma ha quasi totalmente
eliminato i diplomi di laurea quadriennali, allestendo un
gran numero di nuovi corsi di laurea. La durata di questi
corsi è stata ridotta da quattro a tre anni. Al termine
del triennio si consegue una cosiddetta "laurea junior",
il cui valore legale (e soprattutto formativo) è
ancora da definire. Con questa laurea si può accedere
ad un biennio di specializzazione, alla conclusione del
quale la formazione culturale posseduta dal laureato, sia
da un punto di vista quantitativo che qualitativo, dovrebbe
essere pressochè identica a quella di un laureato
del vecchio ordinamento (conclusa in quattro anni).
Una prima conseguenza concretamente
riscontrabile è una sistematica riduzione dei programmi,
atta a consentire un clamoroso aumento del numero delle
materie, il cui susseguirsi ininterrotto e scandito da frequenti
prove intermedie di verifica dell'apprendimento contemporanee
a numerose ore di lezione giornaliere, ha prodotto un ritmo
evidentemente insostenibile. Ogni materia è stata
divisa in moduli ai quali corrispondono dei crediti, suddivisi
tra le materie in base ad una logica che attribuisce (chissà
secondo quale fantomatico criterio) un credito a dieci ore
di lezione con il docente ed a quindici ore contestuali
di studio individuale. Uno studente che voglia seriamente
portare a termine un ciclo di studi "architettato"
in questo modo è messo comunque nelle condizioni
di farlo, senza però potersi permettere il "lusso"
di eccedere in perdite di tempo inerenti ad altre attività,
siano esse di tipo professionale, intellettuali o semplicemente
ludico-ricreative.
Questa riforma è altamente selettiva
e tendente a premiare l'impegno assiduo e costante dello
studente. Tuttavia, questa alta selettività si riscontra
solo per ciò che concerne l'aspetto quantitativo;
infatti, in considerazione della presunta e presupposta
qualità formativa e culturale che l'università
dovrebbe garantire, ammesso che lo studente riesca a concludere
il primo triennio in un lasso di tempo ristretto (come richiesto)
la domanda che sempre più frequentemente ci si pone
è: "Ma che tipo di formazione culturale, quali
momenti di approfondimento e quali opportunità per
lo sviluppo di un giudizio critico si possono avere durante
questo triennio?". La risposta è purtroppo facilmente
prevedibile. Una comprensione critica, approfondita ed autonomamente
gestita dallo studente del materiale proposto dai programmi
imposti non può essere ottenuta, se non a costo di
ridurre il ritmo di studio richiesto e ritrovarsi, inevitabilmente,
indietro rispetto ai vari cicli già predisposti in
maniera deleteriamente magistrale.
Se si esclude la Facoltà di
medicina, nella quale nulla è cambiato, nelle altre
facoltà la frase che più ricorre nelle aule
è: "Ragazzi, abbiate pazienza, siamo in fase
di sperimentazione, e voi siete le cavie!". Con buona
pace di tutti quegli studenti iscritti nei vecchi corsi
di laurea (poco eufimisticamente chiamati "i morti
viventi") che vagano alla ricerca di informazioni chiare
e precise sulla loro situazione ed assaliti dalla consapevolezza
angosciosa di essere sempre di più abbandonati a
loro stessi.
In questo disagio generale, viene da
più parti richiesta una qualche forma di protesta
che, lungi dal voler portare all'abolizione totale della
riforma, possa quantomeno attenuare alcuni tratti, il cui
carattere è accentuatamente 'aziendale' e funzionale
soltanto a pure logiche di mercato. E' importante che si
salvaguardino aspetti dell'insegnamento universitario, quali
l'approfondimento critico e la gestione autonoma dei ritmi
di studio da parte dello studente stesso, che questa riforma
ha l'intento di cancellare, marchiandoli come inutili ed
antiquati, o per meglio dire, "non funzionali al mercato
del lavoro".