Niccolò Franco

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Niccolò Franco

Niccolò Franco era nativo di Benevento (1515), passò giovane prima a Napoli poi a Venezia dove fu alle dipendenze di Pietro Aretino. All'epoca si faceva il mestiere d'intellettuale o potendo disporre di proprio per origini familiari, oppure grazie al mecenatismo di nobili e prìncipi in cambio di servigi cortigiani (Ariosto ne fu tipico esempio). Con Aretino si avvia una prova d'indipendenza d'intellettuale, quella che lo pone sulla strada del giornalismo. Aretino mette insieme una azienda della produzione letteraria che ha il fine anche di rendere lucrativo il mestiere di chi può diffondere informazioni riguardo a ricchi e aristocratici, le loro attività illegali dal punto di vista morale o di legge: chi non voleva la diffusione di tali materiali compromettenti bastava che pagasse. Aretino fu un maestro di questo tipo di giornalismo letterario. Franco imparò il mestiere da Aretino, arrivò a divenirne segretario ma poi volle mettersi in proprio. Aretino non glielo perdonò, mandò un paio di sicari per farlo fuori, lui riuscì a sfuggire rimanendo tuttavia sfregiato ma capì che Venezia non era ormai per lui ambiente adatto e emigrò. Si mise alle dipendenze di vari signorotti italici, per approdare infine a Roma.


Sono anni decisivi per la storia della Chiesa cattolica. Gli anni del lunghissimo concilio di Trento (iniziato nel 1545, ebbe termine nel 1563 dopo alterne vicende), dell'attività della Congregazione cardinalizia per esercitare il sant'Uffizio dell'Inquisizione, voluta da Paolo III nel 1542, dell'istituzione nel 1559 (sotto Paolo IV) dell'Indice degli autori e dei libri proibiti. Nel 1568 sono pubblicati il Catechismo e il Breviario, strumenti della controffensiva cattolica paolina. Altro dato non secondario: secondo alcune valutazioni odierne, tra il 1560 e il 1630 morirono sul rogo, accusate di stregoneria, circa 20 mila persone. Franco fu un poligrafo, scrisse davvero di tutto: si ricordano la sua raccolta di cento epigrammi latini intitolata Hisabella (1535), lettere, un romanzo di tipo boccacciano (Filena), e la serie di rime e prose contro Aretino (Pistole vulgari, 1539; Dialoghi piacevoli, 1539; Sonetti contro Aretino, 1541; Priapea, 1541). In poesia fu quelle che oggi viene chiamato un "antipetrarchista", appartenente cioè a quel filone produttivo che si staccava in vario modo ai modi della verseggiatura "ufficiale" e inoffensiva dell'epoca. Ne scrisse tra l'altro un opuscolo, Il petrarchista (1539), interessante appunto per le prese di posizione contro il petrarchismo dominante. Per qualità letteraria non fu all'altezza del ben più dotato Aretino. E oggi probabilmente la sua importanza all'interno della storia italica sarebbe limitata alle alterne vicende della manualistica letteraria - più o meno sensibile a privilegiare tutori dell'ordine o eccentrici in odor di eversione o rimarcarne moralisticamente le attitudini ricattatorie e calunniatrici - se Franco non fosse incorso nelle maglie dell'Inquisizione, e la sua vicenda assumere tanta più importanza quanto più si consideri che di tutta la documentazione d'archivio riguardante i processi dell'Inquisizione in Europa noi possediamo le carte riguardanti cinque soli processi - tra cui queste del Franco. Dello stesso famoso processo a Giordano Bruno (finito al rogo nel 1600) ci è pervenuto il solo riassunto finale (ritrovato e pubblicato negli Archivi vaticani da monsignor Angelo Mercati nel 1942, poi ripubblicato e integrato con altra documentazione proveniente dall'Archivio del Sant'Uffizio da Luigi Firpo ne Il processo di Giordano Bruno, 1948) che gli inquisitori erano tenuti a stilare al termine del processo, con la terminale consegna dell'imputato al braccio secolare e l'ipocrita invito a che non gli venisse torto capello - come d'uso. Franco finì impiccato a Roma nel 1570 a causa dei suoi scritti. Una vicenda in cui sfortuna e vicende della politica e della religione storica si intrecciano. A Roma Franco si arrabattava come poteva, servendo le varie famiglie dei potenti. Si dedicava tra l'altro anche alle pasquinate, e alla diffusione di materiale infamatorio e esaltatorio, a seconda di chi lo pagava. Era finito anche in prigione, a causa dei Priapea con cui dileggiava in maniera oscena Paolo III Farnese, ma dopo una buona strigliata era stato rimesso in libertà. Ancora Carafa regnante, aveva raccolto un bel po' di sonetti scritti da lui ma anche di vari suoi amici, tutti di tono anti-carafiano. All'indomani della morte di Carafa il popolo romano era insorto e aveva bruciato tra l'altro il Palazzo dell'Inquisizione che proprio Carafa aveva fatto erigere. Solo che poi i capi della rivolta erano stati giustiziati dal successore di Carafa, un Medici, Giovanni Angelo che prese il nome di Pio IV, famiglia avversa ai Carafa ma che ristabilì l'ordine - provvedendo del resto a impiccare Carlo e Giovanni Carafa, il primo accusato di malversazioni il secondo per l'assassinio della moglie. I due erano tra i tanti nipotini di Carafa, che questi aveva beneficiato in maniera esagerata - Carlo Carafa era tra l'altro un ex soldato di ventura fatto improvvisamente cardinale e messo a capo della politica internazionale della Chiesa con risultati disastrosi. Il successore del Medici nel 1566 fu il pupillo del Carafa, Antonio Michele Ghislieri, che prese il nome di Pio V - e che sarà santizzato nel 1712. Con lui, ex grande inquisitore, la repressione tornò a estendersi. La casa di Franco fu perquisita, gli furono trovati i documenti compromettenti. Franco prima negò poi, sottoposto più volte a tortura, cercò di limitare i danni dando nomi di intellettuali morti da tempo oppure lontani e non perseguibili della furia inquisitoriale quali coautori di quelle rime. Si comportò meglio che poteva. Fu, come dicevamo, impiccato.

 

 



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