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Ci serve la Terra viva, perché noi siamo parte della Terra

Riportiamo per intero il discorso tenuto dal presidente di Legambiente Roberto della Seta in occasione dell’ultimo congresso nazionale. "Per durare ci serve una Terra che ci dia da vivere. E questa Terra ci serve viva, perché della sua vita noi siamo parte. "

di Emanuele G. - lunedì 31 dicembre 2007 - 2690 letture

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Roberto della Seta

Care amiche e cari amici di Legambiente,

dò il benvenuto a tutti voi, e agli ospiti che ringrazio per la loro presenza, a questo ottavo congresso nazionale della nostra associazione. Un grazie speciale a Rita Tiberi e agli altri amici – da Paolo a Marcello, da Vitale alle ragazze e ai ragazzi dell’ufficio campagne - che hanno lavorato generosamente per organizzare questo congresso. Otto congressi – Urbino nel 1983, poi Perugia, Siena, Parma, Roma, Firenze, e questi ultimi due congressi ancora a Roma – significano più di vent’anni di impegno collettivo, significano tante migliaia di persone che hanno scelto di dedicare un po’ del loro tempo, un pezzo della loro vita – come nel caso di tutti voi: tre giorni a Roma totalmente a vostre spese - a fare dell’ambiente un’idea di futuro.

Qualcuna di queste persone purtroppo non c’è più. Permettetemi di ricordarne due per tutte, che se ne sono andate di recente. Una è Fabrizio Giovenale. Fabrizio è stato un fondatore di Legambiente, e fino all’ultimo se n’è sentito parte malgrado non sempre condividesse le nostre posizioni. Era un ambientalista radicale ma soprattutto era un intellettuale lucido e generoso ed era un uomo libero, allergico ad ogni conformismo; in mezzo secolo di articoli, libri, interventi, da una convinzione non ha mai derogato: la difesa dell’ambiente è prima di tutto un valore sociale, è un interesse per l’uomo prima che per la natura. Questa sua lezione, Legambiente ha sempre cercato di metterla a frutto. L’altra persona che non c’è più e che mi piace ricordare, molti di voi non l’hanno conosciuta. Si chiamava Lidia Serenari, era vicepresidente di Legambiente Lazio ed era l’anima del circolo Ecoidea di Roma: Lidia era una donna appassionata, curiosa, concreta e idealista in un tempo. In lei si manifestava compiutamente l’ambizione di Legambiente di essere, prima di ogni altra cosa, una comunità di persone dedite al bene comune.

In questa mia relazione parlerò soprattutto di cos’è Legambiente oggi e di come, oggi, possiamo fare bene gli ambientalisti, essere utili all’Italia, contribuire a valorizzarne le ricchezze e a curarne i mali. Ma voglio cominciare parlando di un fatto accaduto esattamente vent’anni (e un mese) fa: l’8 e il 9 novembre 1987, più di trenta milioni di italiani decisero, con il loro voto, che il nostro Paese chiudesse le centrali atomiche esistenti – poche, fortunatamente – e non realizzasse quelle progettate o in costruzione.

Non cito la vittoria contro il nucleare per nostalgia, anche se confesso che per me, che allora facevo l’obiettore di coscienza nella Lega per l’Ambiente, così ci chiamavamo, il ricordo di quegli avvenimenti è molto dolce. Nemmeno la rievoco solo per orgoglio associativo, anche se alla battaglia vittoriosa contro il nucleare, cominciata molti anni prima del 1987, Legambiente – con Ermete, con Gianni Mattioli, con Massimo Scalia, con Marcello Cini, con Paolo Degli Espinosa - diede un contributo decisivo. Ne parlo perché lì c’è molto della nostra originalità, del nostro cammino successivo, anche del nostro futuro. Lì c’è molto di noi, c’è una radice importante del nostro agire e pensare di questi anni. C’è il progetto Cernobyl, con il quale abbiamo portato in Italia per soggiorni terapeutici migliaia di bambini delle aree contaminate dall’incidente del 1986, volto di un ambientalismo che si fonda sui valori della solidarietà prima di tutto verso l’uomo. C’è la ricerca costante d’incontrarci, allearci con bisogni e interessi anche diversi da noi, ma che con noi condividono i medesimi obiettivi: se nel 1987 abbiamo vinto, è anche perché allora riuscimmo a convincere gli italiani che il no al nucleare aveva basi non solo nell’ecologia ma in un’immagine del futuro più conveniente, più razionale, in fin dei conti meno cupa e triste. Ancora, c’è lì la radice della nostra attenzione costante, prioritaria per il tema energetico come quintessenza della necessità di mettere l’ambiente al centro della politica, dell’economia. E ci sono, infine, le prime prove concrete di due nostre vocazioni originarie: l’ambientalismo scientifico, collaudato in quel nostro dossier del 1986, “I conti sbagliati del Pen” che smontava le stime gonfiate ad arte sul trend del fabbisogno energetico italiano, e l’informazione ai cittadini, che ci vide nei giorni del dopo-Cernobyl insieme a “La Nuova Ecologia” come la principale voce di verità sui rischi per l’Italia della nube radioattiva. Dall’incontro di questi tratti fondanti del nostro modo di fare ambientalismo sono nate le campagne più popolari di Legambiente – Goletta Verde, Treno Verde -; sono nate iniziative di grande valore scientifico e di fortissimo impatto mediatico come Ecosistema Urbano, il cui geniale copyright va ascritto al merito di Alberto Fiorillo; è nato il rapporto Ambiente Italia curato da quell’altro genio di Duccio Bianchi; è nata l’accoppiata con “La Nuova Ecologia”, il nostro giornale, che oggi con Marco Fratoddi come da oltre vent’anni è la voce più autorevole dell’ambientalismo italiano.

Oggi c’è chi ripropone il vecchio nucleare come opzione per il futuro, o addirittura lo presenta come risposta ecologica al problema dei mutamenti climatici: è la prova della profezia di Einstein per cui “i problemi non possono venire risolti dalla mentalità che li ha creati”. Il punto non è trattare il nucleare come un tabù: se arriverà la fusione, se arriveranno centrali che davvero cancellano i rischi radioattivi, questa sarà un’ottima notizia per il futuro dell’umanità e anche per noi ambientalisti. Ma oggi, questo è il punto, nessuno dei problemi che hanno condannato il nucleare alla sconfitta in Italia e al declino in tutto l’Occidente è stato risolto: non i problemi legati alla gestione delle scorie, alla gestione delle centrali dimesse, alla possibilità d’incidenti dagli esiti incontrollabili, alle contaminazioni ordinarie; non i rischi di un uso militare delle tecnologie del nucleare civile, che anzi nel mondo attuale – più anarchico di quello di vent’anni fa – sono ingigantiti.

Il nucleare non è la risposta ma certamente, dal 1987 a oggi, una nuova, diversa questione ambientale legata all’energia si è imposta su tutte: quella dei mutamenti climatici. Gli ultimi anni, direi gli ultimi mesi hanno segnato un salto vistoso nella consapevolezza globale di questo problema: l’evidenza scientifica che il “global warming” è in atto, e che esso nasce in larga misura dal consumo esorbitante e crescente di combustibili fossili, ha costretto a ricredersi anche gli ultimi negazionisti, almeno quelli in buona fede. Ridurre i consumi di petrolio e di carbone è la condizione per fermare la crisi climatica: una condizione d’interesse vitale per l’umanità – i mutamenti climatici mettono a rischio la vita della nostra specie, non quella del pianeta -; una condizione decisiva anche per evitare che lo sviluppo – inevitabile ed auspicabile - di tutti i Paesi ancora molto più poveri dei nostri non finisca in un olocausto climatico; una condizione difficile, difficilissima da costruire perché si scontra sia con inerzie e resistenze soggettive sia con tendenze oggettive, prima fra tutte l’esplosione delle economie – e dei consumi energetici - di immensi Paesi come la Cina, l’India, l’Indonesia. Quella che serve è una vera, radicale rivoluzione energetica, che deve investire i sistemi energetici, i sistemi di trasporto, l’organizzazione delle città, gli assetti del territorio. Per compierla, occorre usare al meglio tutti gli strumenti a disposizione: impegni globali sulla via, da allargare sensibilmente, del Protocollo di Kyoto; la ricerca e l’innovazione tecnologica; le politiche nazionali di incentivazione al miglioramento dell’efficienza e allo sviluppo delle fonti rinnovabili; l’utilizzo della leva fiscale spostando quote dell’imposizione dal lavoro e dalle imprese alle fonti energetiche a più elevato impatto climatico ed inquinante; la sensibilizzazione verso i cittadini. Mai come oggi, mai come di fronte ai mutamenti climatici, un’esigenza ambientale - neutralizzare il riscaldamento globale - si presenta come frontiera più avanzata della modernità, del progresso.

La rivoluzione energetica necessaria per arrestare la spirale del “global warming” è certamente ardua, ma è spinta, incoraggiata da ragioni non solo ambientali. Prima di tutto le ragioni economiche legate al costo esorbitante – per le imprese, per gli Stati, per i singoli cittadini – dei cambiamenti climatici. E accanto molte altre ragioni. Quelle del progresso tecnologico, che come disse una volta il capo storico dell’Opec Yamani è il vero nemico del petrolio. Le ragioni dell’equità, per le quali un futuro nel quale tutti gli esseri umani possano vivere dignitosamente è plausibile solo se il modo dell’umanità di produrre e consumare energia non si baserà più prevalentemente sui combustibili fossili: altrimenti il “global warming” rischia di cancellare sia il benessere attuale dei ricchi che la speranza di benessere dei poveri. Ancora, le ragioni della geopolitica, che consigliano di ridimensionare lo strapotere strategico oggi nelle mani dei pochi, che controllano le risorse petrolifere. E infine, per Paesi come il nostro, le ragioni dello sviluppo: importiamo tutto il petrolio che consumiamo, solo acquistando una maggiore autonomia energetica potremo essere competitivi nel mondo globalizzato.

Negli ultimi anni, meglio negli ultimi mesi, l’evidenza crescente dei cambiamenti climatici ha fatto precipitare un altro mutamento di clima, questa volta provvidenziale. In un tempo straordinariamente rapido, si è diffusa la consapevolezza – fino a pochi anni fa patrimonio quasi soltanto di ambientalisti e scienziati - che il “global warming” non è un pericolo futuro ma un processo già largamente in atto; che non minaccia genericamente il pianeta – il pianeta ha vissuto molti altri sconvolgimenti climatici, è si è adattato – ma minaccia, prima di tutto, il benessere, la sicurezza, forse la stessa sopravvivenza di una ben precisa specie animale: la nostra. Una tappa decisiva di questo grande cambiamento è stata la pubblicazione circa un anno fa dell’ormai celebre Rapporto Stern, studio commissionato dal governo britannico e coordinato da un autorevolissimo economista nel quale si dice, e si dimostra, che i mutamenti climatici se non vengono fermati costeranno così tanto da mettere in ginocchio l’economia mondiale.

Il Rapporto Stern ha dato una bella spinta perché non solo l’opinione pubblica, ma la stessa politica cominciassero a guardare a questo problema per ciò che è: la prima, più grande sfida per l’umanità del XXI secolo. Oggi grande leader mondiali – da Angela Merkel a Nicholas Sarkozy, da Tony Blair a quasi tutti i candidati alla presidenza Usa – parlano dei mutamenti climatici come del punto più urgente dell’agenda politica mondiale, e in diversi casi le parole hanno prodotto fatti: la decisione dell’Unione europea di fissare obiettivi ambiziosi e ravvicinati nel cammino di riconversione del sistema energetico, piani nazionali di riduzione delle emissioni climalteranti ancora più rigorosi da parte di grandi Paesi come la Germania e il Regno Unito, pochi giorni fa in Francia la “Grenelle dell’ambiente”, conferenza conclusa da Sarkozy con l’annuncio di misure srstraordinarie per ridurre i consumi energetici e sviluppare le energie pulite; negli Stati Uniti la scelta di numerosi Stati – tra cui la California del repubblicano Schwarzenegger – e di alcune delle maggiori multinazionali di sconfessare apertamente la politica anti-Kyoto di Bush.

Questo salutare terremoto ha avuto come epicentro l’Europa, che peraltro già dagli anni in cui Romano Prodi era presidente della Commissione fece della ratifica del Protocollo di Kyoto un suo obiettivo di punta, e che – va aggiunto - anche su altri fronti delicati d’intreccio tra industria e ambiente, penso al regolamento “Reach” sull’eliminazione delle sostanze chimiche pericolose per la salute approvato di recente, mostra un incoraggiante capacità innovativa.

L’Europa, seppure tra contraddizioni e incertezze, ha raccolto la sfida d’innovazione posta dai mutamenti climatici, e questa è una buona notizia per chi come noi pensa non da oggi che l’Europa – per la sua tradizionale attenzione a una nozione ampia, sociale e solidale, di benessere - possa e debba farsi l’alfiere di una “buona globalizzazione”, che possa e debba spendersi perché, in particolare, tutti i Paesi industrializzati, perché gli stessi Stati Uniti si assumano la responsabilità che deriva loro dal fatto di essere la parte del mondo che pur rappresentando una piccola minoranza dell’umanità, però incide per una quota molto grande sui problemi ambientali e sul “global warming”. Guidare lo sforzo per ridurre le emissioni che stanno cambiando il clima è per l’Europa un interesse anche economico: abbiamo poco petrolio, e l’innovazione energetica è un terreno privilegiato per economie tecnologicamente avanzate come le nostre. Ma l’impegno dell’Europa su questo terreno ha anche un grande valore politico: fare fino in fondo la nostra parte per neutralizzare i mutamenti climatici, assistere e sostenere la necessità che i Paesi ancora lontani dai nostri standard di sviluppo – ricordo che le emissioni pro-capite di CO2 della Cina restano un decimo di quelle dell’Italia – possano crescere lungo una via davvero sostenibile, è indispensabile se vogliamo che per centinaia di milioni di donne e di uomini che vivono in Africa, in Asia, in America latina, l’Occidente non sia più visto come simbolo di egoismo, privilegio, arroganza.

Sul ruolo dell’Europa come apripista di una “buona globalizzazione”, faccio una parentesi. Tutti noi, credo, dobbiamo essere orgogliosi che dalla casa europea sia venuta una proposta – la moratoria mondiale sulla pena di morte – che da qui a poco potrebbe essere assunta dalle Nazioni Unite. Dobbiamo esserne orgogliosi e dobbiamo, aggiungo, esserne grati prima di tutto a una donna italiana: Emma Bonino.

Il problema drammatico e inedito del cambiamento climatico chiama la politica, l’economia, l’intera organizzazione sociale a riorientare le proprie idee sul futuro, sul bene comune ma anche sul progresso e sullo stesso interesse economico. Pure noi ambientalisti dobbiamo rivolgere con più determinazione lo sguardo verso il futuro, perché anche l’ambientalismo – che pure rappresenta una riflessione, una sensibilità relativamente recenti -, anche l’ambientalismo però è nato quando questa terribile minaccia non c’era o comunque non era percepita.

Chi difende l’ambiente riscuote in generale molte simpatie, più o meno sincere e più o meno profonde. Ma all’ambientalismo come paradigma culturale molti, anche molti che non sono certo avversari delle nostre ragioni, contestano la tendenza a privilegiare la conservazione sul cambiamento, la testimonianza sulla proposta concreta e costruttiva. Bene, io penso che noi dobbiamo raccogliere la sfida di chi ci chiede come ambientalisti di fare un passo avanti rispetto ai nostri limiti. Ma penso che ai nostri critici, spesso appartenenti ad altre, più antiche culture politiche, dobbiamo chiedere a nostra volta di capire davvero, e non solo a parole, che mettere l’ambiente al centro delle scelte sul futuro vuol dire rovesciare, letteralmente rovesciare il modo di ragionare seguito fino ad oggi da chi ha responsabilità di decisione nella politica, nell’economia, nella rappresentanza sociale. Non si può chiedere a noi uno scatto di modernità, e poi sostenere che la modernità sia rilanciare il carbone, sia moltiplicare le autostrade e mandare in rovina le ferrovie, sia lasciare l’Italia maglia nera in Europa per efficienza energetica e fonti rinnovabili, sia far crescere senza limiti il consumo di territorio. E aggiungo: è un po’ paradossale, persino ridicolo, che gli stessi che fino a ieri ci liquidavano come inventori di allarmi infondati, oggi ci diano lezioni su come si affrontano i problemi che finora ignoravano o negavano.

Ma torno a noi. Nel nostro documento abbiamo scritto che mentre sul piano culturale la rivoluzione ambientalista è riuscita, ha definitivamente imposto i suoi temi nell’opinione delle persone e nello stesso discorso pubblico, invece politicamente l’ambientalismo resta un “nano”, che fino ad oggi non siamo stati in grado di integrare davvero il criterio ambientale nelle scelte della politica da cui dipende il futuro. Proprio l’urgenza ormai condivisa dei problemi ambientali ci chiede di colmare rapidamente questa distanza: come ha scritto Lucio Caracciolo in un articolo di qualche mese fa, oggi molti pensano che l’ambiente sia una faccenda troppo seria per lasciarla agli ambientalisti. Se prevarrà tale giudizio, condiviso anche da osservatori tutt’altro che disattenti alle nostre ragioni – cito per tutti Anthony Giddens - noi avremo perso la nostra occasione storica.

Le ragioni della nostra inadeguatezza e non credibilità come terapeuti dei mali che denunciamo, sono sicuramente più d’una. Appartengono, certo, alla radicalità delle trasformazioni necessarie a fermare il “global warming” e gli altri fenomeni di degrado ambientale, nonché alla forza, alla resistenza degli interessi e delle inerzie culturali che a tali trasformazioni si oppongono. Ma appartengono anche a nostri limiti, soprattutto a quella che è stata fino ad oggi l’incapacità del movimento ambientalista di convincere gli altri, e ancora prima noi stessi, che il mondo che vogliamo non è soltanto più ecologico: è più desiderabile socialmente, è più razionale economicamente, è più moderno del mondo che c’è.

Il punto, voglio dirlo subito, non è contrapporre un ambientalismo del sì a uno del no, e tanto meno un ambientalismo moderato ad uno più radicale.

Per mettere il presente e il futuro sulla via della sostenibilità servono cambiamenti decisamente radicali, e serve dire molti no, difenderli, provare a farli vincere. C’è un libro di una famosa pedagogista, qualcuno di voi che è genitore sicuramente l’ha letto, che s’intitola “I no che aiutano a crescere”. Come per lo sviluppo delle persone, così anche per affrontare in positivo i nodi ambientali, per tradurli da problemi in opportunità, servono i no. I no di Legambiente sono chiari e netti: no agli Ogm in agricoltura, no a nuove autostrade, no a nuove centrali a carbone, no a un’ulteriore cementificazione del territorio. Affermare questi no è la condizione per costruire un futuro diverso, migliore e possibile.

Ma per difendere l’ambiente non ci si può, non ci si deve fermare ai no. Il futuro che vogliamo per diventare presente ha bisogno di grandi cambiamenti, ha bisogno di un ambientalismo del fare, di un ambientalismo che si batta, anche, per realizzare le opere, le infrastrutture necessarie alla sostenibilità. Questa è stata sempre la nostra scelta e questa rimane oggi. Questa, aggiungo, è tra le ragioni principali della nostra forza: siamo credibili nelle battaglie contro il Ponte sullo Stretto di Messina – battaglia per ora vinta -, contro le nuove centrali a carbone di Civitavecchia o di Porto Tolle o di Saline Ioniche, contro autostrade sbagliate come la tirrenica o la Bre-Be-Mi, contro il diluvio di inceneritori che vorrebbe Totò Cuffaro in Sicilia, contro le grandi speculazioni edilizie come Europaradiso a Crotone – un’altra battaglia vinta – o come Romilia in Emilia, contro la chimica che inquina; siamo credibili in tutti questi “no”, anche perché nello stesso tempo diciamo brava alla Solvay che inaugura a Rosignano il primo impianto italiano cloro-soda dove non si usa più mercurio, e ci battiamo a favore delle nuove linee di metropolitana a Roma, a favore degli impianti eolici, a favore degli impianti di compostaggio per i rifiuti, a favore di ferrovie più moderne e più efficienti, a favore dell’auditorium di Niemeyer a Ravello. A favore, anche, della necessità di realizzare sul nostro territorio alcuni rigassificatori che consentano di puntare sul metano, l’energia fossile a più basso impatto sull’ambiente e sul clima, come alternativa di gran lunga preferibile al petrolio e al carbone.

Dentro questo orizzonte sta anche il nostro rapporto con la vituperatissima sindrome Nimby. Il Nimby non è ovviamente un fenomeno solo italiano: è un fatto che riguarda tutto il mondo e che investe con particolare vigore i Paesi di democrazia avanzata. La sua radice è nella domanda delle comunità locali di non essere solo oggetti delle trasformazioni territoriali che le coinvolgono. In questo senso, la sindrome Nimby nasce dal cuore di quella dialettica tra luoghi e flussi, tra identità e globalizzazione, che è uno dei tratti pregnanti dell’attuale modernità.

Sebbene vi sia talvolta anche un Nimby anti-ambientale – cito per tutte le mobilitazioni contro l’istituzione di parchi e riserve che in alcuni casi, per esempio in Sardegna, per ora hanno avuto la meglio -, non c’è dubbio che la sindrome Nimby sia uno degli ingredienti più tipici del conflitto ambientale. E siccome Legambiente, alla faccia di chi ci accusa di essere “moderati”, in Italia è il principale soggetto che fa conflitti ambientali, noi col Nimby ci sporchiamo le mani tutti i giorni. E’ Nimby l’ispirazione iniziale di tante mobilitazioni che ci vedono protagonisti, dalla Val Susa a Civitavecchia, da Brindisi a Scanzano Jonico, e in generale noi dobbiamo continuare a guardare in faccia l’interesse ambientale locale, anche localistico, perché il nostro ambientalismo, se vuole cambiare il mondo, non può prescindere dall’incontro con le persone, le comunità, per le quali chiedere qualità ambientale è sinonimo di chiedere un ruolo non da spettatori o peggio da vittime dei processi di globalizzazione.

Però, come per i no, noi non possiamo fermarci al Nimby. Il nostro conflitto, il conflitto che produce cambiamenti positivi per l’ambiente, può partire dal Nimby ma deve andare oltre. Perché il Nimby per sua natura non seleziona gli obiettivi e le priorità, non costruisce cambiamenti positivi ma reagisce soltanto ai cambiamenti indesiderati. E perché fuori dal cortile il Nimby non costruisce consenso, anzi può alimentare l’immagine dell’ambientalismo come cultura dell’egoismo campanilistico; e spesso non costruisce consenso nemmeno dentro il cortile, come dimostrano tanti casi di comitati nati su vertenze anche importanti – da Civitavecchia a Vicenza – che presentatisi al voto amministrativo hanno ottenuto risultati modesti.

La somma di tanti Nimby non fa una prospettiva di cambiamento, e il nostro compito è costruire conflitti utili anche fuori dal cortile dove nascono. Di più, il Nimby fine a se stesso degenera facilmente nell’egoismo più angusto, e qualche volta assume sembianze decisamente grottesche o pericolosamente ambigue: è il Nimby del ministro Di Pietro, che costruirebbe autostrade anche a Portofino ma poi si batte come un leone contro quattro pale eoliche in mezzo al mare davanti a casa sua in Molise; è il “super-Nimby” del “super-comitato” promosso da Asor Rosa, nel quale si dice no all’eolico, no al compostaggio dei rifiuti, non al mini-idrico, no anche al fotovoltaico, no al nuovo tram di Firenze, e nel quale le istanze ambientaliste si ritrovano fianco a fianco con quelle di chi non vuole le moschee. E’ ancora, cito quest’altro esempio perché davvero mi ha colpito, la posizione di quei comitati che per argomentare l’opposizione ad un nuovo aeroporto teorizzano d’essere contrari ai voli “low cost”; ora vi chiedo: ma che speranza avremo mai di convincere la maggioranza delle donne e degli uomini, magari anche qualche donna e qualche uomo con meno di trent’anni, che il futuro che proponiamo è attraente, battendoci contro i voli a basso costo che per milioni di giovani in tutto il mondo, compresi i nostri figli, e non solo per i giovani significano una porta aperta sul mondo? Per il problema-ambiente un ambientalismo così, la dico brutalmente, non solo non è la soluzione ma diventa un pezzo del problema.

L’ambientalismo del XXI secolo deve dire molti no, deve coltivare la sua radicalità, deve accendere conflitti. Ma tutto questo deve fare rielaborando le proprie ragioni come semi di un nuovo progresso, di una nuova modernità. Per noi il pericolo maggiore è venire percepiti come testimoni, o peggio ancora come complici, di quella paura del futuro che è uno dei segni più diffusi e preoccupanti del nostro presente: un atteggiamento certo alimentato anche dalla consapevolezza crescente della gravità dei problemi ambientali, a cominciare dai mutamenti climatici, ma che poi prende strade che paralizzano i cambiamenti necessari anziché accelerarli. Questa paura, questo pessimismo noi dobbiamo guardarli in faccia, dobbiamo evitare di demonizzarli, ma non possiamo assecondarli perché diventeremmo, così, un pensiero e un movimento sterili. Un pericolo che vedo in quelle visioni e sensibilità che in nome dell’ambientalismo ostentano una diffidenza pregiudiziale verso la tecnologia e verso la stessa scienza, o predicano la rinuncia, l’astinenza, la cosiddetta decrescita come sola speranza di salvezza per l’uomo. Dell’orizzonte ambientalista fa parte, questo sì, la propensione verso stili di vita e di consumo meno anti-ecologici, anche più sobri, ma tale orizzonte, per parlare all’uomo e per convincerlo, deve restare un orizzonte di progresso, solo di un progresso nel quale il miglioramento e la diffusione del benessere procedano disaccoppiati da un aumento indefinito del prelievo di capitale naturale, da una crescita illimitata del tasso di entropia degli ecosistemi.

Uno dei grandi meriti di Legambiente, un merito che fa di noi – lo dico sapendo che qualcuno troverà in questo giudizio la conferma che siamo terribilmente presuntuosi – una voce originale nell’ambientalismo non solo italiano, è di avere evidenziato tra i primi questo limite di “nanismo” politico presente nell’ambientalismo, e di avere tra i primi provato a indicare qualche via per superarlo.

Abbiamo sempre rifiutato che la grandezza dell’ambientalismo si limiti alla capacità – che c’è stata, indiscutibile e ormai assodata – di vedere in anticipo problemi che oggi tutti vedono e considerano importanti. Abbiamo sempre rifiutato di percepirci e di venire percepiti come soltanto delle Cassandre, seppure Cassandre che ci hanno azzeccato. Abbiamo sempre – con l’ambizione e l’incoscienza di provare a rispondere a questioni, problemi, esigenze molto più grandi di noi -, abbiamo sempre cercato di praticare un ambientalismo che fosse grande anche nel disegnare il futuro.

Questo abbiamo fatto ponendo al centro della nostra riflessione il nodo globalizzazione/identità. Nel documento preparato per il congresso del 1999 scrivevamo che “i processi di globalizzazione non annullano il bisogno d’identità”, e che la via dell’omologazione culturale, economica del mondo ad un unico modello imposto è iniqua, non porta vero benessere ed è terribilmente pericolosa, perché spinge le identità a manifestarsi nelle forme più deteriori. Pochi mesi dopo, questa stessa visione è diventata uno dei tratti salienti dei movimenti di critica alla globalizzazione e oggi non c’è chi non veda che sacrificare il bisogno di identità non solo non è un corollario inevitabile della globalizzazione, ma caccia la globalizzazione dentro tunnel senza uscita. L’identità, la diversità sono lieviti indispensabili per fare crescere bene la globalizzazione, mentre l’omologazione rende l’umanità più povera culturalmente e rende chi si omologa più povero anche economicamente. Questa è una delle migliori e più durature lezioni che vengono dalla stagione dei movimenti no-global: per ogni popolo, per ogni Paese, coltivare la propria diversità non è soltanto un evidente bisogno identitario, è anche un interesse economico. Così per l’Italia, che può competere nel mondo globalizzato solo esaltando le proprie virtù più tipiche, prima fra tutte quella vocazione – uso le parole di Carlo Maria Cipolla – a “produrre all’ombra dei campanili cose che piacciono al mondo” che la contraddistingue da secoli, e che anche al proprio interno ha tutto l’interesse a praticare un vero federalismo, nel quale la valorizzazione delle nostre mille tradizioni e vocazioni territoriali sia il terreno per su cui fare più forte lo stesso interesse nazionale.

A proposito dei movimenti no-global, aggiungo due osservazioni. Oggi questa stagione di mobilitazione, di protesta, che ha vissuto il suo apice con il movimento contro la guerra in Iraq, è indiscutibilmente entrata in una fase di eclissi, per l’inevitabile ciclicità che caratterizza questo genere di fenomeni sociali e anche per i limiti, le contraddizioni, le ambiguità di un movimento nel quale hanno convissuto esperienze di straordinaria freschezza e modernità – penso all’esperienza dei forum sociali che da Porto Alegre a Firenze, da Parigi a Mombay hanno visto all’opera laboratori eccezionali, per qualità e partecipazione, di sapere critico – e leadership molto spesso legate a schemi di analisi della realtà anacronistiche e talvolta ambigue, inadeguate per esempio a cogliere i grandi spazi di liberazione sociale ed umana che pure si aprono con la globalizzazione, o a guardare ai problemi ambientali come a qualcosa di più di diverso, che semplici varianti dello sfruttamento capitalistico, o a capire fino in fondo che se si vuole un mondo diverso e migliore battersi contro il fondamentalismo islamico, sconfiggere il terrorismo globale, non è meno importante che contrastare la guerra preventiva di Bush. I no-global oggi sono in crisi, ma io penso che Legambiente abbia fatto la cosa giusta – ci tengo a ricordarlo in quanto allora questa scelta non fu scontata né, per essere sinceri, unanime - a partecipare a quel grande movimento: e credo che tutti noi dobbiamo essere grati in particolare a una persona, Maurizio Gubbiotti, che con passione e intelligenza si è dedicato a questo compito. Facemmo allora la scelta giusta perché l’aspirazione alla giustizia, alla socialità, alla solidarietà che lì ha trovato espressione è da sempre la nostra, e nostro è il rifiuto di un governo del mondo nelle mani di pochi privilegiati. Perché da quella scossa è venuta una spallata decisiva al pensiero unico, all’idea del futuro come omologazione. Perché la riflessione altermondialista su molti terreni si è mostrata più razionale, più realista della “real-politik”: profetizzando per esempio che l’economia globale finanziaria non crea vera ricchezza ma instabilità, sia sociale che economica, come i fatti di questi anni hanno largamente dimostrato. Perché, ancora, grazie al movimento no-global si è fatta più forte, in noi e nell’opinione pubblica, la convinzione che l’ambiente ha molto a che fare con la giustizia e con la pace. Questa consapevolezza è ormai insediata nella coscienza di tanti, lo simboleggia il fatto che due volte negli ultimi tre anni il premio Nobel per la pace sia stato assegnato a degli ambientalisti, Wangari Maathai e Al Gore, e all’Ipcc.

Un altro terreno importante e originale della nostra ricerca è quello che si può riassumere nella formula – “non-solo-merci” – che prendemmo come titolo per il nostro congresso di otto anni fa. “Non-solo-merci” vuol dire la consapevolezza che oggi le persone, le comunità hanno un’idea di benessere, di progresso che non è riducibile alla misura del Pil. La ricchezza materiale resta un orizzonte importante, un orizzonte di crescita, di miglioramento connaturato forse all’homo sapiens e comunque all’antropologia contemporanea e alla realtà di un mondo come il nostro dove due miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno, e questa è la ragione per cui trovo inservibile oltre che intrinsecamente discutibile l’idea della decrescita. E però, accanto alla ricchezza materiale contano sempre di più, nella valutazione personale e collettiva del benessere, fattori diversi: la salute, i diritti e l’autonomia personali, la quantità e la qualità delle relazioni sociali, la qualità estetica dei luoghi in cui si vive, le preoccupazioni evocate dalla bioetica, l’accesso alla conoscenza, la possibilità per le persone e per le comunità di partecipare alle decisioni che ne influenzano la vita e il futuro, il diffondersi tra gli individui e in intere culture politiche dei princìpi della nonviolenza. E’ così in Occidente ed è così - anche questa è una lezione che il mondo ha imparato da grandi ambientalisti, cito per tutti Chico Mendes - persino nel mondo più povero, dove sempre più spesso chi si batte contro la povertà si batte anche, con analoga determinazione, per difendere la propria identità e sovranità culturale e anche per salvaguardare l’ambiente.

L’attenzione crescente per fattori non esclusivamente materiali del benessere – l’ambiente, l’etica, l’estetica, la realizzazione personale – è uno dei tratti più originali e più positivi del tempo che viviamo, un tratto di indiscutibile progresso che smentisce le rappresentazioni nostalgiche, pessimiste di un’umanità in crisi irrimediabile di valori. Molto spesso queste diverse sensibilità post-materialiste camminano insieme. Si vede in cambiamenti socio-culturali ormai consolidati – l’affermarsi con il terzo settore di una vasta rete di economie no-profit , la diffusione di stili di vita e di consumo – come quelli descritti da Andrea Poggio nel suo bel libro “Vivi con stile” - che integrano il consumerismo con punti di vista e criteri etici e ambientali, dal commercio equo e solidale alla finanza etica – e si vede nella stessa esperienza di Legambiente. La nostra idea di ambientalismo è sempre stata ancorata al desiderio di un mondo più giusto e questa ispirazione è alla base di molte nostre iniziative e collaborazioni: dallo stretto legame con il Movimento di difesa del cittadino, alla partecipazione a Banca etica, alla scelta di aderire a Fairtrade, il marchio mondiale del commercio equo e solidale.

Insomma, nel “paniere” del benessere oggi stanno, affiancati e mescolati ai bisogni tradizionali legati al reddito, anche molti altri ingredienti e dimensioni, a cominciare dall’ambiente. Un cambiamento di sensibilità che ha già una storia antica, quasi mezzo secolo fa in uno dei suoi ultimi discorsi Robert Kennedy così ammoniva: “Non troveremo né un fine per la nazione né la nostra personale soddisfazione nella mera continuazione del progresso economico”. Parole profetiche, che mi sono venute in mente quando pochi giorni in Australia, dove da oltre dieci anni il Pil cresce a ritmi vertiginosi, i conservatori al potere hanno perso malamente le elezioni perché la maggioranza dei cittadini, assediata da una inedita siccità che dura da sei anni e che viene attribuita ai mutamenti climatici, ha bocciato la scelta del governo di non aderire al Protocollo di Kyoto.

Ma “non-solo-merci” non rimanda soltanto a una nozione più moderna, avanzata di benessere: è l’idea che vi siano beni comuni – beni naturali come l’acqua o la biodiversità, ma anche beni immateriali come il diritto di tutti di accedere alle conoscenze - che non possono venire trattati come cose da comprare e da vendere; ed è l’idea che lo stesso sviluppo economico, per essere socialmente ed ambientalmente sostenibile e per essere duraturo, debba essere “non-solo-merci”. Risiede qui, per me, il senso più innovativo e prezioso della riflessione di Ermete sulla “soft economy”: nella convinzione che il futuro dell’Europa e in particolare dell’Italia, il nostro futuro anche economico, dipenda dalla capacità che avremo di valorizzare anche sul terreno dell’economia ricchezze che sono e che devono restare largamente pre-economiche ed extra-economiche: la qualità ambientale, la qualità culturale, la conoscenza, la coesione sociale, l’appartenenza comunitaria, la bellezza.

Poi certo, la “soft economy” è anche ed è molto economia della conoscenza, dell’innovazione: ma di una conoscenza e di un’innovazione diffuse, fatte patrimonio sociale; di una conoscenza e di un’innovazione, parafrasando il titolo di un bellissimo libro di Marcello Cini, che non riducano Prometeo ad un supermercato.

Vi dò qualche dato sugli scenari macroeconomici dei prossimi due, tre decenni. Nel 2040, quando mio figlio sarà più giovane di me oggi, l’Unione europea peserà sull’economia globale per poco più della sua popolazione. Così l’Italia, che già nel 2025 sarà superata nel Pil da Paesi come Messico e Indonesia. Allora la “soft economy” non è per l’Italia una scommessa visionaria, ma è l’unica possibilità che alla riduzione inevitabile – e tutto sommato equa – del nostro peso sull’economia globale, corrisponda un analogo ridimensionamento della nostra capacità competitiva e del nostro benessere economico. Questa via è anche squisitamente ecologica. Cos’hanno infatti in comune il nostro paesaggio, i nostri beni culturali, la nostra coesione sociale, la nostra creatività? Sono tutti ingredienti fondamentali dell’identità italiana ma sono tutti, anche, grandi risorse immateriali, dunque ecologiche, ben difficilmente riproducibili o delocalizzabili.

Uno storico americano, Richard Florida, in un suo saggio intitolato “L’ascesa della nuova classe creativa” scrive tra l’altro: “La determinante classe dei creativi è attirata non dai fattori economici tradizionali, ma dalla gradevolezza del posto dove lavorare e dunque vivere. I creativi in una comunità cercano l’abbondanza di attrattive e di esperienze di qualità, l’apertura a ogni genere di diversità e sopra ogni cosa la possibilità di vedere riconosciuta la propria identità di persone creative”. Questa è la ragione, faccio un esempio che ho sentito citare recentemente dal presidente della Toscana Claudio Martini, per la quale una grande multinazionale farmaceutica americana, dovendo scegliere tra Firenze, Göteborg e Düsseldorf come sua sede europea, e avendo ben chiaro che a Düsseldorf e Göteborg la logistica è più favorevole, alla fine ha scelto Firenze.

Così, la qualità culturale e ambientale dei territori – cito un tema su cui in questi anni per merito soprattutto di Vittorio Cogliati abbiamo sviluppato un’elaborazione e un confronto importanti - diventerà sempre di più un fattore decisivo, fattore squisitamente extra-economico, nella localizzazione dei centri pensanti dell’economia mondiale. Così, anche la qualità sociale del vivere e del lavorare è fattore extra-economico che può rendere, però, più competitivi: l’ha capito Brioni scegliendo Penne, un piccolo paesino sull’Appennino laziale, per fare i suoi vestiti che si vendono da Tokyo a Los Angeles; l’ha capito quell’imprenditore marchigiano della pasta, Enzo Rossi, che ha deciso di pagare di più i suoi operai dopo avere sperimentato su di sé cosa significa vivere con 1000 euro al mese.

Oggi anche in Italia ci sono molti poveri, e ci sono moltissime persone, famiglie che vivono con redditi bassi che li collocano sul limite dell’indigenza: questo non è solo un fatto inaccettabile sul piano della convivenza civile, dell’equità: è anche un grande disvalore economico, come il governatore della Banca d’Italia Draghi ha giustamente sottolineato, ed è una lacerazione profonda nel tessuto della coesione sociale. Antisociale ed antieconomico, oltre che ingiusto, è anche un altro fenomeno che sempre di più caratterizza il volto delle nostre società occidentali: la precarietà nel lavoro, soprattutto nel lavoro dei giovani. Una condizione che impedisce o inibisce la possibilità e la voglia di progettare il proprio futuro, di crederci; una condizione che come uno specchio deformante riflette e ingigantisce una percezione più generale di insicurezza: alimentata dai rischi di indebolimento e frammentazione dei rapporti identitari e comunitari ad ogni livello – dalla città, alla classe, alla famiglia -; e una condizione legata pure, come dimostrano tante ricerche, a una sfiducia complessiva verso un futuro migliore del presente, nella quale le preoccupazioni ambientali pesano moltissimo E’ qui, in questa condizione di disagio fatta sia di fenomeni reali che di percezione, il vero fondamento dell’attuale crisi dell’idea di progresso.

E’ impossibile ridare senso all’idea di progresso senza difendere e rafforzare la coesione sociale. A questo compito siamo chiamati anche noi ambientalisti, poiché la coesione sociale, anche la coesione delle comunità, sono grandi ricchezze immateriali, dunque squisitamente ecologica, e sono una base irrinunciabile della sostenibilità. Tanto più deve impegnarsi su questo fronte l’ambientalismo italiano: nei nostri paesi, e malgrado tutto anche in molte nostre città, resiste un tessuto forte di legami comunitari, di pratiche conviviali, che significano anche e molto cura e amore per i luoghi, per l’ambiente, che hanno nutrito in momenti drammatici della nostra storia grandi mobilitazioni per il bene comune – questo è stata la Resistenza, questi sono stati anche gli angeli del fango dell’alluvione di Firenze -, e la cui difesa e valorizzazione è decisiva sia per il futuro civile che per quello economico dell’Italia. Nella storia italiana, nella nostra tradizione di “patriottismo dolce”, questa dimensione comunitaria non ha quasi mai significato chiusura verso l’esterno, anzi è stata la base per lo sviluppo di società aperte, e oggi che invece questo rischio si avverte – soprattutto nei fenomeni di rifiuto dell’immigrazione, o nelle reazioni talvolta forcaiole a quel senso d’insicurezza personale che tanti italiani sentono come un problema crescente e prioritario – è interesse, dovere anche nostro non sottovalutare o minimizzare tale disagio e fare ogni sforzo perché l’Italia resti una terra di comunità: comunità aperte, ma comunità coese.

Un futuro desiderabile è un futuro dove non non tutto sia merce e doive non contino solo le merci. Recentemente un economista molto autorevole, Francesco Giavazzi, ha scritto in un libro che secondo lui il liberismo sarebbe di sinistra. Io condivido molte delle cose che dice e scrive Giavazzi, da cittadino e anche da cittadino ambientalista penso come lui che l’Italia debba dare più spazio e peso al merito, al talento, alla possibilità di ciascuno di esprimere – appunto liberamente – le proprie potenzialità, e penso pure che in molti campi – dall’energia allo snellimento burocratico – liberalizzare sia un verbo che può aiutare l’ambiente. Penso anche l’aggettivo liberista non sia forse il più adatto per sintetizzare le cose che non vanno nell’attuale globalizzazione: un processo oligopolista più che neo-liberista, in cui chi comanda a seconda degli interessi in gioco scegliue di cavalcare il “laissez-faire” più sfrenato o invece il più rigido protezionismo. Ma il liberismo, come paradigma del futuro, è una prospettiva inaccettabile perché tende a trattare e a governare ogni espressione umana, sociale come se fosse merce: dai beni comuni alle terapie contro l’Aids. E invece, ci sono molte cose nel mondo, nella vita che trattate come merci perdono valore o vedono rovesciato il loro segno da positivo in negativo.

Un terzo filo conduttore che ha costantemente accompagnato e ispirato il cammino di Legambiente, la nostra azione quotidiana prima ancora che la nostra riflessione, è nella ricerca continua di alleanze, dialoghi, incontri. Alleanze ed incontri, prima di tutto, con altre espressioni dell’associazionismo: quelli che ci vedono protagonisti al tavolo permanente delle associazioni ambientaliste, nel Forum del terzo settore, in reti internazionali come l’Ufficio europeo dell’ambiente e il Climate action network. Ma alleanze ed incontri anche molto più vasti e spesso più avventurosi, che vengono dall’ambizione, di cui tra i primi si fece lucido interprete un grande ambientalista italiano come Alex langer, di rendere la prospettiva ambientalista socialmente e individualmente desiderabile, dall’obiettivo di proporla come risposta alla voglia di cambiamento, di miglioramento che c’è nelle persone e nelle comunità e dunque di intrecciarla con bisogni ed interessi diversi da noi, che non si presentano nel segno dell’ambiente. Oggi questo risultato non è acquisito ma comincia a dare buoni frutti: in negativo, poiché un numero crescente e ormai molto largo di persone vede nei problemi ambientali una delle prime minacce al benessere e una delle prime incognite del futuro, e in positivo, con la sempre più capillare diffusione di stili di vita e di consumo fondati sulla ricerca di un rapporto più equilibrato, e meno separato, con l’ambiente.

Su tale frontiera Legambiente si è spesa molto, facendone uno dei criteri prevalenti del proprio agire associativo.

Ci sono terreni – la legalità, l’agricoltura e l’alimentazione, i parchi – dove con più forza ed efficacia siamo riusciti a stabilire circoli virtuosi tra nostri obiettivi – lotta all’abusivismo edilizio, lotta alle ecomafie, no agli Ogm e sì ad un’agricoltura di qualità, tutela della natura – e mondi, interessi, punti di vista altri da noi con cui in partenza non era così scontato riuscire a costruire non dico alleanze, ma nemmeno interlocuzioni. L’esempio dei parchi è uno di quelli più calzanti: fare un parco serve prima di tutto a tutelare la natura, la biodiversità, il paesaggio, ma abbiamo sempre rifiutato l’idea delle aree protette come strumenti calati dall’alto, concepiti e costruiti come indifferenti agli interessi e ai bisogni delle comunità che nei parchi vivono. Idea tanto più sbagliata nel caso dell’Italia, dove i territori dei parchi sono quasi tutti in aree densamente antropizzate e antropizzate da sempre,. Questa nostra attenzione è diventata – grazie a Fabio Renzi, a Sebastiano Venneri e a tanti nostri dirigenti territoriali – un lavoro certosino di tessitura di alleanze sociali, e questo sforzo ha consentito, in tante parti d’Italia, di rovesciare la percezione delle comunità verso i parchi: non realtà che limitano la libertà e pregiudicano il futuro delle persone, ma invece moltiplicatori di futuro. Cito per tutti il caso delle Cinqueterre perché lì prima e più che altrove il parco è diventato simbolo, simbolo personificato nel nostro amico Franco Bonanini, sia di tutela ambientale che di rinascita sociale, anche economica di un intero territorio. Questa esperienza straordinaria abbiamo contribuito a costruire, ad essa siamo molto, molto affezionati e perciò, lo ammetto, la difendiamo con speciale accanimento quando qualcuno cerca di infangarla.

Anche in tanti altri casi Legambiente si è messa al servizio, letteralmente al servizio, di interessi generali non solo ambientali. Così nella nostra battaglia contro l’abusivismo edilizio, contro le ecomafie, contro tutte le forme di illegalità ambientale che ha visto Legambiente – la Legambiente dei Centri di azione giuiridica che portano in tribunale gli inquinatori e difendono il popolo inquinato, la Legambiente dell’Osservatorio su ambiente e legalità nato da una grande intuizione di Enrico Fontana nel quale collaboriamo fianco a fianco con magistrati e forze dell’ordine per tenere accesi i riflettori sui fenomeni di illegalità ambientale, la Legambiente socio fondatore di Libera, la Legambiente agrigentina di Giuseppe Arnone, la Legambiente dei circoli campani della “terra dei fuochi” raccontata da Saviano e ora nel bellissimo documentario di Peppe Ruggiero “Biutiful cauntri”, la Legambiente di Nuccio Barillà e Lidia Lotta a Reggio Calabria – diventare un protagonista assoluto dell’impegno collettivo contro le mafie e l’illegalità e per un vero benessere nel Mezzogiorno, e ottenere grandi successi concreti e simbolici come l’abbattimento degli ecomostri del Fuenti e di Punta Perotti.

Così è, ancora, nel nostro sforzo per affermare le ragioni della qualità ambientale come fattore competitivo vincente per l’agricoltura italiana, che ha contribuito in misura non piccola a unire in una compatta alleanza – con pochi analoghi in Europa – contro gli Ogm e per l’agricoltura tipica e di qualità, gli ambientalisti, l’Aiab che organizza i produttori biologici e le grandi organizzazioni agricole, prima Coldiretti e ora anche Cia.

Qualcuno, pure tra i nostri vicini, più di qualche volta ha storto il naso o ci ha apertamente attaccato per questa nostra insistenza a ricercare dialoghi, incontri, alleanze apparentemente spurie: ma è grazie a queste alleanze spurie se oggi il mondo agricolo è tutto contro gli Ogm, se una parte importante del mondo venatorio – in testa l’Arci Caccia del nostro amico Osvaldo Veneziano - si è battuto con noi, con successo, per impedire nella scorsa legislatura una controriforma della caccia, se nella maggioranza dei casi i parchi non sono visti più da chi ci vive come nemici, se il mondo della pesca ha accettato la necessità di una gestione sostenibile del patrimonio ittico.

Questa idea di una Legambiente che semini fuori dal suo stretto recinto e sia pronto, al tempo stesso, ad aprirsi a punti di vista altri da sé, rimane anche oggi un nostro “pallino”. Da essa sono nate “costole” o settori specifici della nostra associazione: come Legambiente Turismo che oggi coinvolge centinaia di albergatori, la campagna Laiq per promuovere con le imprese l’agricoltura di qualità, l’associazione professionale Legambiente Scuola e Formazione cui aderiscono centinaia di insegnanti, Azzero CO2 che vede numerose imprese ed amministrazioni pubbliche impegnate a neutralizzare le proprie emissioni climalteranti. A proposito di Azzero CO2, anche le emissioni di anidride carbonica prodotte in occasione del nostro congresso saranno neutralizzate contribuendo a progetti di riforestazione e di energia sostenibile.

La stessa ambizione a contaminare e a farci contaminare ha ispirato la campagna per i piccoli comuni – Voler bene all’Italia - grazie alla quale oggi l’Italia dei campanili è vista non più come una traccia del passato destinata a impallidire ma come un contenitore di alcune delle nostre ricchezze più preziose per il futuro. Ha ispirato le nostre azioni rivolte a valorizzare le buone pratiche di quelle imprese che scommettendo sulla qualità ambientale, intesa nel senso più largo, hanno vinto anche sul terreno della competizione: è questo l’obiettivo del Premio all’innovazione e della neonata fondazione Legambiente creata a Milano, della scelta di dare vita al Kyoto Club associando le industrie leader nell’innovazione energetica, dello stesso nostro contributo al lavoro della fondazione Symbola. E ancora, tale ricerca di continua sistematica apertura verso quella che una volta Fabio Renzi ha chiamato “la Legambiente che è fuori di noi”, segna esperienze associative nelle quali davvero Legambiente ha saputo essere strumento di sussidiarietà, di coesione sociale, di servizio alla collettività. Cito due esempi per tutti. Oggi sono dieci anni dal terremoto in Umbria e nelle Marche: quella tragedia segnò anche l’atto di nascita del nostro volontariato di protezione civile, creato e fatto crescere dalla passione di Simone Andreotti, che ha coinvolto centinaia di italiani, molti giovani, in attività di formazione e di diretto intervento in particolare nel campo della messa in sicurezza dei beni culturali. Il secondo caso riguarda Seveso: una città che per Legambiente significa simbolicamente molto, lì nel 1976, dopo l’incidente alla Icmesa, nacquero con Laura Conti e alcuni allora giovanissimi le premesse del nostro ambientalismo. Ma il valore di Seveso per Legambiente è anche attualissimo, perché a Seveso Legambiente con il suo circolo ha costruito un rapporto straordinario di condivisione con i cittadini, per esempio con gli anziani, che fa di noi un riferimento centrale per l’intera comunità, un soggetto capace di dare risposte sul campo ai rischi di disgregazione sociale particolarmente acuti nelle regioni del Nord.

Il nostro sforzo continuo è insomma di declinare l’ambientalismo come pratica sociale, come offerta di occasioni, di canali di partecipazione adeguati, nelle forme oltre che nei contenuti, alla voglia, che è grande in Italia, di cittadinanza attiva. Questa è l’anima, e la ragione del successo, delle nostre iniziative di volontariato ambientale, da Puliamo il mondo, all’operazione Spiagge pulite, ai campi di volontariato, e anche delle noste inziative d’incontro popolare a cominciare da Festambiente.

La vocazione di Legambiente a cercare di contaminare i bisogni, gli interessi sociali, evidentemente inseparabile dalla disponibilità ad aprirci a punti di vista esterni a noi, è il frutto diretto del nostro modello associativo. Siamo nati e rimaniamo un’associazione non solo di cittadini ma anche di gruppi locali, di circoli, e negli ultimi anni sempre di più siamo diventati un’associazione fatta di forti, influenti comitati regionali: ognuno di questi anelli associativi libero di scegliere le forme e le priorità della propria azione in base ai contesti nei quali opera, e tutti consapevoli che la forza di Legambiente è al tempo stesso nel radicamento territoriale, che ci mescola alla società, ai suoi bisogni, alle sue preoccupazioni, e nella capacità di essere, sempre, associazione nazionale, unitaria. Costruire questo prezioso equilibrio, renderlo solido e condiviso, è stata un’impresa difficile; ad essa si sono applicati in tanti, con generosità e intelligenza, ma più di tutti vi si è dedicata una persona che da oltre dieci anni ne ha fatto la sua prima preoccupazione: Francesco Ferrante.

Questa architettura associativa, che non ha uguali nell’ambientalismo italiano e ha pochi altri esempi anche fuori d’Europa, è molto di più di una scelta organizzativa: è la prima base della nostra vocazione sociale, del nostro “pensare globalmente e agire localmente”. In questo, sono convinto, la Legambiente del futuro dovrà assomigliare come una fotocopia a quella di oggi e a quella del passato: perché l’unica via per accorciare la distanza tra le nostre idee “gigantesche” e la nostra capacità politica tuttora affetta da nanismo, è nell’essere locali e globali al tempo stesso, ed è nell’ascoltare, nel capire, nel convincere le donne e gli uomini, né giganti né nani, in mezzo ai quali viviamo e che siamo anche noi stessi. Se vinciamo sugli Ogm – meglio: se possiamo vincere - è perché le persone considerano questa una battaglia per vivere meglio, se per ora non abbiamo vinto sull’energia è perché per adesso i cambiamenti che noi vorremmo non sono stati abbastanza convincenti.

Naturalmente il bilancio di questo sforzo di apertura non è tutto positivo.

Ci sono aspetti, aspetti importanti, per i quali il nostro ambientalismo sociale è ancora troppo imperfetto. Per esempio fatichiamo nell’incontro con il mondo giovanile: su questo fronte dobbiamo fare di più, estendendo e valorizzando meglio esperienze come le Bande del cigno, come i campi di volontariato, come il servizio civile, e soprattutto incrociando di più quella “fame” di sapere critico - che non necessariamente è anche voglia di militanza - così forte tra i ragazzi e tra i giovani. Siamo in ritardo, molto in ritardo, anche nel cammino per costruire un’associazione i cui gruppi dirigenti nazionali e territoriali assomiglino di più, nella presenza di genere, alle comunità umane che abbiamo l’ambizione di rappresentare e che, come si sa, sono fatte di più femmine che maschi. Che su questo problema siamo in larghissima compagnia non è una grande consolazione, tanto più che le questioni di genere hanno un posto importante nel pensiero ambientalista, da Vandana Shiva a Wangari Maathai. Semmai questa è la conferma che l’Italia, tra tante virtù, ha il grande difetto di rinnovarsi, di modernizzarsi con estenuante lentezza.

Su altri terreni, la nostra capacità di dialogo sociale ha subìto un rallentamento, e forse il più vasto di questi terreni riguarda il rapporto con il sindacato. Nella storia dell’ambientalismo italiano e nella storia di Legambiente i temi del lavoro hanno avuto un posto importante, anzi si può dire che in Italia l’ecologia politica – filone importante nelle origini di Legambiente – abbia fatto le prime prove sociali nelle battaglie contro la nocività sui luoghi di lavoro. In anni più recenti Legambiente ha condotto una riflessione innovativa sull’ambiente come nuova frontiera per creare lavoro e per un lavoro in cui conti più il “cosa” del “quanto” produrre, e sulla qualità del lavoro come materia prima irrinunciabile di uno sviluppo sostenibile: impegno che ha visto tra di noi come più lucido protagonista Massimo Serafini, e che ha condotto al Protocollo d’intesa con Cgil, Cisl e Uil e poi alla piena partecipazione di Legambiente alla grande mobilitazione contro la cancellazione dell’articolo 18 dallo Statuto dei lavoratori. Questa interlocuzione oggi non è venuta meno ma si è indebolita, io credo soprattutto per una sostanziale indifferenza al tema da parte delle attuali leadership sindacali; dobbiamo rilanciarla con forza tanto più che essa è centrale nell’idea di una via italiana alla sostenibilità che metta al centro il capitale sociale e il capitale umano come valori aggiunti – e valori aggiunti largamente immateriali, dunque ecologici - contro il declino.

Ci sono poi dei campi dove la nostra ambizione di imporre come socialmente e anche economicamente desiderabili le cose che proponiamo, finora – dobbiamo dircelo – ha avuto relativo successo. Sono i campi della politica energetica, della politica delle infrastrutture, della politica industriale, della politica fiscale, dove da una parte l’ambientalismo fatica di più a misurarsi con una logica di innovazione, di cose da realizzare oltre che di no da far vincere, e dove dall’altra l’orizzonte dei decisori - la politica come la grande economia – è particolarmente arretrato rispetto alla novità dei problemi in campo

Quanto più le risposte ai problemi ambientali investono, interpellano scelte generali – scelte della politica come dell’economia -, tanto più risulta difficile farle passare. Questa constatazione, di per sé banale, è ancora più vera per l’Italia.

Non mi piace in generale il catastrofismo degli ambientalisti, e nemmeno condivido la visione catastrofica di chi, ambientalista italiano, dice che qui da noi l’ambiente sta peggio che dappertutto. Lo stato di salute dell’ambiente-Italia, come mostra con chiarezza e dettaglio il nostro prezioso rapporto annuale curato da Duccio e da Edoardo Zanchini, ha tante facce diverse. Alcune di queste sono facce decisamente positive: la percentuale di territorio protetto è superiore alla media europea; l’agricoltura biologica e quella legata ai prodotti tipici ha conosciuto in questi anni uno straordinario sviluppo; in molte parti d’Italia è in cammino la costruzione di un sistema moderno, efficiente, sostenibile di smaltimento dei rifiuti imperniato su una forte raccolta differenziata, la “soft economy” già oggi è la scelta, scelta vincente, di molte imprese grandi e piccole. Anche dalla politica sono venuti alcuni segnali promettenti: il no dell’Italia agli Ogm agricoli, messo in campo dai governi precedenti e ribadito da quello attuale; le misure varate recentemente e quelle introdotte nella Finanziaria 2008 per incentivare l’efficienza energetica, il risparmio, le fonti rinnovabili; iniziative sul “global warming” – la Conferenza sul clima voluta dal ministro Pecoraro Scanio e la sessione della Camera dei deputati dedicata ai mutamenti climatici e alle politiche per fronteggiarli. E poi atti e decisioni che arrivano dalle città, dai territori: dall’ordinanza solare approvata Roma per la quale su tutte le nuove costruzioni almeno il 30% del fabbisogno energetico deve venire da fonti rinnovabili, al sia pure timidissimo “road pricing” che partirà a Milano all’inizio di gennaio, al piano paesistico varato in Sardegna dall’amministrazione Soru che fissa il criterio, rivoluzionario per l’Italia, della non edificabilità entro due chilometri dalla costa. Ancora, esempi di buone pratiche innovative e coraggiose arrivano da molti piccoli comuni: cito Capalbio, dove il sindaco Lucia Biagi ha voluto e fatto approvare un nuovo piano di sviluppo territoriale che evita altre migliaia di metri cubi di cementificazione; cito San Biagio di Callalta, cittadina in provincia di Treviso guidata anch’essa da una donna – Emanuela Fiorotto – dove la raccolta differenziata dei rifiuti supera il 70%; cito Varese Ligure, ricordando la passione e la bravura del suo sindaco che non c’è più, Maurizio Caranza, che ne ha fatto il primo comune italiano che usa soltanto energia rinnovabile.

Il punto è che queste esperienze positive finora non hanno fatto scuola, non hanno, per così dire, “dato la linea”. L’Italia nel suo complesso non si sta muovendo verso la sostenibilità. Bastano pochi dati per vederlo. Le emissioni di anidride carbonica, che in base al Protocollo di Kyoto avremmo dovuto ridurre del 6,5% entro il 2012 rispetto al 1990, ad oggi sono cresciute di oltre il 12%, e questo perché non si è investito in efficienza energetica, non si è promosso un vero decollo delle rinnovabili, perché una parte rilevante dell’economia che conta ha continuato a vedere nell’ambiente soprattutto un costo. La politica delle infrastrutture, oggi con Di Pietro come ieri con Lunardi, è invischiata nella duplice incapacità di selezionare con rigore le cose da fare – le risorse sono limitate – e di selezionarle secondo l’obiettivo – obiettivo di efficacia dei sistemi di mobilità oltre che di sostenibilità – di spostare passeggeri e merci dalla strada alla ferrovia. Così, dall’attuale Finanziaria sono scomparsi i 300 milioni inizialmente previsti per rinnovare ed ampliare il parco dei treni per i pendolari, quasi 2 milioni di italiani che ogni giorno vanno a lavorare in treno (ne approfitto per salutare i comitati pendolari che partecipan al congresso, con i quali collaboriamo quotidianamente); e invece ci sono territori dove l’unica politica dei trasporti praticata è quella di costruire sempre nuove autostrade – BreBeMi, nuova Romea, tirrenica, pedemontana veneta, quadrilatero - inseguendo la domanda anziché provando a orientarla ai fini di una mobilità più efficace per cittadini e imprese e più sostenibile.

Analogo obiettivo, ridurre la mobilità individuale su gomma, dovrebbe ispirare con molta più decisione e forza le politiche urbane del traffico e le stesse scelte urbanistiche: le nostre città rischiano di morire, letteralmente, di traffico e di smog, l’inquinamento urbano è una delle prime e più temibili cause di malattia e di morte, e le scelte per affrontare questa emergenza, sanitaria e logistica prima che ambientale, restano il più delle volte timide, estemporanee, incoerenti. Le soluzioni efficaci sono arcinote, si chiamano trasporto pubblico, corsie preferenziali, Ztl, piste ciclabili, parcheggi di scambio, car-sharing; rispondere a questo problema grave e urgente limitandosi alle targhe alterne o a qualche blocco giornaliero della circolazione, è come curare una polmonite con le caramelle alla menta.

Sui rifiuti, c’è un intero e grande pezzo d’Italia dove dominano ancora le ecomafie, dove quasi non c’è raccolta differenziata, dove dei rifiuti non si sa più che fare e questo determina un’emergenza anche sociale: un problema che ha radici lontane ma anche cause molto vicine nell’irresponsabilità di molti degli attori, anche istituzionali, in esso coinvolti.

Un altro punto dolente dell’ambiente-Italia è quello dell’incuria, della dissipazione, del cattivo uso del territorio e delle sue risorse: dal dissesto idrogeologico, all’acqua sprecata negli acquedotti e in agricoltura, ai fiumi sfigurati da regimazioni, captazioni selvagge e prelievi spesso illegali, alla moltiplicazione incontrollata di cave, all’attesa che non finisce mai per la bonifica e il recupero dei siti ex-industriali contaminati. Problemi con una storia antica, che periodicamente ricevono attenzione quando si verificano vere e proprie emergenze – penso alla siccità dei mesi scorsi nella pianura padana -, ma che non entrano mai davvero nell’agenda delle priorità di governo.

Infine, in Italia continua a manifestarsi una fortissima tendenza a cementificare il suolo libero, e a cementificarlo disordinatamente. Questo come sappiamo è un nostro problema antico: l’abusivismo edilizio in particolare nel Sud, la crescita a macchia d’olio delle città, l’integrale urbanizzazione di lunghi tratti delle coste, sono fenomeni che hanno segnato, e spesso sfigurato, lo sviluppo territoriale dell’Italia contemporanea. La differenza è che oggi si continua a cementificare suolo libero fuori da ogni motivazione socio-demografica.

Si costruisce per altre ragioni: perché per i comuni, specie quelli piccoli, questa è la via più diretta per fare cassa; si costruisce perché nelle città mancano case in affitto e questo crea una domanda di case a poco prezzo sempre più lontane dai centri abitati; anche le strade e le autostrade, spesso, si costruiscono al principale scopo di rendere fabbricabili, dunque appetibili per speculazioni immobiliari, le aree attraversate. Questo consumo galoppante del suolo, l’ha sottolineato di recente lo stesso ministro Rutelli, rischia d’impoverire una dei nostri tesori più grandi – il paesaggio -, un tesoro ambientale, identitario ma anche economico, colpendo il quale si colpiscono pezzi importanti della nostra economia a cominciare dal turismo. Il paesaggio italiano, lo sappiamo bene, non è solo natura, anzi la sua caratteristica più preziosa è nel mescolarsi di ambiente naturale e segno antropico, bellezza artificiale: quando con una campagna come Salvalarte ci occupiamo di beni culturali, noi stiamo tutelando a pieno titolo l’ambiente. Le trasformazioni del paesaggio sono inevitabili e talvolta, come nel caso della migliore architettura, anche oggi possono aggiungere – non togliere, qualità ambientale. Ma questo ha ben poco a che fare con l’attuale tendenza a consumare, consumare, consumare sempre più territorio libero: una tendenza da arginare, che ci allontana dalle migliori, più avanzate esperienze europee, dove l’attività immobiliare è tutt’altro che ferma ma spesso si concentra nella riqualificazione, nella trasformazione dei cosiddetti “brown fields”, delle aree ex-industriali. A Londra, per esempio, negli ultimi 10 anni la popolazione è cresciuta di un milione di abitanti ma per le nuove costruzioni non è stato toccato un solo metro quadrato di “green field”, di suolo naturale. Un recente rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente fornisce altri dati illuminanti: a Bilbao come a Monaco, non esattamente due città arcaiche, dagli anni Cinquanta ad oggi la popolazione è cresciuta più del consumo di suolo, mentre a Milano nello stesso periodo il consumo di suolo è più che raddoppiato (oggi più dei due terzi del territorio comunale di Milano sono cementificati) sebbene la popolazione, da diversi anni in forte calo, sia oggi di poco superiore a quella di cinquant’anni fa.

I problemi che ho rapidamente elencato rimandano tutti ad uno stesso, più grande, problema. La difficoltà di concretizzare il principio che la qualità ambientale è un moltiplicatore, non un inibitore, di modernità. Che tutelarla e valorizzarla è un bisogno umano, sia sociale che individuale, sempre più urgente ed avvertito ed è anche, particolarmente in Italia, una condizione di progresso e di vero, duraturo sviluppo. Tale mancanza di visione non colpisce, del resto, solo l’ambiente: tra chi decide in politica e in economia, è ancora molto, troppo arretrata la coscienza che per un Paese come il nostro, puntare ed investire sulla qualità – qualità come innovazione, come conoscenza diffusa, come scuola e formazione, come creatività umana, come paesaggio, come beni culturali, come coesione sociale, come diversità tra vocazioni territoriali – è la strada maestra per competere con successo nella globalizzazione. Questa Italia di qualità - l’Italia messa in mostra da Symbola alla Fiera campionaria di Milano - c’è ed è tutt’altro che moribonda, basta vedere i dati sulla sorprendente ripresa dell’export del made-in-Italy. Ma va aiutata molto di più da chi ha il compito della sintesi politica e anche da chi rappresenta gli interessi del mondo produttivo. Insomma, come credo abbia perfettamente presente l’attuale presidente di Confindustria, alle nostre imprese per essere competitive non serve che venga cancellato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; invece hanno bisogno che diventi molto più forte ed esplicito, nella realtà e nel modo in cui la realtà si rappresenta, il legame tra il nostro futuro economico e l’idea dell’Italia come patria del talento, della creatività, della bellezza.

Da cosa nasce questa difficoltà? Perché da noi l’ambiente, la sostenibilità faticano di più ad imporsi nel discorso pubblico, nella politica, nell’economia, anche nei media?

Si può pensare, qualcuno pensa e dice, che la colpa è di noi italiani. Ma l’esperienza e anche molte ricerche di opinione dicono che gli italiani si preoccupano per i problemi ambientali altrettanto o addirittura di più di altri popoli europei, anche se poi – questo è vero - tale sensibilità non sempre si traduce in veri cambiamenti di mentalità e dunque di comportamento.

Io vedo, invece, soprattutto tre ragioni per questo “impasse”. La prima riguarda la strutturale fragilità dell’ambientalismo politico e della principale sua espressione, i Verdi. Lo dico ben sapendo che tra i Verdi italiani ci sono moltissime persone – la grande maggioranza – vicine a noi per sensibilità ed opinioni, sapendo che senza i Verdi per l’ambiente in questi anni sarebbe andata peggio, e lo dico ricordando che molti di noi hanno partecipato con generosità e convinzione al cammino dei Verdi. Però oggi non si può non vedere che per tante e diverse ragioni, oggettive e soggettive, l’ambizione da cui sono nati i Verdi in tutta Europa, mettere l’ambiente al centro della politica e fare dell’ambientalismo la sintesi di una voglia generale di cambiamento, da noi non è stata premiata.

La seconda ragione è in una complessiva arretratezza culturale dei politici italiani, che più di altri faticano a declinare parole come progresso, benessere, riformismo, sviluppo secondo categorie post-novecentesche. Così, non è un caso che nella sinistra italiana siano passati così in tanti, senza fermate intermedie, dall’economicismo marxista che vedeva nell’ambiente e nelle preoccupazioni ambientali sovrastrutture borghesi, all’economocismo neo-liberista che rifiuta ogni tentativo di regolare il mercato sulla base di interessi, come l’ambiente appunto, non mercantili e non esclusivamente materiali.

In Italia c’è un enorme bisogno che la politica, tutta la politica, metta la testa nel XXI secolo. Ce n’è bisogno su tanti temi e questioni – per esempio solo da noi problemi totalmente inediti come quelli sollevati dalla bioetica vengono trattati il più delle volte sulla base delle categorie depcrepite del laiscimo e del clericalismo – e ce n ‘è grande bisogno sull’ambiente, un paradigma irrinunciabile dell’attuale modernità. C’è bisogno che l’ambientalismo faccia breccia nelle politiche di progresso sociale e dunque nel pensiero e nella pratica del riformismo, concetto oggi inconcepibile senza l’ambiente al centro: per questo è importante che assumendo la leadeship del Partito democratico Walter Veltroni abbia indicato la questione ambientale come la prima delle fondamenta culturali, programmatiche su cui tirare su l’edificio di questo nuovo soggetto politico; e per questo, aggiungo, dopo questo congresso, lasciata la presidenza di Legambiente, proverò a dare il mio personale contributo in tale direzione. C’è bisogno che ambientalista diventi la sinistra radicale, com’è indispensabile davanti a una crisi ambientale - dai mutamenti climatici per finire con l’illegalità delle ecomafie – che con sempre maggiore evidenza colpisce per primi e con più violenza i più deboli. E c’è bisogno che scopra l’ambiente anche la nostra destra, la più anti-ambientalista d’Europa: come ha insegnato Alexander Langer, l’ambiente, in quanto bisogno comunitario, identitario, non è affatto estraneo ai valori e alle tradizioni della destra, ed è auspicabile che anche in Italia cresca una destra più somigliante al Sarkozy del discorso di Grenelle, ai conservatori inglesi di Cameron, anche all’Alemanno ministro delle politiche agricole, che non a quella dei condoni edilizi e della negazione dei mutamenti climatici.

Infine, io credo che un’ultima e forse più importante ragione ha impedito finora in Italia all’ambiente di farsi politica. E’ l’assenza, almeno la sistematica latitanza, di una vera classe dirigente, di una classe dirigente che nella poliica come nell’economia, nella pubblica amministrazione come tra le forze sociali, abbia come superiore riferimento l’interesse generale. E senza una nozione forte, condivisa d’interesse generale , l’ambiente – bisogno, interesse diffuso ma non costituito – è destinato a perdere. Questo deficit di classe dirigente è all’origine della crisi democratica che stiamo vivendo. Che è crisi, innanzitutto, nel rapporto tra rappresentanti e rappresentati, che si alimenta di un circolo vizioso difficile da spezzare: nasce, o comunque è aggravata, dall’incapacità della politica – dei rappresentanti – di decidere; ma al tempo stesso favorisce la contestazione sistematica – su basi di lobby, di corporazione, di Nimby – di ogni decisione. Insomma: la mancanza di decisione fa crescere la sfiducia nella politica, la sfiducia nella politica fa crescere il rifiuto della decisione.

Tale spirale chiama in causa anche noi corpo intermedio, soggetto come si dice oggi di sussidiarietà: che certo non possiamo trasformarci in anti-politica, smarriremmo ogni nostra utilità sociale, ma che dobbiamo fare ogni sforzo per denunciare senza sconti la cattiva politica oggi debordante, i suoi vizi e i suoi privilegi che la fanno apparire, non a Stella o a Grillo ma alla maggioranza degli italiani, come una casta.

L’assenza di una vera classe dirigente è il più profondo buco nero italiano, e ha molto a che fare anche con la difficoltà di dare concretezza e incisività al nostro agire di ambientalisti: per colmarlo serve uno scatto di modernità e responsabilità - e di realismo visti gli approdi imprevedibili dell’attuale deriva - delle nostre élite politiche, amministrative, economiche, sociali, intellettuali.

Mettere davanti a tutto l’interesse generale, nazionale, non vuol mdire che si cancellano o si sacrificano gli interessi parziali: gli interessi dei ceti sociali, dei partiti, delle lobby, delle corporazioni, delle imprese, delle generazioni, o gli interessi legati all’aspirazione sacrosanta delle comunità locali a contare nelle decisioni che le riguardano. Ma vuol dire promuovere la consapevolezza comune che ognuno di questi interessi è destinato a prerdersi se prevale contro l’interesse della comunità più larga; E vuol dire, per la politica, ritrovare la forza, la credibilità, anche l’autonomia che servono per costruire consenso decidendo anche se non tutti gli interessi parziali sono d’accordo. La necessità dell’unanimismo sociale è l’altra faccia, infatti, della debolezza della politica e della crisi della decisione.

Care amiche, cari amici, sto per concludere e allora ritorno a noi, alla nostra associazione. Il compito che abbiamo, con le nostre analisi, con le nostre proposte, con i nostri conflitti, è di avvicinare un futuro nel quale l’ambiente sia pienamente assunto, nella consapevolezza delle persone e nelle scelte di chi decide anche per gli altri, come pietra angolare del progresso. Per svolgerlo al meglio la prima condizione è praticare la nostra scelta, antica e irreversibile, di autonomia: che ha reso noi più capaci di rappresentare bisogni e interessi sociali, è stata d’esempio per tanti altri soggetti associativi anticipando di diversi anni un cammino, oggi comune a molte espressioni dell’associazionismo, di abbandono di ogni forma di collateralismo. La seconda condizione è di rimanere, come siamo sempre stati, un soggetto squisitamente politico, di rifiutare, come sempre abbiamo rifiutato, ogni ipotesi di “divisione del lavoro” – se così posso dire – tra una società che si agita, che agitandosi segnala problemi e bisogni, e una politica che risponde trovando soluzioni. Sottolineo questo aspetto perché talvolta, da parte di politici e amministratori ma anche da parte di comitati o gruppi impegnati su singole vertenze, si avverte la tendenza a vederci, a cercare di utilizzarci, come “consulenti”. Dobbiamo dirlo con forza agli uni come agli altri: noi non siamo consulenti, noi siamo e rimarremo un movimento politico di cittadini organizzati.

Oggi che tanti non credono e non confidano più in un futuro migliore, più desiderabile del presente, l’ambientalismo può essere il lievito di una rinascita dell’idea di progresso, di una stagione di nuovo e più fondato ottimismo.

Viviamo, come dice Baumann, in un’epoca liquida, siamo immersi in processi dagli esiti totalmente aperti, che possono portare al massimo di progresso e di liberazione o invece a una spirale inarrestabile di ingiustizie e anche di scelte insensate, come quella di mancare l’appuntamento con una non più rinviabile rivoluzione ecologica. La globalizzazione, il diffondersi e l’affinarsi delle tecnologie dell’informazione simboleggiati da Internet, dalla rete, il procedere della scienza verso possibilità fino a ieri inimmaginabili, possono essere la condizione per un futuro di vera libertà - cioè di accesso per tutti al benessere e alla conoscenza – e di vera sostenibilità – cioè di riconciliazione con la ragione ecologica – ma possono diventare il contrario, la premessa per nuove schiavitù e discriminazioni – basti pensare a problemi come il “digital divide” o come la privatizzazione della biodiversità attraverso i brevetti sulla materia vivente – e per una rottura definitiva nel rapporto di convivenza tra l’uomo e le altre specie e gli ecosistemi. Un bivio ugualmente decisivo sta davanti all’Italia: da una parte il declino, che magari realizzerebbe in salsa italiana l’idea della decrescita e di sicuro perpetuerebbe anche i nostri grandi problemi ambientali, dall’altra uno sviluppo ricostruito sulle basi della qualità ambientale, sociale, della ricchezza territoriale.

Noi ambientalisti, oggi più di ieri, possiamo fare una parte importante perché s’imbocchi la strada giusta, perché nostre ragioni fondanti e a lungo calpestate – lo sguardo sistemico sulla realtà, cioè la consapevolezza, per dirla col titolo di un libro di Vittorio Cogliati, che “il mondo è tutto attaccato”; l’idea che esista un limite nei rapporti di consumo e manipolazione della natura da parte dell’uomo -, diventino la bussola per orientare il cammino dell’umanità in questo nuovo secolo. Per essere all’altezza del compito, però, noi per primi dobbiamo crederci nel progresso, credere nell’uomo, credere che il presente non sia peggiore del passato e che il futuro possa essere migliore del presente. Dobbiamo toglierci i panni, che talvolta indossiamo, di “predicatori della rinuncia” e indossare quelli di costruttori consapevoli ma fiduciosi del futuro: di un futuro nel quale, se vogliamo vincere con le nostre ragioni, la sostenibilità ambientale deve incontrarsi con altre ragioni – la desiderabilità personale e sociale, l’equità - che contano altrettanto nelle attese e nei bisogni degli esseri umani e nella nostra stessa sensibilità. Altrimenti rischia di avverarsi la profezia di Georgescu-Roegen, un grande ambientalista ma un grande, grandissimo pessimista: “Forse il destino dell’uomo – disse una volta Georgescu-Roegen - è quello di avere una vita breve, ma ardente, eccitante e stravagante, piuttosto che un’esistenza minima monotona e vegetativa. Siano le altre specie, le amebe per esempio, che non hanno ambizioni spirituali a ereditare una terra ancora immersa in un oceano di luce solare”.

Questo pensiero apocalittico è lontano dal mio impegno e dalla mia speranza, è lontano dall’ottimismo della volontà che ha consentito a Legambiente di crescere e di far crescere le ragioni dell’ambiente. Allora preferisco chiudere, come ho iniziato, citando Fabrizio Giovenale: “Mentre la nostra Terra – scriveva Fabrizio esattamente dieci anni fa - presenta i limiti che sappiamo, la sola realtà senza limiti a portata della nostra percezione è proprio quella delle capacità mentali: il pensiero. È vero che proprio la nostra evoluzione ‘per via mentale’ ci ha portato a combinare su questa povera Terra, per adattarla ai nostri bisogni, tutti gli sconquassi che sappiamo. Ma è anche vero che i rimedi potranno venire soltanto da altri passi avanti delle nostre menti. Pensare per poter vivere ancora su questa Terra, dunque. E reciprocamente: durare per poter pensare ancora nuovi pensieri. È qui che l’ambientalismo entra in scena. Perché per durare ci serve una Terra che ci dia da vivere. E questa Terra ci serve viva, perché della sua vita noi siamo parte. Ho idea, vedete, che lungo questa strada ci si apriranno davanti altri scenari, potremo arrivare a capire altre cose. Vale la pena di tentare”.

Io penso che Fabrizio avesse ragione: vale la pena di tentare.

LEGAMBIENTE


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