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9 Giugno 1937, il delitto Rosselli: il ruolo e le responsabilità di due siciliani

Fu un nicosiano, il colonnello Santo Emanuele, responsabile di prim’ordine del Servizio segreto militare, al servizio di Mussolini, a dar corpo all’idea dell’omicidio di Carlo Rosselli.

di Silvestro Livolsi - domenica 6 agosto 2017 - 6558 letture

Nella documentata ricostruzione, effettuata da Mimmo Franzinelli, di uno dei più efferati delitti del regime fascista contro due dei suoi più tenaci oppositori, i fratelli Rosselli, emergono coinvolgimenti e responsabilità di due importanti funzionari del regime mussoliniano.

Fu infatti un nicosiano, il colonnello Santo Emanuele, responsabile di prim’ordine del Servizio segreto militare, al servizio di Mussolini, a dar corpo all’idea dell’omicidio di Carlo Rosselli.

Rosselli, attivo antifascista, per le sue azioni ed idee liberali e socialiste, avverse alla dittatura mussoliniana, era stato condannato nel 1927, all’esilio a Lipari; da lì, riuscito rocambolescamente a fuggire, aveva trovato rifugio in Francia e, assieme alla nutrita schiera di intellettuali e militanti antifascisti italiani che Oltralpe già risiedeva, aveva ripreso a intessere piani e trame per liberare l’Italia dalla pesante oppressione totalitaria, sino al 9 giugno del 1937, quando viene trucidato (assieme al fratello Nello, che sfortunatamente quel giorno si trovava con lui e che, sebbene fosse anch’egli un esule antifascista, non era nel mirino del regime) a Bagnoles-de-l’Orne, da un gruppo di militanti della Cagoule, un’associazione illegale dell’estrema destra francese.

L’assassinio, benché consumato in Francia, venne organizzato a Roma, secondo quanto sostengono le ricostruzioni storiche più recenti, che concordano tutte nel ritenere Santo Emanuele uno dei protagonisti principali. E lo sostengono sul solco del libro-inchiesta uscito per Mondadori nel 1977, ad opera di Mimmo Franzinelli, dal titolo "Il Delitto Rosselli, un omicidio politico"; libro che è stato ristampato, stavolta da Feltrinelli, anche in occasione della ricorrenza, avvenuta qualche mese fa, dell’ottantesimo anniversario del barbaro delitto. L’indagine di Franzinelli mette bene in evidenza il ruolo di Emanuele nella vicenda: ricevuto l’ordine da un superiore, il generale Angioi, di occuparsi dell’attività in Francia del fondatore di Giustizia e Libertà, si sarebbe prontamente adoperato a intrecciare rapporti con il gruppo eversivo francese, affinché venisse messo a tacere un sempre più scomodo e ’pericoloso’ Carlo Rosselli. La minuziosa e complessa ricostruzione di Franzinelli attribuisce, fondamentalmente, con motivate e convincenti analisi, la responsabilità della strage francese ad Emanuele.

Nel 1937, Emanuele, a 43 anni, è a capo del controspionaggio militare ed ha alle spalle una rapida e brillante carriera nell’arma dei carabinieri e una consolidata esperienza in fatto di commercio d’armi e di ’affari speciali’ in paesi esteri, in particolare in Abissinia e in Spagna.

In alcune note ufficiali di esponenti di spicco dell’apparato militare e politico del regime viene segnalata la sua «elevatezza di cultura, distinzione dei modi, larghezza e modernità di vedute, prontezza di esecuzione»; e viene fatta ’risaltare’ la sua provenienza dall’Isola, quando lo si descrive come «il tipico siciliano che alle spiccate qualità criminali accoppia un amore patriarcale alla famiglia, una devozione illimitata a sua moglie e alle due giovani figlie, una condotta esemplare di poliziotto e uomo d’ordine»

Scrive di Emanuele, in un suo rapporto di servizio, Filippo Anfuso, anch’egli siciliano, segretario personale del ministro Galeazzo Ciano, e dice che era «ambizioso, servizievole, versatile, preciso, un po’ troppo immaginativo, con zelo di domenicano e fremito di cane fedele, con un paio di baffetti che apparivano e scomparivano a seconda delle operazioni in corso, qualche volta appaiati con una barba bionda; le mani rivestite di guanti di pelle nera e uno sguardo immobile dietro grandi occhiali con lenti spesse e cerchiate d’oro» Emanuele, quando verrà processato, nel ’49, perché accusato del delitto Rosselli, dirà che di quel delitto, Anfuso, sapeva tutto, lasciando intendere che ne era tra i più alti e diretti mandanti; mandandolo, sul banco degli imputati. Vennero assolti, tutti e due: Anfuso con formula piena ed Emanuele per insufficienza di prove. A difendere Emanuele era stato l’onorevole Ottavio Mastrojanni (già membro della Costituente), eletto nelle fila dell’Uomo Qualunque, deputato al parlamento e avvocato. Poiché anche lui originario Nicosia, Mastrojanni condivideva con Emanuele sicuri legami di compaesaneità ma anche una identica visione della società - basata sul dominio della forza, sull’ordine, sull’autorità - forse maturata tra ’la noia e l’offesa’ dei giovanili ’anni perduti’ vissuti nella remota cittadina ennese.

Il regime era caduto, ma la nascente Repubblica iniziava - anche con l’inutile processo sul caso Rosselli - la sua lunga storia di misteri e di eccidi irrisolti e impuniti. Reintegrati, nonostante il loro passato fascista, nella vita pubblica e politica, sia Anfuso che Emanuele, come documenta Franzinelli, hanno ricopriranno incarichi importanti nell’apparato statale. Un giorno, nei primi anni settanta, come riporta sempre Franzinelli, si sono casualmente incontrati a Catania, nella centralissima Via Etnea, mentre passeggiavano con amici e pare che Anfuso, abbia apostrofato Emanuele con l’espressione dialettale e non certo amichevole di «ficus nicusianu!».

Mimmo Franzinelli, Il delitto Rosselli. Anatomia di un omicidio politico. Feltrinelli, 2017, pag. 352, euro 12,00



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