Federico II e la sua corte

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Federico II tentò politicamente e culturalmente di radicare il centro dell'impero occidentale in Italia. Trasferì la sua corte itinerante nel meridione italico, si impegnò in una serie di guerre per il controllo del centro e del nord Italia.
La sua azione politica e culturale fu in Italia, dopo secoli di appannamento, la prima coerente e fondata su un progetto dal respiro di lungo periodo, a parte le vicissitudini non lineari della politica della chiesa romana. Nato a Iesi [Ancona, Marche] nel 1194, fu re di Sicilia (1196), re di Germania (1212) e poi imperatore (1220). Il suo obiettivo culturale, parte del piano politico generale che intendeva realizzare, era di costituire attorno alla corte un centro culturale autonomo da quelli tradizionali di Bologna e Paris. A tal fine fondò tra l'altro l'università di Napoli e riordinò la Scuola medica di Salerno. Egli stesso compose opere letterarie: restano quattro componimenti poetici in volgare e un trattato di falconeria ("Arte di cacciare con uccelli", De arte venandi cum avibus).
Attorno a lui furono attratti una serie di intellettuali: filosofi, scienziati, ma anche amministratori e polemisti, e poeti. La corte di Federico II divenne un laboratorio culturale, aperto agli apporti provenienti da tutte le culture agenti allora attorno al mediterraneo: quella latina tradizionale, quella cortese e provenzale, quella ebraica ed araba, quella bizantina.
Siamo a un diverso livello rispetto alle attuazioni per esempio di Carlo Magno. La situazione anche politica è pił complessa, Federico non controlla saldamente i territori di cui rivendica il dominio, egli ha a che fare con una realtà molto pił frammentata, eterogenea, sono fortissime le spinte centrifughe e infatti la sua "scommessa politica" non sopravviverà alla sua morte (avvenuta a Castel Fiorentino [Lucera] nel 1250+). E tuttavia si tratta dell'ultimo tentativo "imperiale" tentato da una struttura che vuole essere unitaria, continentale, una specie di canto del cigno della feudalità nel momento in cui appaiono altre forze politiche ed economiche (i Comuni, la borghesia mercantile ecc.).
Nel laboratorio culturale della corte di Federico II si tentano vie nuove e autonome di produzione poetica. Una cosa che non riesce a concretizzarsi in prodotti veramente originali, ma che ha importanza nella storia dell'evoluzione delle lingue postlatine italiche. Si tratta di una produzione che usa modelli poetici e ideologici provenzali ma, come lingua, un siciliano affinato e rilimato tramite latinismi e francesismi. Pochi i testi rimasti (soprattutto di Stefano Protonotaro), per di pił giuntici tramite traduzioni di copisti toscani. Ma l'esperimento federiciano si pose come modello per poeti operanti proprio in toscana (Pisa, Lucca, Firenze) che innescarono una produzione in lingua locale, fondamentale per l'opera di Dante Alighieri. Alighieri, nell'"Eloquenza del volgare" chiamò "siciliana" tutta la produzione poetica anteriore a quella toscana ["per il fatto che molti poeti indigeni poetarono solennemente [...] tanto che tutto ciò che a loro tempo producevano i migliori tra gli italiani, appariva dapprima nella corte di tanti sovrani, e per il fatto che la corte aveva sede in Sicilia, è avvenuto che tutto ciò che si è prodotto di poetico prima di noi, fu detto siciliano" (Alighieri: De vulgari eloquentia, I, XII, 2-4)], da cui derivò la denominazione di "scuola siciliana" per la produzione poetica in volgare della corte federiciana. Una corte che si spostava con gli spostamenti del sovrano, avendo una serie di sedi favorite nell'Italia meridionale, ma con le caratteristiche di una corte sovraregionale, "internazionale"; una corte che si occupava di questioni politiche e amministrative e della giustizia, e dunque fatta di funzionari e amministratori: da questa classe provennero in gran parte i rimatori e gli intellettuali della corte. La magna curia di Federico fu in quel periodo il centro pił fervido di idee e varietà di interessi culturali in Italia.
Ruolo culturale di primo piano ebbe Pier della Vigna.
Accanto a Pier della Vigna operarono Michele Scoto che si era formato a Oxford, Paris, Bologna e a Toledo (il centro che trasmise all'occidente la cultura araba); Maestro Teodoro che conosceva l'arabo e il greco; pił tardi Stefano da Messina (= Stefano Protonotaro?) tradusse dal greco in latino due opere arabe: "Il libro delle rivoluzioni" (Liber rivolutionum) e "I fiori di astronomia" (Flores astronomiae), entrambi dedicati a Manfredi. Accanto a questi che ebbero un ruolo culturale di primo piano, è tutta una serie di intellettuali di medio e piccolo livello, che però testimoniano la diffusione della culturale e il tentativo federiciano di costruire dei veri e propri "quadri" di funzionari statali che trasformassero l'istituzione imperiale facendola divenire Stato (si pensi alle attività di un minore con Terrìsio da Atina ecc.).

 

All'interno del laboratorio federiciano ruolo poetico di primo piano ebbero Iacopo da Lentini (c.1210/c.1260), e Guido delle Colonne (c.1210/dopo il 1287). Alcuni componimenti, come detto, scrisse anche Federico II e ciò non è senza importanza quanto meno a significare la "dignità " che si voleva dare a questa produzione. Ma poetarono anche i figli di Federico, Manfredi e Enzo. Si dedicarono alla rimeria in volgare pure il suocero di Federico, Giovanni di Brienne, e Federico d'Antiochia. Poetarono dignitari di corte, e giovani appartenenti a nobili famiglie del regno come Iacopo Mostacci e Rinaldo d'Aquino che furono falconieri di Federico; Giacomino Pugliese , Iacopo d'Aquino . Tra i giuristi e i notai, oltre a Iacopo da Lentini c'era anche Pier della Vigna, il già ricordato Stefano Protonotaro , Guido e Odo delle Colonne.

A parte si possono inserire il gruppo dei giullari, il pił noto dei quali è Cielo d'Alcamo. Tra i pił tardi rimatori toscani: Folcacchiero Folcacchieri di Siena (di cui non sappiamo quasi nulla, e che ha lasciato una canzone d'amore, Tutto lo mondo vive sanza guerra), Paganino da Sarzana, Compagnetto da Prato, Arrigo Testa di Arezzo: se ne ricordano qui i nomi non tanto per la loro importanza come poeti in sé quanto soprattutto per la funzione di ponte che ebbero tra la produzione "siciliana" e quella successiva (stilnovismo e Alighieri).
Tra i settentrionali è il genovese Percivalle Doria, l'unico che abbia lasciato anche composizioni in provenzale, secondo la consuetudine dei poeti del nord-italia. Doria fu magistrato in Provenza e poi al servizio di re Manfredi. Nei suoi quattro componimenti poetici rimasti, due in provenzale e due in italiano, trapassa da un'imitazione trobadorica ai dettami della scuola federiciana.

Dei componimenti prodotti dall'ambiente federiciano, rimangono le copie manoscritte fatte da copisti toscani. Essi, se da una parte hanno permesso la sopravvivenza dei testi hanno operato una toscanizzazione della lingua usata dai rimatori federiciani. Fanno eccezione solo alcuni testi di re Enzo e di Stefano Protonotaro, conservati nella forma originaria dalla cinquecentesca "Arte del rimare" di Gian Maria Barbieri. La lingua originaria usata dai rimatori federiciani era un siciliano, depurato degli elementi pił vivacemente dialettali, modellato nel lessico e nella sintassi sul provenzale e sul latino cancelleresco. Lo stile presenta calchi di topoi trobadorici. Originale l'invenzione di immagini naturalistiche, l'uso di metafore scientifiche, di eleganti paragoni.
I rimatori federiciani si ricollegavano alla tradizione provenzale ma, coerenti con il loro orientamento aulico, rifiutarono alcuni tipi di componimento pił legati alla cronaca e al folclore musicale (il sirventese; l'alba e la pastorella). Al loro posto usarono la canzone e il sonetto. Il sonetto in particolare, inventato forse da Iacopo da Lentini, era caratterizzato da un andamento ragionativo e scolastico, da una tematica morale e filosofica. Solo nel XIV secolo si avranno gli sviluppi del sonetto nel comico e nel realistico. Calchi di situazioni popolareggianti non mancano: soprattutto in Cielo d'Alcamo, Rinaldo d'Aquino, Giacomino Pugliese. Non si tratta di voci esclusive; accanto a queste sono prove intellettuali e manieristiche proprie di una è lite culturale tendenzialmente aristocratica. Il senso complessivo della produzione federiciana non sta né nell'accostarsi al realismo quotidiano né nell'esclusivismo manieristico e narcisistico intellettuale. Nel momento in cui il trobadorismo settentrionale si piegava alla cronaca cortigiana, alle occasioni della vita quotidiana e della propaganda politica, la produzione federiciana intese collegarsi all'originaria concezione amorosa della prima poesia provenzale, rinnovandone in parte schemi e situazioni. Accanto al consueto rapporto feudale poeta-vassallo/donna-castellana si delineò una ricerca pił approfondita e articolata attorno alla natura e alla fenomenologia dell'amore: ciò tendenzialmente poneva in secondo piano la figura della castellana, interiorizzando in direzione psicologica e intellettualistica l'ispirazione amorosa. Una direzione che fu ulteriormente sviluppata dallo stilnovismo.
Dopo aver dominato il gusto poetico per un trentennio (a partire almeno dalla celebre canzone di Rinaldo d'Aquino "Giamai non mi conforto" che si riferisce alla crociata del 1227-28) la produzione federiciana ebbe termine con la battaglia di Benevento (1266) in cui morì Manfredi, e che segnò la fine della potenza sveva: con questa battaglia il centro culturale italico si spostò dalle regioni meridionali a quelle centrali: e soprattutto in Toscana, focolaio della vita comunale.

 

Contesto storico: il XIII secolo.



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