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La pubblica amministrazione e la produttività mancata

Il sistema di incentivazione nel suo complesso, anche quello relativo alla dirigenza, deve essere legato alla verifica dei risultati raggiunti rispetto agli obiettivi prefissati.

di Vincenzo Raimondo Greco - mercoledì 16 luglio 2014 - 4030 letture

Nell’articolo precedente (via lo scansafatiche dall’uffici0) mi sono soffermato sul peso che i “lavoratori non lavoratori” hanno sull’andamento generale della P.A. Oggi la mia attenzione sarà proiettata sul calcolo della produttività di un vasto settore che comprende la scuola, l’università, la sicurezza, la sanità, gli enti e le autonomie locali. Un vero e proprio esercito.

Ma come è possibile calcolare la produttività di un vigile del fuoco, di un docente, di un chirurgo? Forse in base al numero di incendi domati, degli alunni che superano l’esame oppure delle vite salvate o degli interventi effettuati? E ancora: la produttività di un dipendete universitario o comunale è verificabile in base alle pratiche istruite?

Per i sindacati ci troviamo di fronte ad un aspetto che, a differenza di quanto avviene nel settore privato, si legge in un documento della Cgil Lombardia, “non è riconducibile alla differenza tra costi e ricavi. Nel pubblico, infatti, l’obiettivo è spesso garantire la qualità in assenza di competizione, non la redditività del servizio”.

Ma quanta qualità ci può essere in un servizio offerto da impiegati stressati e in affanno per colpa del menefreghismo di alcuni? E già perché la questione è tutta lì: la coperta è sempre la stessa, se la tiri da un lato, l’angolo opposto sarà scoperto. Sono, quindi, gli scansafatiche che penalizzano la produttività di un intero ufficio; ecco perché il discorso va affrontato in modo univoco e complessivo.

Lo ha fatto il premier Renzi? Credo di no. Presentando la riforma della PA, il Presidente del Consiglio ha detto, non senza soddisfazione, che “sarà una rivoluzione copernicana, con la pubblica amministrazione che andrà dal cittadino e non più viceversa”.

Verso il cittadino, zavorra compresa. In realtà la preoccupazione degli impiegati che lavorano non è scemata. Non tanto perché temono che si tratti della solita boutade ma perché credono che la riforma parta con qualche gamba mancante.

Per esempio, è stato fatto un monitoraggio delle ore lavorate, delle giornate di assenza o degli straordinari effettuati? Anche di quei “lavoratori non lavoratori” che pur non facendo nulla nel normale orario di lavoro continuano a macinare, autorizzati dai loro responsabili, straordinario su straordinario?

Sono state controllate le schede di valutazione senza le quali i singoli dipendenti non possono beneficiare del trattamento accessorio?

E se il controllo c’è stato, a nessuno è balzata agli occhi una anomalia grande quanto il castello di Windsor? Mi riferisco alla stranezza dei voti; tutti, scansafatiche e lavoratori, raggiungono il massimo!!

Anche io ho inseguito questa politica quando guidavo la RdB dell’Università di Salerno: bisognava spalmare il trattamento accessorio su tutti. Oggi però faccio il mea culpa. Non tutti possono e sono uguali.

Se gli incentivi non incidono sui reali meriti le maggiori responsabilità sono di chi non decide quali devono essere i lavoratori da premiare: i dirigenti e i capi ufficio delle singole amministrazioni.

Questi, invece di definire criteri e obiettivi da raggiungere in base ai quali riconoscere la produttività, preferiscono declinare la responsabilità di scegliere.

Il sistema di incentivazione nel suo complesso, anche quello relativo alla dirigenza, deve essere legato alla verifica dei risultati raggiunti rispetto agli obiettivi prefissati.

Ma torniamo a Renzi. E’ stata fatta una “mappatura” degli organici pubblici in modo da pianificare al meglio la riorganizzazione e predisporre gli spostamenti laddove servono davvero?

Tutte queste sono uno strumento utile per analizzare eccellenze e deficit nel mondo del lavoro pubblico. E, invece? Avanti tutta con gli annunci. Il risultato che ci troveremo dinanzi non cambierà. Avremo lavoratori che lavorano per due o tre colleghi, e scansafatiche che appesantiscono il risultato dell’intero ufficio, dell’intera sezione.

Nella PA se un servizio non funziona, si dà la colpa ai lavoratori che non lavorano”, si legge ancora nel pamphlet della Cgil Lombarda, datato ma ancora estremamente attuale: si tratta, però, di una verità parziale e non esaustiva perché non solo i dirigenti non vengono sfiorati dalle accuse ma perché “il cattivo funzionamento degli uffici pubblici è legato a cause complesse, radicate: prodotti e processi di lavoro, carriere e assunzioni,formazione e addestramento, forme e culture organizzative. Ciascuno di questi elementi concorre a determinare successi e insuccessi”.

Bene, quindi, criminalizzare il comportamento dello scansafatiche di turno sapendo però che fermarsi a quel provvedimento non basta per rimuovere tutti gli aspetti critici della cattiva gestione della P.A.

Una delle criticità per esempio è rappresentata dall’organizzazione del lavoro e dal controllo della sua esecuzione.

Le risorse - economiche, tecnologiche ma anche umane - della PA vengono spesso utilizzate in maniera arbitraria per l’irresponsabilità e l’incapacità di chi può e deve decidere: l’efficienza scade, i costi lievitano, la qualità e la quantità dei servizi peggiorano e si alimenta la sfiducia dei cittadini verso l’amministrazione e quella dei lavoratori verso chi decide .

La soluzione? Il ricorso alla esternalizzazione che, nella maggior parte dei casi, significa affidare ad amici e parenti alcuni servizi. E’ l’alternativa al blocco delle assunzioni; è la panacea di tutti i mali. Da un lato gli incardinati continuano a percepire il loro stipendio; dall’altro gli ‘unti dal signore’ riescono a mettere un piene nella PA con la speranza di avere un rapporto di lavoro a tempo indeterminato quando i tempi saranno migliori.

Ma cosa si esternalizza? Di tutto, con buona pace delle organizzazioni sindacali. Eppure una cosa è esternalizzare la manutenzione dei giardini, altro è dare in appalto, più o meno mascherato, il lavoro proprio dell’ufficio stampa o dell’ufficio stipendi che fanno parte integrante del core business di quella organizzazione. Ma questo sarà argomento del prossimo articolo.


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