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L’uomo che si dimenticava

Eginardo era il migliore scrittore di racconti mancati della sua generazione.

di Victor Kusak - giovedì 27 giugno 2024 - 163 letture

Eginardo aveva ormai quasi quarant’anni ma per via dei capelli bianchi ne dimostrava settanta. La sua chioma era inconfondibile. Spiccava da lontano, facilmente individuabile. Un bene, perché aveva la spiacevole abitudine di perdersi. Non aveva un senso dell’orientamento molto sviluppato. A parte questo, aveva un’altra caratteristica. Per molti che lo conoscevano, era considerato il migliore narratore e scrittore di racconti della sua generazione. Ne inventava e scriveva, nella sua mente, molti e bellissimi. L’unico problema era che questa sua scrittura avveniva sempre e solo nel momento del sonno. Sdraiato a letto o su una poltrona, il racconto ideato nei minimi particolari era sempre straordinario, acutissimo, evocativo, rasentava il sublime.

Quando poi Eginardo si svegliava, il mattino successivo, era tutto sparito. Nessuna traccia nella sua mente, nel suo ricordo, di quel racconto. Se non la sensazione indefinita. Eppure tutti i particolari, le singole frasi, i singoli paragrafi erano rimasti nella sua memoria fino a pochi minuti prima. Nel sonno. In quel momento onirico. Alla veglia, tutto era cancellato.

Eginardo era il migliore scrittore di racconti mancati della sua generazione.

Quella mattina che Eginardo doveva andare in tribunale, era diventato suo malgrado un caso nazionale. Lo attendevano tutti. Televisioni, giornalisti, molti curiosi. Il suo caso aveva fatto scalpore. Per questo era stato citato e gli era stato intimato di presentarsi in tribunale. Si erano formati anche due partiti, molto combattivi sui giornali. Quelli che lo deprecavano come traditore della Nazione. E quelli che lo disprezzavano dubitando della sua consistenza morale. Un giornalista aveva svolto una lunga inchiesta, lo aveva persino pedinato, e con la macchina fotografica avevano immortalato - con un sagace primo piano tramite un potentissimo teleobiettivo - il colore anomalo dei suoi calzini.

Era accaduto che lo Stato della Nazione di cui Eginardo faceva parte, aveva deciso di nazionalizzare il linguaggio. Tutti i cittadini della Nazione parlano una lingua, dissero, che appartiene ai cittadini - è vero - ma siccome i cittadini sono tutti parte della Nazione, anche il loro linguaggio appartiene alla Nazione. I cittadini lo potevano usare, ma il copyright delle singole parole apparteneva alla Nazione che dunque poteva esercitare - se lo voleva - i relativi diritti. Si disse che questa legge serviva a difendere il linguaggio della Nazione, che altrimenti poteva essere usato e abusato da Nazioni ostili e concorrenti. Solo la Nazione poteva usare il linguaggio della Nazione, le altre Nazioni erano abusive. Per quale motivo un esponente di una qualche Nazione altra, ostile o meno che fosse, doveva per esempio usare la parola della Nazione “calzini” o, peggio, “calzini spaiati”? Con la nuova legge, tutto questo veniva normato e i cittadini della Nazione potevano finalmente tornare a dormire tranquilli. Nessun altro al mondo avrebbe potuto adoperare la parola “calzini”, o “calzini spaiati” senza dover prima chiedere il permesso ai rappresentanti dello Stato che rappresentava a sua volta la Nazione.

Con il copyright alle parole impiegate nel linguaggio della Nazione, si era in effetti reso più ordinata e coerente la lingua dei giornali e delle televisioni, dei social network. E anche i medici erano stati obbligati a utilizzare un linguaggio più comprensibile con i propri pazienti, e i preti con i propri fedeli.

Poi si era presentato il caso di Eginardo. Notoriamente, il maggiore narratore della sua generazione. Che elaborava splendidi e bellissimi racconti nella fase REM del suo sonno. E che tuttavia li dimenticava al suo risveglio, arrecando così un danno evidente alla storia della letteratura nazionale, a tutta la filiera commerciale ed editoriale della Nazione. I suoi racconti, pubblicati, avrebbero potuto allietare il povero e far meditare il ricco. Ma in questo modo, dimenticati, erano un mancato guadagno per le casse erariali dello Stato. Si sospettava che Eginardo avesse simpatie per una qualche Nazione concorrente, e per questo - volutamente e non casualmente - dimenticasse i racconti ideati. In realtà, si diceva, Eginardo li custodiva in un qualche file nascosto, pronto a rivenderli alle Nazioni concorrenti.

Ne era seguito un gran trambusto. E persino la televisione aveva parlato del suo caso, sollevando la giusta indignazione dei telespettatori.

Un gruppo di cittadini si era persino presentato sotto casa di Eginardo, la sera, con strumenti e utensili atti al rumore. In questo modo, dicevano, facendo schiamazzo, avrebbero evitato che Eginardo si addormentasse e dormendo mettesse assieme i suoi racconti - perché, si sa, un racconto non viene mai creato dal suo autore, ma in qualche modo l’autore è solo uno che assembla parole, parole che appartengono alla Nazione, che casualmente o per ispirazione del dio o del demone assumono la struttura del racconto. Eginardo dunque non era “l’autore”, ma uno che si appropriava di qualcosa che era composto di parole. E le parole, si sa, appartengono alla Nazione. Esimi giuristi in tv avevano dato questo parere definitivo.

Fatto sta che gli schiamazzi dei suoi concittadini non erano serviti a molto. Ed anche quella sera Eginardo si era addormentato pacifico. Aveva fatto un bellissimo sogno, e in questo sogno c’era una luna e un gatto. Solo che l’indomani mattina, come sempre, aveva dimenticato tutto. E del racconto non era rimasto altra traccia se non questa vago ricordo, nella sua memoria - di una luna e di un gatto.

Ed Eginardo quella mattina non andò neppure in tribunale perché poi, svegliandosi, dimenticò di avere quell’appuntamento con la Nazione e fece altro: lavò a mano i calzini che si erano accumulati sporchi nel corso della settimana. E tra una cosa e l’altra passò la sua giornata, in tempo per lavarsi i denti e mettersi a letto - pronto al sonno e a un nuovo racconto da dimenticare.


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