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Lampedusani

Testimonianza di un lampedusano, raccolta durante il tragitto in transfer per l’aeroporto.

di Piero Buscemi - mercoledì 5 settembre 2018 - 3955 letture

"Io non sono razzista. Sfido chiunque a dire che lo sono" - esordisce con questa precisazione, come una sorta di protezione ad un attacco che si è sentito lanciare troppe volte. E’ Salvatore che parla. Un ragazzo trentenne, tipico siciliano, con i dovuti tatuaggi messi in evidenza sugli avambracci. Perché le mode si seguono ovunque, e non bisogna restare indietro.

"Io sono pure nato a Rimini. I miei genitori andarono a vivere lì prima che io nascessi" - prosegue Salvatore, mentre s’infila nelle stradine dell’isola con la sicurezza di chi le percorre diverse volte al giorno. Fa il transfer, si autodefinisce con questo termine inglese, e in quella sua pronuncia tipica da film, ci mette tutto l’orgoglio che riesce a trasmettere con gli occhi e con un sorriso di compiacimento.

"Sono tornato a vivere qui. Perché questa è la mia terra. La terra della mia famiglia. Quindi, chi potrebbe permettersi il lusso di darmi del razzista?". E’ una premessa ambigua, che non trova riscontro nel silenzio dei suoi passeggeri di turno, che si limitano ad ascoltarlo, curiosi anche di verificare dove voglia andare a parare. "Io c’ero qui, nel 2011, quando il porto raccoglieva centinaia, che dico centinaia, forse migliaia, e poi chi li contava più. Ammassati al porto, il caldo, il freddo, non c’era stagione che fermasse gli sbarchi. Assetati, affamati. Ci andavo con gli altri della mia isola a portare da mangiare, vestiti, coperte. Perché non potevano restare lì in eterno. Neanche uno spazio di intimità per andare in bagno. Era disumano, ma continuavano a farli arrivare".

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Aereo

Parla senza tentennamenti, Salvatore, non si riesce a capire dove sta il limite tra una lezione imparata a memoria o uno sfogo verso frasi ripetute negli anni, che non ha più voglia di stare ad ascoltare. "Ne ho pure ospitato uno in casa, per un anno" - uno, non riesce ad utilizzare un termine diverso, un uomo, un ragazzo, un bambino. Uno. Crea questo muro insormontabile tra il suo essere lampedusano e chi, nella sua disperazione, ha rappresentato un problema, una minaccia a quell’idea di isola del turismo, ambita e raggiunta con mezzi più consumistici di quelli che ha dovuto scoprire col tempo.

"Però non ho mai capito una cosa. Qui la gente donava le sue cose per dare una mano, qualcuno si offriva anche mettendo a disposizione la propria professione. Ma qui nessuno è mai stato ricompensato di nulla". Ha un pensiero ben chiaro nella mente, Salvatore. Lo costruisce a poco a poco, curando i dettagli, i tempi di pausa tra una sua rivelazione e l’altra. Da l’impressione di temere di tralasciare particolari importanti. Di non essere capito, di lasciare dei dubbi che vorrebbe sfatare definitivamente.

"E poi, quei 35 euro. Chi si le fotteva? Chi li riceveva e come venivano utilizzati?" - si corregge smussando un angolo troppo duro che la forma dialettale involontariamente crea - "non ho mai capito chi li metteva a disposizione, in quali mani finissero. Li vedevo, negli anni successivi, andare in giro con quei cellulari che io non potevo permettermi. E non capivo da dove venissero, chi li faceva apparire come per magia. Perché se fai un viaggio in una imbarcazione di legno, si quelle che puoi vedere ancora ammassate nel porto come fossero un museo, dai tanti turisti che ci vanno a fare le foto, non puoi avere con te un cellulare. E poi, in Africa, esistono i cellulari?" - è un fiume in piena. Ci rivolge queste domande a raffica, ma non aspetta risposte. Prova a fornircele, quasi a voler sottolineare che noi non abbiamo capito nulla.

"E non parliamo di tutta quella merce che viene esposta nei mercatini, durante le feste patronali. Dove la prendono? Dove la tengono? Chi gliela da? Invadono le strade, le spiagge, con questi banchetti ambulanti, anche se adesso ne vedi di meno in giro". Proviamo a fargli notare che questa sorta di sfruttamento dei vucumprà nasconde un’attività criminale gestita da italiani, siciliani, che fanno i soldi spacciando quegli oggetti taroccati, falsi, di provenienza illecita, attraverso le mani di quelli che lui non riesce a chiamare semplicemente uomini.

Ci guarda perplesso. Avrebbe voluto l’ultima parola, per confermare il suo giusto pensiero. E invece, mentre il suo transfer è ormai giunto all’aeroporto, rimane zittito davanti alla nostra prima timida risposta alle sue domande. Una signora, che è rimasta in silenzio fino a quel momento, gli da il colpo di grazia: "Ma tu certifichi fiscalmente i tuoi transfer quotidiani?" - ci mostra un sorriso, che nasconde un improvviso disagio. Poi, stringendoci la mano, rifiutando il nostro compenso con una leggera pudicizia, ci saluta dicendo: "Vi è piaciuta Lampedusa?"


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