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Equivicinanza

Nei suoi pochi mesi di vita, il governo Prodi ha partorito, in politica interna, le cosiddette liberalizzazioni e in politica estera il poderoso concetto di “equivicinanza” riferito alla complessa e tormentata situazione del Medio Oriente...

di pietro g. serra - martedì 25 luglio 2006 - 4010 letture

Nei suoi pochi mesi di vita, il governo Prodi ha partorito, in politica interna, le cosiddette liberalizzazioni e in politica estera il poderoso concetto di “equivicinanza” riferito alla complessa e tormentata situazione del Medio Oriente. In entrambi i casi, riesce difficile vedere dei segnali di vera discontinuità rispetto al precedente esecutivo. Trova in tal modo un’ennesima conferma la boutade, attribuita a Gianni Agnelli, secondo la quale per fare una politica di destra bisogna che a governare sia la sinistra.

Ed infatti, circa il primo punto, il governo, di cui fanno parte sia i comunisti di Bertinotti che quelli di Diliberto, si è addirittura vantato di aver invaso il campo avversario, appropriandosi di un suo cavallo di battaglia - le liberalizzazioni, appunto. Si è, in altri termini, vantato, da sinistra, di spingere in direzione di una politica solitamente considerata di destra!

Per quanto riguarda il Medio Oriente, il legame con le scelte del governo Berlusconi è, a prima vista, meno evidente, ma ugualmente forte. La pubblicistica di centro-destra, apertamente schierata a favore di Israele, è tutt’altro che “equivicina”. Ora che non hanno più responsabilità di governo, gli esponenti politici e mass-mediali della Casa delle Libertà hanno abbandonato le inevitabili prudenze lessicali che in parte li impacciavano fino a qualche tempo addietro e possono finalmente sparare ad alzo zero contro i nemici della stella di Davide, assimilati sic et simpliciter a terroristi. Il che consente poi di attaccare il governo, colpevole di non usare toni altrettanto netti e pertanto accusato di ambiguità nei confronti del terrorismo.

Se, tuttavia, tralasciamo la polemica spicciola e proviamo a capire come stanno davvero le cose, non facciamo fatica ad accorgerci che l’“equivicinanza”, al tirar delle somme, è un modo più raffinato e subdolo, e quindi più efficace, per ottenere lo stesso risultato voluto dal centro-destra, ossia un sostanziale appoggio alla linea dura adottata da Tel Aviv contro chiunque ne ostacoli i progetti di dominio regionale. Cosa significa, infatti, “equivicinanza”? Significa che la sinistra si sente ugualmente solidale con tutte le fazioni in lotta nel teatro mediorientale, senza sostanziali distinzioni, senza sbilanciamenti a favore dell’una o dell’altra parte, dal momento che tutti hanno i loro torti e le loro ragioni. Compito della comunità internazionale, e in particolare dell’Europa, è allora quello di indurre i contendenti a riconoscere i primi e a mettere insieme le seconde per garantire un futuro di pace.

Più che “equivicina”, una simile posizione andrebbe definita pilatesca, impolitica e moralistica. Stante la chiara e sostanziale disparità delle forze in campo, un atteggiamento di “equivicinanza” non può che tradursi in un vantaggio per Israele, perché lascia irrisolti tutti i nodi dell’area mediorientale, limitandosi a distribuire pagelle e a fare liste di buoni e di cattivi. Quando, in uno scontro fra un nano e un gigante, non ci si schiera con nessuno (o, il che è lo stesso, ci si schiera con entrambi), in realtà si parteggia per il gigante, perché si consente a quest’ultimo di continuare a dettare legge e a spadroneggiare. Una sinistra che avesse una sia pur vaga reminescenza delle sue origini, non dovrebbe avere dubbi nella scelta fra i “miserabili”, gli “umiliati” e gli “offesi”, da un lato, e coloro che riducono in miseria, umiliano e offendono, dall’altro.

Il peccato originale, come lo ha definito Dominique Vidal, da cui nascono i problemi mediorientali ha un nome e un cognome precisi: questione palestinese. E questo peccato è stato commesso da Israele che, dopo aver occupato i territori palestinesi, costringe un intero popolo a vivere in condizioni subumane, così descritte da monsignor Robert L. Stern, responsabile della Pontificia Missione per la Palestina: “A Gaza gran parte della popolazione vive ancora nei campi profughi [...] I campi sono come un vecchio villaggio del tutto privo di organizzazione. La gente vive in case anguste fatte di blocchi di cemento, non esistono vere e proprie strade, ma percorsi più o meno disagevoli, e tutti vivono accalcati. In una stanza possono vivere anche dodici persone [...] La libertà di movimento è limitata. [...] Manca il lavoro [...] Così è triste vivere”. Poi monsignor Stern aggiunge: “C’è chi si pone la domanda retorica del perché ragazzi e ragazze della Palestina accettano di farsi esplodere come martiri. Non possono studiare, non possono viaggiare, non possono lavorare, non possono avere una famiglia, vivono nell’assurdo, non hanno altra speranza che annientarsi in un momento di gloria per la loro religione.

Io non sono un politico, né un economista, ma posso almeno immaginare che il giorno in cui avremo da offrire lavoro a questi ragazzi musulmani, avremo sconvolto i piani dei terroristi: con una onesta paga settimanale e la possibilità di uscire con la propria ragazza. Sono convinto, nonostante la loro retorica molto negativa, che i responsabili di Hamas comprendono perfettamente questa situazione. Vogliono un futuro per il loro popolo, come tutti coloro che gestiscono la politica. E l’aspetto positivo della loro politica è la quantità di servizi sociali e di benessere che hanno cercato di dare al loro popolo. Ciò resta vero, nonostante le parole che usano e gli slogan che, secondo la retorica araba, urlano” (cfr. l’intervista curata da Giovanni Cubeddu in “30 Giorni”, n. 5/2006). È la rimozione di questa realtà a rendere possibile una serie di distorsioni della discussione, la prima delle quali consiste in un completo ribaltamento dei fatti e delle responsabilità, per cui facciamo, con Bernard Lewis, la sorprendente scoperta che la colpa della “questione palestinese” è degli stessi palestinesi e, più in generale, degli arabi, i quali non hanno seguito la corrente storica che, all’indomani della seconda guerra mondiale, nel 1947-48, quando la questione è nata, ha costretto milioni di persone a spostamenti forzati: polacchi che fuggivano dall’URSS, tedeschi che scappavano dalla Polonia, musulmani che dall’India andavano in Pakistan e, viceversa, indiani che dal Pakistan andavano in India.

Costoro si sono tutti integrati, hanno tutti accettato la loro nuova sistemazione. Tutti, tranne i palestinesi, che, a giudizio di Lewis, hanno la colpa di essersi opposti a questo sopruso e di aver tenuto duro, in odio agli israeliani (cfr. Islam, la guerra e la speranza, Rizzoli). Insomma, in base a questo strano modo di ragionare, i perseguitati sono responsabili di non essersi rassegnati alla persecuzione, di aver continuato a rivendicare il diritto di risiedere nella loro terra. Diritto, si badi, che è lo stesso che ha spinto per secoli generazioni di ebrei della diaspora a salutarsi con la formula: “L’anno prossimo a Gerusalemme”. Un’ulteriore distorsione è costituita dalla sproporzione delle forze che si fronteggiano nel Vicino Oriente e che consente a Israele - una potenza nucleare, armata fino ai denti e con un esercito super-professionale - di seminare lutti e dolore in quantità industriali, a ritmi da catena di montaggio, contro nemici armati in maniera rudimentale.

Non potendo negare questa realtà, si provvede allora, come ha fatto Ernesto Galli Della Loggia, a legittimare la “mancanza di misura” degli israeliani, la hybris, che gli antichi greci saggiamente temevano come il peggiore dei disastri, contrapponendole la dike, la giustizia, il senso del limite e delle giuste proporzioni (si veda l’articolo “La sproporzione che non capiamo” ne il “Corriere della sera” dello scorso 19 luglio). L’“equivicinanza”, figlia anch’essa della marginalizzazione del problema palestinese, rientra nel novero delle distorsioni, ed è resa altresì possibile dalla paura matta di essere bollati come amici dei “fascislamisti” (nuova categoria demonizzante creata da Bernard-Henry Lévy) di Hamas e di Hetzbollah o, peggio, come antisemiti e cripto-nazisti - paura da cui è afflitto l’intero spettro politico e che non consente di impostare un vero e serio dibattito. L’analisi pacata della situazione non ha alcuna importanza. Quello che conta, è allontanare da sé l’orribile sospetto di voler danneggiare Israele.

La destra, che per le sue trascorse radici fasciste ha una lunghissima coda di paglia in materia ed è quindi facilmente ricattabile, esorcizza tale sospetto nel modo più semplice, e al contempo irresponsabile, che ci sia: prendendo sempre e comunque le difese di Tel Aviv (cosa che, del resto, in buona parte accadeva anche prima dello sdoganamento), qualunque cosa faccia, negando persino l’evidenza più ovvia, e cioè che la sua reazione alla cattura di alcuni soldati israeliani (costata, al momento in cui scriviamo, secondo il premier libanese Fuad Siniora, 300 morti, un migliaio di feriti, mezzo milione di sfollati e l’azzeramento delle infrastrutture sociali) è del tutto ingiustificabile e, appunto, sproporzionata. La sinistra, che deve rendere conto del suo operato a un governo e a un elettorato più frastagliati, ha risolto il problema nel modo prima accennato, cioè accontentandosi di sermoneggiare, di fare le pulci alle parti contrapposte, di svolgere una funzione da grillo parlante consistente nella enunciazione di grandi principi, di pillole di saggezza che restano sospese in aria, non si incarnano, e la cui funzione è precisamente quella di non toccare terra - perché qualora ciò accadesse si infrangerebbero subito - dando al tempo stesso l’illusione alla propria “clientela” di essere comunque pensosi delle sorti dell’umanità. Ancora una volta, è stato un intellettuale ebreo, lo storico Zeev Sternhell, ad andare alle radici e a capire che dietro la questione palestinese, che rimane centrale e ineludibile, c’è in realtà una “questione israeliana”, relativa al fondamento sionista su cui si basa la legittimità dello Stato di Israele.

Il sionismo, in tutte le sue varianti (di destra, centro e sinistra) è stato fin dalle origini caratterizzato da un afflato mistico-religioso che lo porta inevitabilmente a disconoscere l’altro. In questo, esso non si differenzia affatto dalle altre forme di nazionalismo “organicistico” ben conosciute in Europa. Senza peli sulla lingua, lo storico israeliano scrive che “anche Israele possiede le proprie camice brune, costituite non solamente dai coloni di Giudea e Samaria” (cfr. Nascita di Israele, Baldini&Castoldi). In sostanza, quella che Galli Della Loggia esalta come una peculiarità dello Stato di Israele che va salvaguardata, ossia “la dimensione simbolica che abita in quei luoghi, che spira da quei nomi. È il significato simbolico del suo popolo, di cui noi europei, se non sbaglio, dovremmo sapere qualcosa: qualcosa che faremmo bene a non scordare” - questa peculiarità rappresenta, invece, per Sternhell, proprio ciò che bisognerebbe, se non proprio scordare, quantomeno ridimensionare. Sternhell punta, per assicurare un futuro a Israele, su un sionismo liberale, laico, occidentale, pur ammettendo che esso equivarrebbe a “un salto nell’ignoto”. Per quanto ci riguarda, parleremmo piuttosto di una contraddizione in termini.

Comunque sia, chiediamo troppo se ci aspettiamo che nell’ambiente politico e in quello intellettuale si mettano da parte le banalità e il politicamente corretto (l’“equivicinanza”, la lotta al terrorismo, ecc.) per cominciare a discutere di Israele con questa radicalità? Domanda retorica. Certamente sì, chiediamo troppo. Eppure, un passo decisivo sulla via della pace sarà fatto solo il giorno in cui un non ebreo che osasse porre simili interrogativi non verrebbe ipso facto ghettizzato e condannato alla morte civile.

Giuseppe Giaccio Diorama Letterario n. 279


- Ci sono 4 contributi al forum. - Policy sui Forum -
Equivicinanza e altre lezioni di resistenza
25 luglio 2006

A volte è un commento, a volte una risposta..

Io penso che il mondo intero sia andato troppo a destra. Gli americani hanno avuto molto da pentirsi del secondo mandato per l’attuale presidente.

Molti italo-americani hanno scritto nei blog italiani, al tempo delle nostre elezioni che ci stava capitando quello che era successo a loro in America. Altri dicevano che Prodi avrebbe invece cantato vittoria..

Ma loro hanno riferito che fu un grosso errore per molti aver ricalcato il vecchio voto.

In realtà, in molti si sono giustificati con l’11 settembre..

I terroristi veri, sbagliarono a colpire l’America, perchè si sono ritrovati con un grosso polizziotto picchiatore. Ma gli Americani, vedranno sparire tutti i loro sogni dietro le possibili e future guerre che distruggeranno l’economia del mondo intero.

Lo schema ora è chiaro: "portare la democrazia" da qualche parte del mondo vuol dire portare un pezzo costosissimo dell’America all’estero.

Cioè è stata scoperta la legge di gravità politica valida anche per i paesi ricchi. Quante zone del mondo sono depresse, eppure non bastano dei libri di poesie per convincerli ad essere dei super virtuosi.

Oggi è chiaro per tutti che lo sviluppo corrisponde al progresso tecnologico, la sola democrazia è ben poca cosa davanti all’ignoranza e alla miseria, in mezzo all’indigenza più completa.

Ci sarebbe la scappatoia di eliminare tutti gli abitanti del territorio interessato. Arruolare un bel pò di "coloni" per ripopolare quelle terre così "sfortunate!"..

Ma raccontiamo frottole?

Forse la Cina sarebbe interessata a tale ipotesi!

Gli americani sono 250 milioni!

cioè sono 4 volte degli italiani!

L’America è già grandissima!

Io dico che l’errore politico è una grande suggestione, ma ha dei prezzi altissimi.

L’Italia stava andando verso lo sfascio.. oggi, con un caffè al giorno ciascuno, si può ancora sperare di non avere più quel fiato sul collo..

Ora l’Italia dia prova al mondo che la tranquillità è bella e costa pochissimo.

Siamo equidistanti, ma: "si parla del più e del meno.."

Speriamo di poter scrivere presto in questo blog cose più incoraggianti.

(Stiamo parlando delle pecore di tutti)

pietà e rabbia
25 luglio 2006, di : ornella guidi

Sulla "questione palestinese" quanta responsabilità ha avuto il capo indiscusso e carismatico dei palestinesi, Arafat?

Dove sono andati tutti i contributi in denaro ricevuti? Ha mantenuto cinicamente un popolo affamato e nell’ignoranza, se avesse voluto una soluzione avrebbe saputo trovarla.

E’ inutile fare tanti discorsi, ci sono situazioni in cui il pragmatismo è l’unica possibilità di sopravvivenza, diventa inutile giocare a fare il combattente tutta la vita, a capo di un esercito di disperati e al tempo stesso imboscare i miliardi in conti svizzeri con tanto di moglie e figlia al sicuro nella residenza di Parigi.

La corruzione della gestione Arafat è cosa tristemente nota, purtroppo ci sono errori che si pagano per anni e anni e la pietà diventa rabbia.

Equivicinanza
26 luglio 2006

Arafat quindi era una specie di riccone palestinese?

Spererei che qualcuno ci dicesse se aveva qualche decina di milioni in banche straniere..

Ma poi, gli israeliani sapevano di questo?

    Equiladranza
    26 luglio 2006

    Arafat era il tipico uomo politico arabo: corrotto e inaffidabile. Invece gli uomini di Hamas sono onesti ma psicopatici.
Equivicinanza
27 luglio 2006

Poveri palestinesi!