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Da Papaleo a Giordano Bruno. Fino a Roversi

Già a Sanremo, i puristi (o i cultori di gusto) guardavano l’attore con sospetto e circospezione, specie per quella parodia della foca.

di Armando Lostaglio - martedì 19 giugno 2012 - 5386 letture

Per formazione o per non aver troppo tempo disponibile, cerchiamo di tenerci lontani da eventuali polemiche, specie se non avranno ricadute o se risulteranno inutili. L’ultima argomentazione riguarda i lucani alle prese con l’immagine del “loro” attore-regista Rocco Papaleo, oggi testimonial di ENI, Compagnia che, bontà sua, riduce il costo dei carburanti nel fine settimana.

Già a Sanremo, i puristi (o i cultori di gusto) guardavano l’attore con sospetto e circospezione, specie per quella parodia della foca, mal digerita e compianta (ma non proprio dalla maggioranza dei telespettatori). Oggi l’immagine dell’attore viene da più parti definita come di un “venduto”, con il passaggio da una Compagnia all’altra, senza tuttavia fiatare sulle “miserie” delle royaltie, e soprattutto sull’inquinamento dell’aria e del territorio nelle aree estrattive; senza chiedere che quelle stesse Compagnie si riproducessero in attività parallele per rendere salubri quei luoghi che esse contribuiscono ad inquinare.

Senza che Papaleo, (ma mica spetta a Papaleo che fa l’attore, oltre che il regista) rilevi il “costo” che il territorio “paga” per le attività dei padroni del sottosuolo? L’attore ha un suo ruolo, in un ambito nel quale è sempre più difficile emergere, nonostante si abbia talento (e Papaleo ne ha). Allora di che ci si lamenta? E’ verosimile invece che non si “perdona” a chi proviene dalla gavetta il suo momento di gloria, la visibilità, e magari l’arricchimento. Saranno sussulti (di provincia) colmi di invidia da parte di chi forse non riesce ad emergere e non sa guardare oltre?

Eppure siamo gli stessi che tolleriamo che i notiziari e le tv ci offendano quotidianamente con le facce dei Rutelli (che ancora non si dimette dopo lo scandalo dei milioni trafugati dal suo tesoriere); dei Bossi che manda i figli a laurearsi a Tirana mentre infanga la fiducia di centinaia di migliaia di sostenitori da lui stesso per decenni soggiogati; dei Maroni che da ministro degli Interni non si accorge delle ruberie del tesoriere del suo stesso partito; che la quarta carica dello Stato è occupata da una signora (signora? Rosi Mauro) che per scolparsi di non aver comprato nessuna laurea dichiara che “a scuola era un’asina”, alla faccia dei nostri talenti laureati che se ne vanno via. Del governatore lombardo che acconsente che una maitresse di alto borgo (Minetti) venisse imposta nel suo Consiglio regionale; che il corrotto Penati, braccio destro del segretario nazionale Pd, sia ancora a piede libero.

Di tutto questo non facciamo più memoria: è troppo corta per consentirci di allungare la vista, di guardare la luna anziché il dito che la indica, per indignarci all’unisono e chiedere con forza che queste nefandezze vengano azzerate. E che la compravendita dei voti venga punita, che chi cambia “casacca” nelle aule parlamentari venga allontanato. Chissà se è più “ripugnante il potere corruttore oppure l’interessato servilismo dei venduti”. Non rivalutiamo mai Giordano Bruno e la sua coerente “disobbedienza”: ogni tanto quelli andassero ad onorarlo in Campo de’ Fiori.

Invece, nel nostro minuscolo orizzonte, ci fermiamo all’immagine di Papaleo, ci attenuiamo con la battutina al vetriolo riversata contro; oppure lo “assolviamo”. C’è aria irrespirabile, ormai, non solo in Val d’Agri. Fino a ripensare alla rima di Roberto Roversi che Lucio Dalla ci cantò qualche decennio fa (“Parole incrociate”): “Nel bel prato d’Italia c’è odore di bruciato. Un filo rosso lega tutte, tutte queste vicende. Attenzione: dentro ci siamo tutti, è il potere che offende…”.


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