Taxi Driver

E’ inutile farci troppi giri di parole. Oggi occorre salire a Cebreiro e nelle condizioni in cui ci troviamo l’unico modo per farlo e prendere un taxi. Per i "se", i "ma", i "dispiace", i "non c’è alternativa"…forse ci sarà tempo qualche altra volta se avremo voglia di parlarne.

di Antonio Cavallaro - mercoledì 15 dicembre 2004 - 5816 letture

E’ inutile farci troppi giri di parole. La notte che mi sono portato dentro è venuta fuori all’alba passando dal naso e dalla bocca. Sto male, e lo stesso Alessandro. Luigi invece è andato via ridendo. Nello zaino abbiamo tutti un biglietto per il ritorno a casa, con una data fissata sopra che dice: "Se volete fare tutto il Cammino, stare qualche giorno a Santiago e arrivare sino a Finisterre, occorre muoversi ogni giorno rimasto ancora!". Oggi occorre salire a Cebreiro e nelle condizioni in cui ci troviamo l’unico modo per farlo e prendere un taxi. Per i "se", i "ma", i "dispiace", i "non c’è alternativa"…forse ci sarà tempo qualche altra volta se avremo voglia di parlarne.

"Tutto l’albergue sta male" ci ha detto l’hospitalera.
- Che cosa significa tutta l’albergue sta male?
- "Di la ci sono quattro come voi, a letto!" fa lei. Questo da sollievo al nostro ego ma non cambia la situazione. Prima d’andarcene passo a salutarli questi altri moribondi, tutti hanno i nostri stessi dolori e senso di nausea, quindi o c’era qualcosa che non andava oppure insospettabili beoni sono stati smascherati. Il taxi costa nove euro a persona. Nove carissimi euro. L’autista scende dal taxi e ci fa segno di venire, apre il cofano dietro e mimando il gesto ci invita a spingere gli zaini contro gli l’altri. Non sono pochi quelli che affrontando la salita, affidano ad un taxi il compito di recapitargli lo zaino direttamente al rifugio. Il taxista si chiama Juan mentre il taxi è un lussuoso monovolume, di quelli che sembrano la promessa di una vita migliore, dotato di comfort che sono sicuro, non riesco neanche immaginare, spazioso è rivestito con interni lucenti mentre i vetri sono oscurati come nelle macchine che trasportano le stelle del cinema. Mi siedo davanti, dietro con Alessandro c’è una pellegrina, una signora francese, si chiama signora Gambier. Ha una mano sopra la pancia mentre con l’altra tiene la portiera come se questa volesse scappare via, dopo esserci presentati la prima cosa che ci siamo detti sono state le nostre motivazioni ed una volta fatto, abbiamo rivolto gli sguardi in tre direzioni differenti.

Fa uno strano effetto spostarsi in macchina dopo quasi un mese di camminate, incontrare un albero vuol dire vederselo spuntare davanti, raggiungerlo, passarne il tronco a qualche centimetro e lasciarselo dietro è non essere più coperto dai suoi rami, ora tutto non dura che un attimo e la sensazione, nelle salite che portano fuori Villafranca mi impressiona. Il taxista accende la radio per ammazzare il silenzio ma presto deve spegnerla, il silenzio non è durato che qualche minuto. Stare sull’auto crea nervosismo ed imbarazzo ma per far finta di niente, spronati dalla voce della radio, nessuno riesce a stare più zitto e così il disagio cresce solo nelle pause tra una stupida conversazione e l’altra. Chiedo a Juan del Gran premio di formula uno, "perché oggi c’è il gran premio verò Juan?". Lui mi risponde con un impercettibile cenno della testa, quanto basta per poterlo aggredire chiedendogli nell’ordine: pole position? E le Ferrari? Griglia di partenza e per che tifa lui. … "ah Alonso", faccio io meravigliato alla sua risposta e quando chiedo da quale regione provenga il pilota spagnolo interviene Alessandro, ben felice di poter partecipare alla discussione snocciolando una dietro l’altra notizie su Alonso. A parte il taxista nessuno riesce a stare zitto, la signora Gambier tiene solo la mano sulla portiera, l’altra ha lasciato la pancia e ora nell’aria descrive i tetti di Alençon, parliamo del tempo chiedendoci e poi chiedendolo al taxista che tempo faccia in cima, e soprattutto dov’è questa cima dato che nuvolosi neri e bassi coprono il cielo e paiono voler schiacciare la terra. Nessuno riesce a stare zitto fino a quando non avvistiamo il primo pellegrino. E’ un attimo, c’è ne uno, un altro, poi un altro e ancora.

Il Cammino costeggia la N VI che collega il Bierzo alla Galizia. Una sorta di corsia preferenziale ruba non più di due metri alla carreggiata, delimitata dal guard rail che la separa dalla strada dove le auto sfrecciano a tutta velocità: segna la via del pellegrino. Sotto la pioggia indossano tutti le loro mantelle coprizaino, i colori vivaci li stagliano sul paesaggio intorno ammantato di grigio e verde. Juan torna ad accendere la radio. Passando, le macchine sollevano acqua dalla strada e si lasciano dietro una nube di schizzi che avvolge i pellegrini. Le note di una canzone vanno in giro per l’abitacolo della macchina mentre restiamo muti, con gli occhi li seguo uno ad uno fino a quando superandoli non scompaiono alla mia sinistra. Mi sento colpevole, mi sento un traditore. La signora Gambier ha la faccia contro il vetro ed ha cominciato ad emettere degli ohhh compassionevoli che non hanno nessuna dignità e danno solo fastidio, la pioggia in questo tratto è molto più intensa e l’aria si è velata di bianco. Aspetto da un momento all’altro di vedere Luigi. Alessandro, anche lui colto dal dramma interiore mi mette una mano su una spalla, ma quando mi volto mi guarda fisso e non dice niente, scrollo la testa e torno a guardare avanti. Avvolti nelle loro mantelle con lo zaino in spalla sembrano soldati in marcia, con i piedi pestano asfalto e questo rende inutile l’utilizzo del bastone che quasi tutti hanno sistemato davanti, infilandolo tra le maniglie cucite nelle bretelle dove di solito si aggrappano le mani, messo lì il bastone sembra appunto un fucile. Neanche loro hanno un aria felice.

Juan ci avverte che deve fermarsi un momento per fare qualcosa che non ho capito, comunque questo ci fa lasciare la N VI per entrare a Trabadelo. L’ingresso in paese ci costringe ovviamente a rallentare: forse perché da qui passa il Cammino, forse perché si cerca un bar dove prendere qualcosa di caldo o forse per togliersi solo dall’acqua, ma per le strade ci sono dei pellegrini che senza un motivo guardano dentro ad ogni veicolo che passi, quando si voltano al passaggio del nostro taxi mi sento una merda e spero che non mi veda nessuno che conosca e senza dissimulare il gesto più di tanto non posso fare altro che girarmi d’altra parte. La macchina si ferma davanti ad una casa e il taxista scende lasciandoci soli, la radio trasmette una canzone degli anni ottanta di cui non ricordo ne il titolo ne l’autore, ricordo però una parte del videoclip, una ragazza che prende di spalle il sole sdraiata su una bellissima spiaggia bianca. Accanto a lei delle gambe ballano, è una festa.
- Hai visto…?
- Lascia stare.
- "Senti facciamoci lasciare qua, il taxista si può tenere pure i soldi e proseguiamo, da qui dovremmo fare solo 18 chilometri".
- Non lo so Ale, io mi sento debole e svilito e fuori oggi è molto dura. Non so se ce la farei. Poi Alessandro dice altre cose, cose che so gia e toccano un po’ tutti quei momenti, non pochi a dir la verità, in cui si pensava alla tappa di oggi, a come anche l’attesa ci eccitasse, confessandoci compiaciuti i nostri timori snocciolando un elenco delle difficoltà che avremmo incontrato, che strana euforia ci pervadeva se ne trovavamo una nuova. Ma mai avremmo pensato a questo. Mi sento come se mi fosse stata rubata qualcosa, e non avere il privilegio di potersela prendere con qualcuno altro è peggio. M’agita questa irrequietudine mi sopraffa, mi prende la testa la porta avanti, la poggia al finestrino per un momento, in un altro pare dimenticarsene lasciandola cadere sul petto e poi la blocca voltata dietro, ferma, sulla signora Gambier. Sulla sua pancia è tornata una mano mentre l’altra non ha mai smesso di trattenere la portiera, ha gli occhi bassi e non dice più nulla. Le mie mani prendono a battere sulle ginocchia a ritmo della musica e per un momento riesco a vedermi sulla spiaggia, imporre i miei tamburi ai ballerini, aumentarne il ritmo, costringendoli a ballare freneticamente.

Quando superiamo Luigi a circa 130 k/h intravedendolo solo per qualche istante io ed Alessandro non riusciamo a trattenere una risata, ma non dura che un attimo. Il taxista si è voltato a guardarci sorridendo pure lui. La macchina continua ad andare, mira le strade che si susseguono, trattiene il suo carico e attraversa il paesaggio del mondo. La pioggia continua a cadere mischia l’asfalto alla terra, la strada alle montagne, quieta il mondo e ne attutisce il rumore. Il senso di irrequietudine abbandona la testa, scende e mi sorprende alle corde vocali, senza un motivo incomincio a parlare rivolgendomi al taxista, senza una ragione mi scopro cercare una giustificazione e qualcuno che me la offra.

"Noi stiamo male" dico, parlando al plurale. Non ho il coraggio di dirgli altro. Mostro di prendermela, di prendermela con qualcosa che però non trova definizione nelle mie parole. "Mi dispiace di essermi sentito male, mi dispiace" ripeto questo mentre lui continua fissare la strada. Col braccio indico i pellegrini e mi sporgo in avanti: "ma sai quand’è che mi sento peggio? Quando guardano dentro la macchina, e vedono dei pellegrini dentro, io lo so che vuol dire quello sguardo, quella sensazione di schifo che provano ce l’ho anch’io quando vedo quei furgoni che fanno avanti e indietro portando pellegrini in cima alle montagne o nei rifugi prima degli altri. Non sono i trenta chilometri che ho perso oggi a farmi stare male, non è neanche l’aver saltato, e non poter tornare indietro, l’importantissima tappa di O’Cebreiro; ma è la consapevolezza di non potermi più sentire uguale agli altri".
- "E’ per questo che i finestrini della macchina sono oscurati", dice Juan, abbozzando un sorriso giusto per un attimo. Poi torna a fissare la strada.

"Chissà quanti ne avrai visti di gente più ipocrita, più colpevole di me" penso nella mia testa rivolgendomi a Juan. Da tempo non badi più alle chiacchiere della gente, imparando a fartele scivolare addosso, vero Juan? O invece, mentre tieni gli occhi sulla strada, perdi ancora tempo a cercare di distinguere, a comprendere. Magari t’intriga conoscere, cercare di capire e vedere fino a che punto possono arrivare le bugie della gente, le scuse, quello che si può inventare; o forse te ne freghi, ti preoccupi solo di fare il tuo lavoro lasciando perdere quello che rimane, quello che la gente vuole o chiede, non è una tua preoccupazione, non è un tuo problema e solo un problema loro, un mio problema; come la necessità di una giustificazione che cerco e celo nelle mie parole, un mio problema, un desiderio tramutatosi in ossessione morale.

La pioggia cade sempre più intensa sempre più fitta, fa della strada un piccolo mare, abbastanza grande da potermi mandare alla deriva se non fosse per un appiglio che corre in mio soccorso e mi trattiene. Quel pragmatismo che forse io non riuscirò mai ad avere a differenza di uno come Alessandro ad esempio che chiama, mi chiede di fermarci e cominciare a camminare: "scendiamo da qua sopra". E lo facciamo. Scendiamo a La Faba a sei chilometri da Cebreiro, chiedo a Juan di lasciarci in una via più secondaria. Salutiamo la signora Gambier che si scusa addirittura con noi, ha tolto la mano dalla portiera e ha messo anche quella sopra la pancia, ci dice che sta male che ha dolori. Ci salutiamo e le diamo appuntamento in cima. Juan è sceso dalla macchina per prendere gli zaini, ci indica il percorso, prende i suoi soldi e ci augura buona fortuna, mi da la mano per un saluto mentre con l’altra mi da il bigliettino da visita, non me la prendo, lo conserverò con cura.


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