Quaderno 6. Jean-Marie Muller, Momenti e metodi dell’azione nonviolenta
"E’ essenziale che prima di decidere l’azione si abbia una conoscenza esatta della situazione in cui s’inserisce quell’ingiustizia che si vuole denunciare e combattere. Se i responsabili dell’azione dimostrassero di non essere sufficientemente a conoscenza dei fatti..."
Corso di educazione alla pace presso il liceo scientifico di Orte, anno scolastico 2004-2005
Materiali per la riflessione. 6
JEAN-MARIE MULLER MOMENTI E METODI DELL’AZIONE NONVIOLENTA
Testo estratto da "La nonviolenza è in cammino"
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Premessa
Il testo seguente è estratto dai nn. 758-759 del 13-14 dicembre 2003 del notiziario telematico quotidiano "La nonviolenza è in cammino", edito dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo. Esso riproduce la prima parte del testo di un opuscolo edito dal Movimento Nonviolento che a sua volta riproduceva anastaticamente un capitolo di una più ampia opera. L’opuscolo è: Jean-Marie Muller, Momenti e metodi dell’azione nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento, s. i. l. 1981; il libro è Jean-Marie Muller, Strategia dell’azione nonviolenta, Marsilio, Venezia-Padova 1975 (il capitolo è il settimo, alle pp. 73-99). Noi riproduciamo qui il testo di Muller senza le note dell’autore e senza la presentazione del traduttore Matteo Soccio (uno dei maggiori studiosi ed amici della nonviolenza in Italia), rinviando per la lettura del testo integrale all’acquisto dell’opuscolo, disponibile presso il Movimento Nonviolento, e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org Jean-Marie Muller è nato nel 1939 a Vesoul in Francia, docente, ricercatore, è tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento e fondatore del MAN (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell’azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L’esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004. Per contattare il Centro di ricerca per la pace di Viterbo: recapito postale: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo; recapito telefonico: 0761353532; recapito di posta elettronica: nbawac@tin.it Il responsabile del centro, e direttore responsabile del notiziario da cui è estratto il testo di seguito presentato, è il coordinatore del corso di educazione alla pace che si svolge presso il liceo scientifico di Orte.
Orte, 20 dicembre 2004
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JEAN-MARIE MULLER: MOMENTI E METODI DELL’AZIONE NONVIOLENTA
In questo capitolo vorremmo precisare quali sono i diversi momenti di una campagna di azione nonviolenta tipo, e quali sono le modalita’ di ognuno di questi momenti. Anche se non abbiamo intenzione di dare delle ricette che basterebbe applicare alla lettera in ogni situazione per raggiungere il successo, non ci sembra inutile riunire gli insegnamenti tratti dalle azioni compiute in passato e classificarli secondo un ordine che risponde a una certa logica. Non si rende sterile l’immaginazione se le offriamo uno schema in cui essa, come ci ha dimostrato l’esperienza, abbia le maggiori possibilita’ di esercitarsi utilmente. Se anche queste indicazioni non ci garantissero il successo dell’azione, esse almeno dovrebbero evitarci numerosi errori che ci assicurerebbero il fallimento.
1. Analisi della situazione E’ essenziale che prima di decidere l’azione si abbia una conoscenza esatta della situazione in cui s’inserisce quell’ingiustizia che si vuole denunciare e combattere. Se i responsabili dell’azione dimostrassero di non essere sufficientemente a conoscenza dei fatti, cio’ discrediterebbe gravemente il movimento. Inoltre, e’ molto importante esprimere sui fatti un giudizio razionale e coerente che miri alla maggiore obiettivita’ possibile. Sappiamo quanto grande sia la tentazione d’ingigantire i fatti e di esagerarne la gravita’, nella presentazione che ne viene data, fino al punto di rendere ridicola la posizione dell’avversario. Credere pero’ che questo stratagemma possa avere una qualche efficacia e’ un’illusione. Al contrario, sara’ allora facile all’avversario far valere, servendosi di argomenti convincenti, l’aspetto esagerato delle accuse mosse contro di lui, e dare cosi’ l’apparenza di potersi giustificare totalmente. Invece la conoscenza rigorosa dei fatti e la loro esatta presentazione costituiscono una carta vincente per la posizione dei responsabili del movimento. La possibilita’ di giustificare ogni volta, con prove alla mano, le affermazioni addotte e’ un elemento di prim’ordine nel rapporto di forze che si va creando tra gli avversari. Si tratta percio’ di fare un’inchiesta e di preparare un dossier sui fatti per essere sicuri della fondatezza di tutte le informazioni ricevute sui motivi delle lamentele sollevate e tener conto solo di quelle che hanno potuto essere verificate. In questo lavoro, non e’ sufficiente limitarsi ai fatti: e’ importante capirli al fine di sapere come e perche’ l’ingiustizia si e’ manifestata e si e’ mantenuta. Conviene in particolare conoscere quali sono le forze sociali, politiche ed economiche implicate nella situazione, quali sono gli atteggiamenti pratici delle parti in gioco e quali le giustificazioni teoriche che ne vengono date. E’ importante analizzare la struttura di potere che predomina nelle relazioni tra le diverse parti allo scopo di individuare chi detiene il potere di decisione. Inoltre, e’ opportuno sapere cosa dice la legge a proposito delle controversie che oppongono le parti in causa. A questo proposito non si potra’ fare a meno di consultare un giurista competente. Quest’analisi deve permetterci di fare con cognizione di causa una scelta politica con cui si potra’ decidere quali saranno i nostri alleati e quali i nostri avversari nel conflitto in corso.
2. Scelta dell’obiettivo In base all’analisi della situazione, si dovra’ scegliere l’obiettivo da raggiungere attraverso l’azione. La scelta dell’obiettivo e’ essenziale poiche’ da essa soltanto puo’ dipendere la riuscita o l’insuccesso del movimento. Converra’ scegliere un obiettivo preciso, limitato e possibile. Nella scelta di questo obiettivo bisognera’ tenere conto dei diritti dell’avversario e fare in modo - per quanto e’ possibile - che egli non debba perdere la faccia nell’accettare le rivendicazioni che gli sono state fatte. L’obiettivo deve essere determinato in modo tale da iscriversi in una prospettiva futura che permetta se non proprio una reale riconciliazione - questa, secondo ogni verosimiglianza, non potra’ raggiungersi che piu’ tardi -, per lo meno una coesistenza pacifica tra le due parti. L’obiettivo deve apparire allora come un contributo positivo per l’avvenire di tutta la comunita’. Le rivendicazioni del movimento devono essere realistiche e suscettibili di essere accettate dall’avversario. Conviene percio’ distinguere cio’ che sarebbe auspicabile da cio’ che e’ possibile. Il successo di un’azione e’ raggiunto solo quando si sia ottenuto cio’ che si e’ rivendicato; chiedere l’impossibile significa inevitabilmente andare incontro al fallimento. Una sola campagna di azioni non bastera’ a sopprimere un’ingiustizia profondamente radicata nelle strutture e nelle mentalita’. Saranno necessarie in seguito altre campagne con obiettivi via via piu’ ambiziosi. E’ importante, nel momento iniziale, che la campagna d’azione non si trovi ridotta a una campagna di proteste a causa di un obiettivo sproporzionato rispetto ai mezzi di cui dispone il movimento. E’ essenziale per questo movimento vincere il confronto, soprattutto per poter dare piena coscienza della loro forza e piena fiducia a quelli che fino a quel momento sono stati le vittime rassegnate dell’ingiustizia. E’ opportuno quindi stabilire cio’ che deve essere preteso in modo che non si debba fare alcuna concessione nel corso dei futuri negoziati. La strategia della nonviolenza non e’ una strategia di mutue concessioni. Il piu’ delle volte, si pretende piu’ di quanto si vuole, per essere certi di raggiungere cio’ che si vuole. In questo caso invece ci si sforza di fissare sin dall’inizio cio’ che deve e puo’ essere richiesto, e si resta fermi su questa posizione per tutta la durata della lotta, senza fare concessioni. Nella lotta nonviolenta, sottolinea Gandhi, "il minimo e’ anche il massimo, e siccome e’ un minimo irriducibile, non si puo’ parlare di ritirata. Il solo movimento possibile e’ un avanzamento". Qui pertanto, non si tratta di esigere l’impossibile per ottenere il possibile ma si tratta di esigere il possibile e di attenersi ad esso senza mai transigere, a meno che non si debbano riconoscere e soddisfare certe eventuali rivendicazioni dell’avversario che, durante il conflitto, fossero comprese come giuste.
3. Primi negoziati Conviene entrare al piu’ presto possibile in contatto diretto con l’avversario, prima di portare la controversia sulla pubblica piazza, allo scopo di tentare tutto cio’ che e’ possibile per risolvere il conflitto senza dover ricorrere alla prova di forza. Si tratta allora di far conoscere ai rappresentanti della parte avversa le conclusioni a cui l’analisi della situazione ha condotto e di far valere le rivendicazioni del movimento precisando l’obiettivo che questo ha deciso di raggiungere. Sin da questo momento e’ importante dar prova della piu’ rigorosa cortesia nei confronti dell’avversario. In particolare e’ opportuno evitare di far pesare sui propri interlocutori minacce destinate a "incutere paura". Conviene invece sforzarsi di far capire che il cambiamento della situazione cosi’ com’e’ ricercato e’, tutto sommato, meno minaccioso per l’avversario del mantenimento dello status quo. Il clima che si istaurera’ durante questi primi negoziati determinera’ in buona parte il clima di tutto il conflitto. E’ percio’ essenziale impegnarsi a crearlo in modo tale che disponga l’avversario non ad inasprire gli antagonismi, ma a ridurli. Questi primi negoziati devono permettere alle due parti di conoscersi meglio. Conviene a questo proposito osservare attentamente le reazioni dei propri interlocutori e gli argomenti che adducono in risposta alle accuse mosse. Nel momento stesso in cui si da’ prova della piu’ stretta cortesia e’ importante anche dare prova della massima fermezza e della massima determinazione. Le manifestazioni di "comprensione", le assicurazioni "di studiare seriamente il dossier" e magari le promesse di fare "tutto cio’ che e’ possibile", che possono essere formulate dall’avversario nel corso di questi negoziati e’ opportuno siano accolte senza processi alle intenzioni. Nessuna necessita’ strategica obbliga a sospettare di malafede queste manifestazioni di "buona volonta’". La fermezza e il rifiuto di transigere non guadagnano affatto in forza puntando sulla sistematica diffidenza nei confronti dell’avversario. Ma deve essere chiaro che il movimento non si accontenta in nessun momento di promesse, ma che aspetta invece delle decisioni. Esso accettera’ di sospendere la sua azione solo quando sara’ raggiunto un accordo definitivo che metta fine al conflitto. Cosi’, nel corso dei negoziati tra i neri e i bianchi, durante il boicottaggio degli autobus di Montgomery, "alcuni membri del comitato bianco ci suggerirono di ritornare a servirci degli autobus e di rimandare la discussione per un possibile accordo a dopo le feste natalizie, assicurando che la comunita’ avrebbe accolto con maggior simpatia le nostre richieste, se la protesta fosse stata intanto sospesa. La nostra risposta fu ancora una volta negativa. Tutti i nostri sforzi, infatti, sarebbero stati vani, se avessimo sospeso la protesta in seguito ad una vaga promessa di futuri accordi" (M. L. King). E’ raro che un accordo possa concludersi gia’ con i primi negoziati. Questi, quando si trovano ad un punto morto, devono essere sospesi ma non rotti definitivamente, perche’ e’ proprio fine dell’azione diretta la ripresa dei negoziati. Conviene pertanto, nei limiti del possibile, mantenere continui contatti con l’avversario per tutta la durata dei conflitto. Secondo un principio fondamentale della strategia, il tempo dei negoziati deve essere pure il tempo della preparazione alla prova di forza. I negoziati devono essere leali, e d’altronde e’ interesse del movimento che essi riescano. Ma si tratta anche di prevedere l’avvenire e di prepararsi.
4. Appello all’opinione pubblica
In seguito al fallimento dei primi negoziati, bisognera’ sforzarsi di fare
esplodere l’ingiustizia di fronte all’opinione pubblica con tutti i mezzi di
informazione di cui puo’ disporre il movimento. Si tratta di ricercare il
massimo di "pubblicita’" nel senso tecnico della parola, e cioe’ di
raggiungere il pubblico per fargli conoscere le ragioni e gli obiettivi dei
movimento. E’ molto importante mantenere l’iniziativa dell’informazione e di
vigilare affinche’ il senso dell’azione non venga ne’ deformato ne’
falsificato. Certo la pubblicita’ nasconde tranelli da cui bisognera’
guardarsi, ma non per questo essa, in quanto strumento di comunicazione con
il pubblico, e’ meno indispensabile. Facciamo notare che si tratta di
mettere l’opinione pubblica di fronte alle proprie responsabilita’, ma non
si tratta di colpevolizzare. Si tratta di farle prendere coscienza
dell’ingiustizia e non invece di attribuirle cattiva coscienza di fronte ad
essa. La cattiva coscienza paralizza piu’ di quanto non mobiliti.
Bisognera’ cercare di creare un "fatto di cronaca" e redigere a tal fine
comunicati nei quali verranno esposte le ragioni e gli obiettivi dei
movimento. Si trattera’ quindi di informare i partiti, i movimenti, le
organizzazioni e le personalita’ suscettibili di dare il loro sostegno
all’azione progettata. Si potra’ organizzare una distribuzione di volantini
e potra’ essere molto efficace "far parlare i muri" per mezzo di scritte e
di manifesti che espongono in poche parole i dati della situazione e le
soluzioni previste per porvi rimedio.
Sara’ opportuno, per dare forza a questa affermazione, organizzare delle
manifestazioni che sono un confronto diretto con il pubblico, allo scopo di
informarlo e di farlo reagire di fronte agli argomenti sostenuti dai
manifestanti. Queste manifestazioni dovrebbero, inoltre, permettere a quelli
che sono disposti a partecipare all’azione, di contarsi, di conoscersi e di
organizzarsi. E’ essenziale che quelli che sono vittime dirette
dell’ingiustizia denunciata possano partecipare a queste manifestazioni.
Questa dovrebbe essere per loro l’occasione di prendere coscienza della
propria forza, di vincere la paura e di sviluppare la volonta’ di
resistenza.
Questo confronto del pubblico con le posizioni sostenute dal movimento deve
permettere di correggere cio’ che deve essere corretto e di individuare
meglio gli argomenti sui quali e’ piu’ opportuno insistere. Percio’ e’
importante osservare attentamente e registrare le reazioni degli spettatori.
Queste sono delle preziose indicazioni che devono permettere di capire
meglio i rapporti di forza esistenti tra il movimento e la popolazione, e di
orientare meglio l’evoluzione del conflitto.
Nel corso di tutte queste manifestazioni pubbliche, la scelta degli slogan
deve essere compiuta anticipatamente dai responsabili del movimento. Gli
slogan non devono essere numerosi. I partecipanti devono sottomettersi
rigorosamente alla scelta che sara’ stata effettuata e in nessun caso
dovranno introdurre nella manifestazione altri slogan di loro scelta. Nella
scelta degli slogan e’ un’esigenza strategica quella di cercare la parola
giusta che nomini e qualifichi le situazioni che si cerca di correggere.
L’impatto della parola deriva dalla sua giustezza e non dalla sua violenza.
A questo proposito Danilo Dolci rievoca un fatto tanto minuscolo quanto
significativo. Con un gruppo eterogeneo di giovani, egli aveva promosso una
marcia da Milano a Roma, per manifestare soprattutto la loro opposizione
alla guerra nel Vietnam. Nel raccontare questa marcia, Dolci scrive:
"Poiche’ alcuni gruppetti di ragazzi a tratti scandiscono "Johnson torna
alle tue vacche" molti contadini dei borghi che attraversiamo, soprattutto
in Emilia, non sembrano affatto persuasi; sono come offesi: "le vacche non
sono forse importanti?", mormorano. I ragazzi cominciano a comprendere
chilometro dopo chilometro la distinzione tra sfogo rabbioso e capacita’ di
penetrare nelle popolazioni affinche’ ciascuno si muova ad assumere una
posizione cosciente ed esplicita di fronte alla guerra". Cosi’, quando
giungeranno a Roma, gli slogan scelti si riveleranno piu’ incisivi e piu’
efficaci.
Conviene sottolineare l’importanza, nel corso di queste manifestazioni
pubbliche, dell’atteggiamento esteriore dei manifestanti che e’ un mezzo
essenziale di espressione e di comunicazione. "Al di la’ delle parole
scritte e pronunciate, il corpo umano e’ impiegato per testimoniare in modo
drammatico i fatti e le verita’ legati al problema in questione" (Hildegard
Gos-Mayr). Soltanto un atteggiamento calmo e disciplinato da parte dei
manifestanti potra’ dare alla manifestazione un carattere di nobilta’ e di
dignita’ che le dara’ una maggiore forza. Al contrario, un atteggiamento
rilassato e disordinato dei manifestanti non potrebbe non incidere
negativamente sugli spettatori.
Queste prime manifestazioni pubbliche devono essere innanzitutto strumenti
di persuasione capaci di far valere la giustezza della causa sostenuta, ma
esse costituiscono gia’ dei mezzi di pressione che preparano la messa in
opera dei mezzi di costrizione.
Senza pretendere di essere esaurienti, citiamo alcuni metodi di
manifestazione pubblica:
Comunicati. La presa di posizione pubblica di diverse personalita’
attraverso un comunicato rilasciato alla stampa puo’ fornire una preziosa
garanzia a questa o a quella rivendicazione. Tuttavia un tale metodo e’
efficace solo se il testo dei comunicato e’ sufficientemente forte e preciso
in modo che il fatto di sottoscriverlo sia gia’ di per se stesso un impegno.
Purtroppo cio’ non e’ il caso della maggior parte dei comunicati a cui siamo
abituati, soprattutto in Francia. Troppi intellettuali e artisti "di
sinistra" - in pratica sempre gli stessi - si accontentano di firmare
regolarmente comunicati che protestano per principio contro questo o
quell’attentato alla democrazia, senza che cio’ abbia in genere la minima
incidenza sul fatto in questione. Precisiamo tuttavia che non si deve
rimproverare a questa elite di fare questo, ma le si deve rimproverare di
far soltanto questo.
Petizioni. Promuovere una petizione significa raccogliere il maggior
numero di firme in fondo a un testo che denunci una certa ingiustizia e
richieda una certa soluzione appropriata. Questo testo verra’
successivamente spedito, o consegnato direttamente da una delegazione, a
quelli che hanno il potere di decidere in merito al problema posto. Questa
procedura puo’ rivelarsi efficace nel caso in cui sia possibile raccogliere
un numero rilevante di firme. Tuttavia la facilita’ con cui si firma un
testo rischia di ridurre la portata di una tale iniziativa.
Facciamo notare a questo punto che le due prime azioni politiche di Gandhi
furono appunto la redazione e l’invio di due petizioni. Infatti, nel 1894
quando Gandhi, su proposta dei compatrioti residenti nel Sud-Africa,
accetto’ di rinviare il suo ritorno in India per condurre sul posto la lotta
contro il razzismo che gravava sulla comunita’ indiana, la prima decisione
che egli prende e’ di redigere una petizione, rivolta all’Assemblea
legislativa del Natal, per chiedere di respingere il progetto di legge che
privava gli indiani del diritto di voto. "I giornali - ricorda Gandhi nella
sua autobiografia - la riportarono con commenti favorevoli, impressiono’
anche l’assemblea, fu discussa alla Camera. (...) Pero’ la legge fu
approvata". Questa prima petizione fu dunque un insuccesso. Ma essa permise
agli indiani, fino allora rassegnati e passivi, di mobilitarsi in difesa dei
loro diritti. "Questa petizione - scrive Gandhi - fu la prima ad essere mai
stata spedita dagli Indiani ai legislatori sudafricani. Era il primo
tentativo da parte degli indiani di usare una tale procedura e un’ondata di
entusiasmo attraverso’ tutta la comunita’".
Allora Gandhi non si scoraggio’ e decise di far giungere al governo inglese
"una petizione fiume". Bisogna tuttavia sottolineare che Gandhi decise "di
non accettare una sola firma se il firmatario non avesse prima capito a
pieno il significato esatto della petizione". In quindici giorni furono
raccolte diecimila firme: un successo considerevole. La petizione fu spedita
a Lord Ripon, allora segretario di Stato alle Colonie. Inoltre, "ne erano
state stampate un migliaio di copie per farle circolare e per distribuirle;
era la prima volta che si informava la popolazione indiana di quali fossero
le sue condizioni nel Natal. Inviai copie a tutti i pubblicisti di mia
conoscenza. "The Times of India", in un articolo di fondo sulla petizione,
difendeva a spada tratta le richieste indiane. Furono inviate copie anche ai
periodici e pubblicisti di diversi partiti in Inghilterra: il "Times" di
Londra si dichiaro’ favorevole alle nostre rivendicazioni e cominciammo a
sperare che alla legge fosse posto il veto". Infatti il governo di Londra,
impressionato dalla campagna di Gandhi, oppose il veto al progetto di legge
ritenendo che esso stabiliva una discriminazione razziale nei confronti di
una minoranza dell’Impero. Gandhi otteneva cosi’ il suo primo successo.
Tuttavia questo non fu che parziale, perche’, alla fine, i bianchi del Natal
seppero aggirare l’ostacolo che Londra aveva messo sulla loro strada: essi
formularono la loro legge in termini che non potevano piu’ essere
qualificati come razzisti. Questo progetto di legge, cosi’ emendato, ma che
portava agli stessi risultati pratici, fu approvato e votato. Gandhi doveva
riprendere la lotta ma era sicuro, questa volta, di poter contare sulla
determinazione dei suoi compatrioti che avevano preso coscienza della loro
forza e vinto la loro paura.
Sfilata. Si parla di sfilata quando i manifestanti formano un corteo e
percorrono a piedi la citta’ da un punto all’altro. Cartelli e slogans
informano gli spettatori sulle ragioni obiettive della manifestazione. La
sfilata e’ il metodo piu’ classico della manifestazione pubblica. Cosi’,
quando viene annunciato che il tal partito, il tal sindacato o il tale
movimento invita la popolazione a partecipare ad una manifestazione, si
tratta generalmente di una sfilata.
Facciamo solo presente che, dal punto di vista della strategia della
nonviolenza, l’organizzazione di una sfilata deve soddisfare le esigenze
caratteristiche dell’azione nonviolenta. Si puo’ ragionevolmente pensare che
queste esigenze non saranno soddisfatte se non sara’ in precedenza deciso
che debbano esserlo, e se non vengano prese precauzioni particolari perche’
lo siano effettivamente. Pensiamo in particolare alla scelta degli slogan e
all’atteggiamento dei manifestanti nei confronti delle forze di polizia.
Marcia. Si parlera’ di marcia quando i manifestanti percorrono a piedi
lunghe distanze da una citta’ all’altra attraverso uno o piu’ paesi. Il fine
e’ di sensibilizzare la popolazione delle regioni attraversate
sull’ingiustizia che si vuole denunciare. Cartelli e striscioni con qualche
semplice scritta e volantini che diano maggiori spiegazioni devono
permettere agli spettatori di essere informati sulle ragioni e sugli
obiettivi della marcia. In ciascuna citta’-tappa si possono organizzare
delle riunioni pubbliche per informare gli abitanti e per provocare un
dibattito pubblico sul problema in questione. Sara’ utile stabilire dei
contatti con le personalita’ e i movimenti capaci di prendere posizione in
favore dei manifestanti e di promuovere a loro volta delle manifestazioni.
Delegazioni possono chiedere di essere ricevute dalle autorita’ locali per
far valere nei loro confronti il punto di vista dei manifestanti.
La marcia puo’ avere il fine preciso di richiamare l’attenzione dei pubblico
su un’azione che avverra’ al termine di essa. Un esempio particolare e’ dato
dalla famosa "marcia del sale" intrapresa da Gandhi allo scopo di preparare
il popolo indiano a violare la legge con la quale il governo faceva pagare
ad ogni indiano una forte tassa per ogni acquisto di sale. Dopo aver
percorso a piedi 380 chilometri attraverso l’India prendendo la parola in
ogni villaggio attraversato per invitare la popolazione alla resistenza
contro la legge ingiusta, giunse in riva al mare e compi’ il gesto simbolico
di raccogliere un po’ di sale. Da quel momento Gandhi diventava ribelle
dell’impero britannico. Per effetto della marcia, tutta l’India aveva gli
occhi puntati su di lui ed era pronta a ribellarsi.
Nel 1971 venne promossa, dal leader nonviolento spagnolo Gonzalo Arias e da
numerosi suoi compatrioti, una "marcia sul carcere", da Ginevra a Madrid,
allo scopo di esprimere la propria solidarieta’ con l’obiettore Jose’ Beunza
detenuto allora a Valenzia, e di far pressione sul governo perche’ venisse
riconosciuto uno statuto legale a lui e agli altri obiettori. La marcia, a
cui partecipavano pure manifestanti di diversi paesi, dovette interrompersi
al posto di frontiera di Bourg-Madame dove gli spagnoli furono arrestati e
gli altri marciatori respinti verso la Francia. Ma la stampa riferi’
abbondantemente dell’avvenimento e il fine dell’azione, che era innanzitutto
quello di informare l’opinione pubblica sulla situazione degli obiettori
spagnoli, fu raggiunto.
Sciopero della fame limitato. Quando lo sciopero della fame si iscrive
nella strategia dell’azione nonviolenta ripugna chiamarlo con il suo nome:
si preferisce allora parlare di digiuno. Ma pensiamo che cio’ sia un errore.
Ci sembra importante distinguere il digiuno intrapreso per motivi di ordine
religioso o terapeutico dallo sciopero della fame intrapreso per motivi di
ordine politico. Di conseguenza, il digiuno e’ un’azione privata, mentre lo
sciopero della fame e’ un’azione pubblica.
Lo sciopero della fame limitato a qualche giorno, tra i 3 e i 20 giorni,
mira a denunciare pubblicamente un’ingiustizia e ad informare l’opinione
pubblica su di essa. Si tratta di un’azione di protesta che di per se stessa
non potra’ generalmente pretendere di sopprimere l’ingiustizia. Ma essa puo’
avere un effetto considerevole sull’opinione pubblica e cio’ in particolare
se la personalita’ di chi la compie e’ importante. Facciamo pero’ notare che
il moltiplicarsi sconsiderato degli scioperi della fame rischia di stancare
l’opinione pubblica e di screditare questo mezzo. Percio’ e’ opportuno
ricorrervi con molta cautela.
Al termine di queste manifestazioni, converra’ ripresentare all’avversario
delle proposte precise in vista di un regolamento negoziato dei conflitto.
E’ possibile che la pressione esercitata dall’opinione pubblica sia
abbastanza forte da costringere l’avversario a non portare avanti uno
scontro di cui puo’ temere che torni a suo svantaggio. In un regime
democratico (certo, tutto e’ relativo, e si potrebbe avanzare che nessun
regime e’ veramente democratico, ma diversi confronti che si impongono
permettono di dire che certi lo sono e certi non lo sono affatto), la "forza
dell’opinione pubblica" e’ reale e puo’ far maturare certi problemi fino a
che le soluzioni desiderabili diventino possibili. Ci sembra pero’ che molti
liberali, a cui ripugna per temperamento il ricorso all’azione diretta,
tendano a sopravvalutare questa forza. Quando si tratta di opporsi a una
decisione del governo, non basta il piu’ delle volte che l’opinione pubblica
si esprima perche’ la pressione esercitata su di esso sia abbastanza forte
per costringerlo a cedere. Sara’ allora necessario ricorrere all’azione
diretta, o almeno lasciar capire chiaramente che si e’ decisi a farlo.
5. Invio di un ultimatum Di fronte al fallimento degli ultimi tentativi di negoziato, diventa necessario fissare all’avversario un ultimo termine al di la’ del quale saranno date disposizioni di ricorrere all’azione diretta. L’ultimatum, che ricorda le ragioni e gli obiettivi dei movimento, i tentativi precedenti di negoziare e i loro fallimenti, puo’ essere considerato come l’ultimo passo in vista di un accordo negoziato. Effettivamente, la prova di forza incomincia con l’ultimatum. Questo in effetti e’ piu’ un mezzo di costrizione che un mezzo di persuasione. E’ d’altronde verosimile che l’avversario si rifiuti di cedere di fronte a cio’ che bisogna pur chiamare una minaccia e che egli considerera’ un "inammissibile ricatto". Egli rifiutera’ l’ultimatum sostenendo di non temere la prova di forza. Inoltre, l’ultimatum e’ un appello all’opinione pubblica per invitarla a mobilitarsi in vista dell’azione. Conviene percio’ rendere pubblico il testo dell’ultimatum e, a questo scopo, farlo pervenire alla stampa, ai movimenti e alle personalita’ suscettibili di solidarizzare con quelli che sono decisi ad agire. Nel racconto della lotta condotta nel Sudafrica, Gandhi spiega a lungo in quali condizioni, nel 1908, egli spedi’ un ultimatum al generale Smuts. L’azione che stava conducendo allora era diretta contro l’Atto asiatico, detto anche l’"Atto Nero", che rendeva obbligatorio a tutti gli indiani di iscriversi nei registri del governo. Questa legge stabiliva che "quasi in ogni momento o luogo, gli indiani potevano essere invitati ad esibire il certificato di registrazione; gli esperti di polizia potevano entrare nelle case degli Indiani per esaminare i permessi". Gandhi giudico’ questa legge contraria alla dignita’ degli indiani e invito’ i suoi compatrioti a combatterla fino a che non fosse abolita. Dopo una prima prova di forza, durante la quale gli indiani si erano rifiutati di farsi registrare, Gandhi accetto’ il compromesso un po’ paradossale propostogli dal generale Smuts a nome del governo. Questo permetteva di abolire l’Atto asiatico se gli indiani si fossero impegnati a iscriversi volontariamente. Gandhi ci tenne a iscriversi per primo e chiese ai suoi compatrioti di fare altrettanto in conformita’ agli impegni presi. Gandhi aveva pero’ commesso l’errore di accettare un accordo sospendendo l’azione diretta davanti ad una semplice promessa: infatti il generale Smuts non mantenne il suo impegno e rifiuto’ ostinatamente di abolire l’"Atto Nero". A quel punto Gandhi si trovo’ costretto a riprendere l’offensiva rilanciando l’azione diretta. Egli si decise allora a spedire un ultimatum al generale Smuts. "Infine - riferisce nel suo racconto - fu spedito un ultimatum al governo. Non adoperammo la parola "ultimatum", ma fu cosi’ che il generale Smuts chiamo’ la lettera che gli spedimmo in cui veniva espressa la determinazione della comunita’". Il testo dell’ultimatum ricordava l’accordo raggiunto precedentemente e precisava: "La comunita’ ha spedito numerosi comunicati al generale Smuts e preso tutte le iniziative legali possibili per ottenere giustizia, ma esse finora non hanno portato ad alcun risultato. Siamo spiacenti di dover affermare che se l’Atto asiatico non verra’ abolito in conformita’ all’accordo, e se la decisione del governo a riguardo non sara’ comunicata agli indiani entro una data stabilita (la data fu fissata per il 16 agosto), i certificati ritirati dagli indiani verranno bruciati e gli stessi ne sopporteranno le conseguenze umilmente ma con fierezza". Gandhi e i suoi esitarono molto prima di spedire questo ultimatum: "Ci furono molte discussioni - egli racconta - quando fu spedito l’ultimatum. La richiesta di una risposta entro un termine stabilito non sarebbe stata considerata insolente? Non avrebbero avuto l’effetto di irrigidire il governo e di portarlo a respingere i nostri termini che altrimenti avrebbe potuto accettare?". Ma alla fine tutti gli indiani della comunita’ africana decisero di spedire l’ultimatum: "Dovemmo - continua Gandhi - correre il rischio di essere accusati di mancanza di cortesia, e pure quello di vedere il governo rifiutare, per risentimento, cio’ che altrimenti avrebbe potuto accordare. (...) Dovemmo adottare un atteggiamento diretto senza esitazione. (...) Il linguaggio dell’ultimatum si inseriva in una progressione naturale e appropriata". Per il giorno in cui doveva scadere l’ultimatum, Gandhi organizzo’ una manifestazione per bruciare i certificati nel caso in cui il governo si fosse ostinato a rinnegare l’impegno che aveva assunto. Smuts respinse l’ultimatum con disprezzo: "Quelli - egli disse allora - che hanno rivolto una simile minaccia al governo non si rendono conto della sua potenza. Mi dispiace che qualche agitatore stia tentando di eccitare dei poveri indiani, che si troveranno sul lastrico se soccomberanno ai loro incitamenti". Quando la manifestazione stava per incominciare, Gandhi ricevette un telegramma nel quale era detto che "il governo si doleva della decisione della comunita’ indiana, ma non poteva cambiare la propria linea di condotta". La manifestazione incomincio’ e Gandhi insistette sulle gravi conseguenze che potevano derivare dal fatto di bruciare il proprio certificato e chiese ai presenti di calcolare i rischi che stavano per assumersi. Ma i partecipanti furono unanimi nel decidere di passare ai fatti e piu’ di duemila certificati furono bruciati. Infine, dopo molte altre peripezie, l’"Atto Nero" venne annullato.
6. Azioni dirette Divenuta inevitabile la prova di forza, in seguito al fallimento dei mezzi di persuasione, e’ necessario mettere in opera dei mezzi di costrizione. Sottolineiamo tuttavia che e’ opportuno proseguire lo sforzo di persuasione, in modo particolare nei confronti dell’opinione pubblica. Comunque, a questo stadio del conflitto, non si tratta piu’ soltanto di invitare l’opinione pubblica a esprimersi: bisogna incitarla ad agire. Percio’ le manifestazioni pubbliche non devono essere interrotte. Si puo’ prevedere che, quando il conflitto si inasprira’, queste manifestazioni vengano proibite. Sara’ percio’ compito dei responsabili dei movimento calcolare la capacita’ dei manifestanti di far fronte alla repressione delle forze di polizia attenendosi ai principi e ai metodi della nonviolenza. Potra’ verificarsi il caso in cui sia necessario sospendere una manifestazione essendoci probabilita’ che essa non si svolga senza offrire pretesti per gravi disordini, il che arrecherebbe discredito al movimento. Certi ripiegamenti strategici si rivelano necessari allo scopo di permettere una migliore preparazione della successiva offensiva. Sara’ percio’ opportuno rinforzare l’organizzazione e il servizio d’ordine delle manifestazioni e forse limitare volontariamente il numero dei manifestanti, per essere in grado di sfidare il governo; infatti non si possono sospendere tutte le manifestazioni. Una simile misura sarebbe una prova di debolezza e rischierebbe di pregiudicare il morale di coloro che sono mobilitati per la lotta e di spezzare il dinamismo del movimento. Nel 1962, durante la campagna condotta ad Albany, una disposizione federale proibi’ una manifestazione di massa indetta da King. Questi, dopo molte esitazioni, decise finalmente, contro il parere di numerosi leader, di disdire la manifestazione prevista perche’ non voleva violare un’interdizione del Governo federale che lo aveva sostenuto fino ad allora contro le autorita’ locali quando queste non rispettavano i testi costituzionali. Ma "successivamente - ci ricorda sua moglie Coretta - egli ebbe l’impressione che fu questa decisione ad aver spezzato lo slancio del movimento di Albany, e se ne dispiacque".
a. Azioni dirette di non-cooperazione
E’ importante che i gesti di non-cooperazione proposti dal movimento siano
alla portata di tutti. Chiedere dei gesti di rottura le cui conseguenze
siano molto gravi significa riservare l’azione ad un’elite e costringere gli
altri a tenersi ai margini, nella veste di semplici spettatori; mentre e’
essenziale che il maggior numero di persone possa partecipare.
Facciamo notare che molte di queste azioni di non-cooperazione, cosi’ come
abbiamo rilevato per le semplici manifestazioni, possono essere o no azioni
di disobbedienza civile secondo la legislazione in vigore o le decisioni
prese dalle autorita’ governative durante il conflitto.
Fra le azioni di non-cooperazione che possono essere adottate nel caso di
una campagna di azione diretta, ricordiamo in particolare:
L’hartal. Un hartal e’ un giorno di sciopero generale durante il quale
viene chiesto a tutta la popolazione di disertare i luoghi di lavoro, le
strade e i locali pubblici e di restare a casa. In quel giorno, tutte le
attivita’ devono cessare, le citta’ e i paesi devono sembrare morti. Un
hartal puo’ essere deciso allo scopo di inaugurare la campagna di azione
diretta. Esso esprime la determinazione della popolazione a condurre la
lotta fino a che i diritti non verranno riconosciuti e rispettati; manifesta
la sua unita’ e la sua capacita’ di autodisciplina. Il successo di un hartal
implica che la popolazione abbia forte coscienza della portata del conflitto
in corso e abbia gia’ dato segni concreti della sua determinazione. Gandhi
fece ricorso a questo metodo in diverse occasioni. Fu proprio con un hartal
che egli inauguro’, il 6 aprile 1919, la prima campagna di azione diretta
che segnava l’inizio della lotta aperta dell’India contro il governo
britannico per la sua indipendenza. Questo metodo fu pure utilizzato a
Budapest nel 1956, all’inizio della rivoluzione ungherese.
L’hartal puo’ anche essere presentato come una giornata di "lutto nazionale"
deciso dalla popolazione al fine di esprimere i suoi sentimenti di fronte ad
una qualche decisione dei governo mirante a privarla di uno dei suoi diritti
essenziali.
Rinvio di titoli e di decorazioni. Il rinvio di titoli e di decorazioni
non puo’ non avere un’influenza diretta nel rapporto di forze in campo. Esso
e’ essenzialmente un gesto simbolico, ma in quanto tale nel suo impatto
sull’opinione pubblica puo’ essere considerevole.
Nel piano di non-cooperazione che egli compi’ nel 1920, la prima tappa
prevista da Gandhi era il rinvio dei titoli e la rinuncia ai posti
onorifici. Gandhi, come d’abitudine, diede il primo esempio e il primo
agosto 1920 restitui’ al vicere’ le tre medaglie che gli erano state
conferite per i suoi buoni e leali servizi resi all’impero britannico.
Nel 1970 negli Stati Uniti i resistenti alla guerra del Vietnam
organizzarono una manifestazione di massa durante la quale soldati americani
in congedo che avevano partecipato a questa guerra gettarono a terra le loro
decorazioni, secondo una messinscena che dava a questo gesto un significato
del tutto particolare. Questa manifestazione impressiono’ notevolmente
l’opinione pubblica sia nazionale che internazionale.
Si puo’ ragionevolmente pensare che se molte personalita’ francesi in vista
(universitari, scrittori, vescovi...) decidessero di restituire al
presidente della Repubblica la loro Legione d’onore per protestare, ad
esempio, contro le vendite di armi, consentite dal governo francese, tanto
al governo razzista del Sudafrica quanto alla dittatura militare del
Brasile, questo gesto non mancherebbe di colpire vivamente l’opinione
pubblica. Esso avrebbe una portata non soltanto simbolica, ma realmente
politica.
Lo sciopero. Lo sciopero illustra direttamente il principio di
non-cooperazione. Poiche’ i capitalisti (nel senso tecnico della parola)
devono in gran parte la loro potenza economica e sociale alla cooperazione
degli operai, e’ possibile per questi ultimi (quando sono vittime di una
ingiustizia relativa sia alle loro condizioni di lavoro, sia alle loro
condizioni di salario) interrompere questa cooperazione allo scopo di
costringere i propri avversari di classe a riconoscere i loro diritti.
Certo, numerosi scioperi si sono svolti in un contesto di violenza e sarebbe
ridicolo pretendere di recuperare gli scioperi operai nel campo della
nonviolenza. Tuttavia, e’ opportuno rilevare che se delle forme di violenza
hanno accompagnato molto spesso - non sempre - gli scioperi, esse sono
rimaste marginali rispetto all’azione di sciopero propriamente detto.
D’altronde resterebbe da dimostrare l’efficacia reale di queste violenze, in
rapporto all’evoluzione del conflitto. Qui e’ importante sottolineare che lo
sciopero puo’ essere organizzato attenendosi strettamente allo spirito e ai
principi della nonviolenza e, pensiamo, con maggiori possibilita’ di
successo.
Il boicottaggio. Il principio del boicottaggio e’ una variante del
principio di non-cooperazione. I proprietari di una impresa commerciale
devono la loro ricchezza alla cooperazione volontaria dei loro clienti. Il
boicottaggio consiste, quando per esempio i proprietari rifiutano di
soddisfare una certa rivendicazione del personale giudicata essenziale, nel
ritirare loro il beneficio di questa cooperazione al fine di esercitare su
di essi una pressione sociale che li costringa a cedere. Il potere di
acquisto dei consumatori diventa allora un vero potere sociale che si oppone
al potere dell’avversario. Certo, il boicottaggio puo’ riuscire solo se una
forte percentuale della popolazione si unisce al movimento. Cio’ dovrebbe
essere possibile soprattutto quando l’obiettivo e’ particolarmente chiaro e
preciso, poiche’ la partecipazione a un boicottaggio non comporta
generalmente gravi inconvenienti.
Lo sciopero e il boicottaggio condotti da Cesar Chavez negli Stati Uniti
illustrano in modo esemplare la possibilita’ e l’efficacia della lotta
nonviolenta nel contesto della lotta di classe. Cesar Chavez non si e’
avvicinato agli oppressi per fornire loro il suo aiuto generoso. Egli e’
nato tra di loro. E’ uno di loro. E’ uno di quegli americani di origine
messicana, uno di quei chicanos che formano la maggior parte della
manodopera dei vigneti californiani. I chicanos costituiscono il tipo stesso
di un sottoproletariato inorganizzato e sfruttato. Tutti gli sforzi compiuti
in precedenza erano stati spezzati dai proprietari e votati al fallimento.
Cesar Chavez ha lavorato dapprima con Saul Alinsky nel quadro della Comunity
Service Organisation e fu in questo lavoro che egli scopri’ in maniera
empirica i principi della strategia dell’azione nonviolenta. Solo piu’ tardi
egli scopri’ Gandhi a cui si riferi’ costantemente cosi’ come a Martin
Luther King. Dopo aver rotto con questa organizzazione, che giudicava troppo
lontana dagli operai stessi, egli decise di creare un sindacato. Prima di
lanciare delle azioni di rivendicazione impiego’ parecchi mesi in un lavoro
di "coscientizzazione" e di organizzazione. Spinto dalle circostanze, quando
non si sentiva ancora sufficientemente pronto, nel 1965 diede slancio al suo
movimento in uno sciopero. Chavez volle sin dall’inizio che il movimento
diventasse nonviolento sia nello spirito che nei metodi. Questa scelta
precisa fu sottoposta al voto di tutti gli operai durante una manifestazione
di preparazione allo sciopero e approvata all’unanimita’. Picchetti di
sciopero furono organizzati nei vigneti dagli operai, allo scopo di
proseguire il lavoro di coscientizzazione e di persuadere quelli che
accettavano ancora di lavorare che era loro interesse fare sciopero e unirsi
al movimento. Sin dall’inizio dello sciopero, i proprietari reagirono
brutalmente e cercarono di spezzare il movimento. Inoltre, gli operai
dovettero subire parecchi fastidi da parte delle autorita’ locali che si
erano schierate a fianco dei proprietari. D’altra parte, i proprietari
poterono reclutare lavoratori "crumiri" in numero sufficiente da garantire
la raccolta dell’uva. Tuttavia, questa prima fase della lotta permise agli
operai di superare la loro paura e di prendere coscienza della loro forza.
Fu a quel punto che Cesar Chavez decise di organizzare il boicottaggio
dell’uva. Picchetti di boicottaggio furono organizzati un po’ ovunque negli
Stati Uniti e l’azione si rivelo’ subito estremamente efficace. Venne
effettuata una marcia di cinquecento chilometri su Sacramento allo scopo di
dare il massimo di pubblicita’ all’azione degli operai dei vigneti. A
Boston, i leader del boicottaggio diedero una rappresentazione del Boston
Tea Party (e’ noto che fu gettando in mare un carico di te’ britannico nel
porto di Boston che inizio’ il processo che doveva portare la "Nuova
Inghilterra" alla sua indipendenza): dopo aver effettuato una sfilata
attraverso la citta’, essi buttarono diverse casse di uva nel porto. Nel
quadro del boicottaggio, furono rappresentate scene satiriche allo scopo di
drammatizzare la lotta agli occhi della popolazione. L’opinione pubblica
cosi’ interpellata e informata si schiero’ sempre piu’ numerosa in favore
del movimento di Chavez. Versamenti di fondi manifestarono concretamente la
solidarieta’ del paese e permisero al movimento di assicurare agli
scioperanti e alle famiglie il minimo vitale. La Chiesa, i sindacati,
numerosi movimenti e diverse personalita’ diedero il loro sostegno a Chavez.
I proprietari dei vigneti decisero allora di esportare il massimo di uva che
restava invenduta sul mercato degli Stati Uniti e del Canada. Ma, a San
Francisco, il sindacato degli scaricatori di porto rifiuto’ di caricare
l’uva sulle navi che dovevano salpare per l’Oriente. In Inghilterra gli
operai si rifiutarono di scaricare piu’ di trenta tonnellate di uva della
California. La stessa cosa si verifico’ in Finlandia, in Svezia e in
Norvegia. Ma, dal canto suo, il Pentagono, le cui simpatie si indovina
facilmente a chi andavano, forni’ un aiuto prezioso ai proprietari; opero’
massicci acquisti di uva di cui la maggior parte fu destinata ai soldati del
Vietnam. Ma l’intervento dell’esercito non fu in grado di spezzare il
boicottaggio.
Infine, dopo cinque anni di lotta, i proprietari dovettero cedere e il 29
luglio 1970 riconobbero il sindacato di Chavez e accettarono l’essenziale
delle sue richieste. Durante la riunione nella quale furono firmati gli
accordi, Cesar Chavez pote’ affermare: "Oggi, nel momento in cui vi e’ tanta
violenza in questo paese, siamo felici di mostrare che questo accordo
giustifica la nostra posizione: la giustizia sociale puo’ essere realizzata
attraverso l’azione nonviolenta". Dopo questa vittoria Cesar Chavez divenne
il leader di tutti gli operai agricoli della California. Altre azioni furono
intraprese e altri successi ottenuti.
Lo sciopero degli affitti. Sul finire del XIX secolo, nel quadro della
lotta condotta dall’Irish Land League il cui fine era di "dare la terra al
popolo", "i contadini cattolici irlandesi si rifiutarono di pagare l’affitto
ai proprietari terrieri che erano in genere inglesi molto ricchi" (D. De
Ligt).
In conclusione, nonostante la mobilitazione di 15.000 poliziotti e di 40.000
soldati, il movimento ottenne un largo successo.
Nel maggio del 1965, il primo sciopero promosso da Cesar Chavez non fu
diretto contro i proprietari dei vigneti, ma contro coloro che affittavano
agli operai agricoli capanne di una sola stanza, col tetto metallico, prive
di finestre e acqua corrente, costruite provvisoriamente nel 1937. Era stato
appena deciso un aumento di affitto che elevava il prezzo da diciotto a
venticinque dollari. Cesar Chavez giudico’ inammissibile questo aumento e
lancio’ la parola d’ordine dello sciopero degli affitti. Nel novembre dello
stesso anno, gli operai videro trionfare la loro causa.
Il rifiuto collettivo dell’imposta. E’ opportuno precisare sin dall’inizio
che il rifiuto di pagare l’imposta non potrebbe giustificarsi come
opposizione al principio stesso dell’imposta. Non soltanto e’ legittimo, ma
e’ necessario che i membri di una comunita’ partecipino al finanziamento
delle realizzazioni della comunita’ stessa. Il pagamento dell’imposta e’
l’esercizio pratico della solidarieta’ che deve legare tutti i membri della
medesima comunita’. Non si puo’ pertanto opporsi al pagamento dell’imposta
che quando questa viene ad alimentare delle ingiustizie di cui ci si rifiuta
di essere complici e che si vogliono denunciare e combattere pubblicamente.
Il rifiuto di pagare interamente o in parte l’imposta puo’ concepirsi in due
prospettive diverse. Puo’ trattarsi innanzitutto di far cessare
un’ingiustizia di cui si e’ personalmente vittima. Quando, ad esempio, delle
imposte colpiscono una certa categoria sociale o un certo settore
d’attivita’ in modo abusivo, diventa legittimo per coloro che sono vittime
di questo abuso il rifiuto di pagare queste imposte allo scopo di obbligare
il governo a rendere loro giustizia. Cosi’ il rifiuto collettivo
dell’imposta praticato a Bardoli, in India, nel 1928, si rivelo’ un mezzo
efficace di lotta nelle mani dei contadini contro l’arbitrio del governo di
Bombay. Questo aveva deciso un aumento del 22% dell’imposta sul ricavato
agricolo. Dopo aver tentato, ma invano, di ottenere l’annullamento di questa
decisione attraverso vie legali, i contadini decisero di organizzare la
resistenza. Fecero percio’ appello a Patel, un avvocato che aveva rinunciato
alla sua professione per seguire Gandhi. Sotto la guida di Patel, i
contadini decisero di rifiutarsi di pagare l’imposta fino a che avessero
ottenuto o l’annullamento dell’aumento del 22%, o la creazione di una
commissione d’inchiesta che potesse giudicare imparzialmente la loro
situazione. Il governo si rifiuto’ di cedere e decise al contrario di
esercitare una brutale repressione, praticando in particolare numerosi
pignoramenti sui beni e sulle terre dei contadini, e procedendo a numerosi
arresti. Ma i contadini non cedettero e si attennero strettamente alle
indicazioni nonviolente date da Patel. Gandhi sostenne pubblicamente
l’azione. Tutta l’India segui’ con molta attenzione l’evoluzione dei fatti e
manifesto’ concretamente la propria solidarieta’ inviando a Patel
considerevoli somme di denaro. I giornali inglesi fecero eco all’azione dei
contadini e l’opinione pubblica inglese, scossa da questa insurrezione
pacifica, si risveglio’. Fu aperto un dibattito alla Camera dei Comuni sui
fatti di Bardoli. Infine le autorita’ di Bombay furono costrette a cedere,
sei mesi dopo l’inizio della campagna di sfida, e a nominare una commissione
d’inchiesta. Questa convenne che l’aumento dei 22% deciso non poteva
giustificarsi. Essa "decise in conclusione che l’aumento non doveva
superare il 6,25%. Tuttavia, essendosi la commissione dichiarata
incompetente nel giudicare certi elementi del dossier, questi, su pressante
richiesta dei contadini, furono presi in considerazione nell’accordo finale
in modo tale che praticamente non fu deciso alcun aumento d’imposte a
Bardoli" (Joan Bondurant). "Dopo tanti anni d’inerzia - osserva Nanda -
questo successo costitui’ uno stimolo senza precedenti (...), poiche’ questa
campagna aveva rivelato un’energia latente che si poteva sperare d’impegnare
nella lotta per la liberazione del paese".
In secondo luogo, puo’ invece trattarsi di opporsi ad una decisione ingiusta
del governo non accettando che il finanziamento di questa ingiustizia venga
assicurato con i propri denari e mettendo in opera tutto cio’ che e’
possibile per costringere il governo a tornare su questa decisione. Quando
gli strumenti di controllo previsti dalla costituzione si rivelano
inefficaci, questo mezzo permette alla popolazione di esercitare un
controllo effettivo sull’azione del governo. Osserviamo che conviene in
questo caso non tenere per se’ i soldi "risparmiati" sulle proprie imposte
ma versarli a organismi o movimenti che partecipano direttamente alla lotta
contro l’ingiustizia in questione. Certo, il governo sara’ generalmente ben
provvisto di mezzi repressivi che dovrebbero consentirgli in particolare,
attraverso trattenute sui salari o pignoramenti sui beni, di recuperare il
denaro che egli e’ stato rifiutato, senza contare le ammende che non
mancheranno di colpire i contribuenti refrattari. Tuttavia l’impatto che si
cerca non e’ finanziario, ma politico, e questa repressione deve venire ad
accrescerlo. Se il numero di coloro che rifiutano l’imposta in queste
circostanze diventasse notevole, l’efficace di un simile gesto potrebbe
essere molto grande. Siccome pero’ il costo di quest’azione potrebbe anche
essere elevato, quelli che decidono di ricorrervi devono avere piena
coscienza delle sue conseguenze e devono essere pronti ad assumersele fino
in fondo. E’ fondamentale percio’ che essi possano contare, se dovesse
occorrere, sulla solidarieta’ effettiva di un gruppo di sostegno, in
particolare dal punto di vista finanziario.
Negli Stati Uniti, alcuni militanti contro la guerra dei Vietnam si
rifiutavano di pagare una parte delle loro imposte allo scopo di rifiutare
ogni complicita’ personale con quella guerra e di denunciarla pubblicamente.
In Francia, diverse persone appartenenti alla Comunita’ di Ricerca e di
Azione Nonviolenta di Orleans hanno incominciato nel 1970 a rifiutare di
pagare allo Stato il 20% delle loro imposte che hanno versato al movimento
"Azione, Giustizia e Pace" di dom Helder Camara. Esse intendono denunciare
in questo modo la degradazione dei termini di scambio con i paesi dei Terzo
Mondo e la politica militare francese soprattutto in materia di armamenti
nucleari, sostenendo che i paesi ricchi si rifiutano di pagare ad un giusto
prezzo le materie prime dei paesi poveri, ma non esitano invece a investire
somme ingenti in una corsa sfrenata agli armamenti. Dom Helder Camara, in
una lettera dei 13 novembre 1970 indirizzata a quelli che si erano impegnati
in questa azione, scrisse in particolare: "La vostra decisione mi sembra un
gesto perfetto di autentica violenza dei pacifici, di autentica pressione
morale liberatrice".
L’obiezione di coscienza. L’obiezione di coscienza in passato non si
inseriva il piu’ delle volte nel quadro di una strategia dell’azione
nonviolenta. Essa si basava fondamentalmente su una esigenza morale e/o
religiosa che proibiva l’omicidio e aveva innanzitutto un carattere
individualista.
L’obiezione di coscienza politica puo’ concepirsi secondo due prospettive.
In primo luogo, puo’ trattarsi, per coloro che sono convinti dell’efficacia
dei metodi nonviolenti in caso di aggressione straniera diretta contro la
propria nazione, di rivendicare il diritto di essere riconosciuti cittadini
a tutti gli effetti pur scegliendo la via della nonviolenza. Infatti e’
inammissibile che gli Stati impongano a tutti i cittadini il mezzo della
violenza come il solo modo di assumersi le responsabilita’ civiche nel caso
di un conflitto internazionale. In questa prospettiva l’obiettore di
coscienza deve svolgere un servizio nazionale durante il quale e’ suo
diritto-dovere prima di ogni cosa studiare teoricamente i principi e i
metodi della nonviolenza e prepararsi a metterli successivamente in pratica.
Precisiamo che nei paesi in cui esiste una legge che riconosce l’obiezione
di coscienza, cio’ non vuol dire che la nonviolenza abbia ottenuto diritto
di cittadinanza. Infatti questa legge e’ stata generalmente accordata al
solo scopo di risolvere qualche singolo caso che diventava sempre piu’
scomodo. La nonviolenza, tuttavia, continua ad essere disprezzata dal
governo come un’idea ingenua e pericolosa.
In secondo luogo, l’obiezione di coscienza puo’ essere utilizzata come mezzo
per opporsi alla politica del governo, in un certo campo, in particolare
quando nell’esecuzione di questa politica riveste primaria importanza il
ruolo giocato dall’esercito. In questo caso, l’obiezione di coscienza e’ un
metodo nonviolento impiegato per combattere una politica precisa, anche se
essa non implica, come nel caso precedente, un’opzione fondamentale per la
nonviolenza. Cosi’, in Francia durante la guerra d’Algeria, molti giovani
chiamati alle armi, giudicando ingiusta questa guerra, si sono rifiutati di
mettersi a disposizione dell’autorita’ militare e hanno dichiarato la
propria obiezione di coscienza. Essi si opponevano a quella guerra con un
metodo nonviolento di non-cooperazione, ma cio’ non significava
necessariamente che essi si opponessero a ogni guerra e che non fossero
pronti a ricorrere alla violenza in altre circostanze.
Lo sciopero della fame illimitato. Uno sciopero della fame illimitato non
ha piu’ per fine, come e’ il caso dello sciopero della fame limitato, di
protestare contro un’ingiustizia. Quelli che ricorrono ad esso sono
intenzionati a proseguirlo fino al raggiungimento degli obiettivi che si
sono fissati, fino a quando, cioe’, venga eliminata l’ingiustizia che essi
denunciano. Questa azione pone numerosi e gravi problemi tali da far pensare
che essa non sia un mezzo che possa trovare il suo posto nella strategia
dell’azione nonviolenta. Inoltre, non possiamo affatto citare qui come
esempio i digiuni illimitati intrapresi da Gandhi. Il loro significato e la
loro efficacia devono spiegarsi essenzialmente nell’influsso del tutto
eccezionale esercitato da Gandhi sulla popolazione indiana. Per di piu’, e’
in questo caso che religione e politica si trovano inestricabilmente
mescolate nell’atteggiamento di Gandhi. Cosi’, a proposito del digiuno
illimitato deciso da Gandhi nel settembre 1932, il suo biografo Nanda
scrive: "Gandhi, tuttavia, non doveva giustificarsi con nessuno tranne che
con la propria coscienza o, come lui diceva, con il suo creatore". Ci
conviene percio’ cercare altrove i criteri per definire a quali condizioni
uno sciopero della fame illimitato puo’ essere intrapreso conformemente alle
esigenze della nonviolenza.
Innanzitutto, deve essere scrupolosamente rispettato anche qui cio’ che e’
richiesto per le altre azioni dirette nonviolente, vista la natura
particolare dell’azione e la gravita’ dei rischi che devono correre gli
attori. In particolare, e’ necessario che questi abbiano in precedenza fatto
ricorso ad altre iniziative per farsi ascoltare dall’avversario e che
quest’ultimo si sia ostinatamente rifiutato di prenderli in considerazione.
Uno sciopero della fame illimitato non puo’ essere intrapreso che per motivi
particolarmente gravi, quando e’ apparso, dopo un’analisi dettagliata del
dossier, che l’obiettivo ricercato puo’ essere raggiunto nello spazio di
tempo che esso consente. Uno sciopero della fame illimitato intrapreso su un
obiettivo impossibile da raggiungersi, oltre ad essere un gesto disperato di
protesta, non sarebbe un’azione nonviolenta. Questo atteggiamento si
avvicinerebbe invece a quello di coloro che si immolano con il fuoco. Pur
non volendo esprimere qui un giudizio sul significato e sul valore che
simili gesti possono avere - soprattutto quando questi si collocano nella
prospettiva di una filosofia o di una religione orientale -, ci teniamo a
sottolineare che essi non possono entrare a far parte di una strategia
dell’azione nonviolenta.
Resta il fatto che ogni sciopero della fame illimitato comporta, per chi lo
intraprende seriamente, il rischio di morire. Tutte le precauzioni prese per
assicurare l’efficacia dell’azione non possono garantire in assoluto la sua
riuscita. Ma ci sono delle cause che giustificano questo rischio. E colui
che decide di correrlo volontariamente deve assumersene la responsabilita’
fino alle sue piu’ estreme conseguenze. Esercitare pressioni sull’avversario
e minacciarlo facendogli capire che non cedendo diverrebbe responsabile
delle sofferenze e, nel caso estremo, della morte di coloro che fanno lo
sciopero della fame, costituirebbe un inammissibile ricatto. Le sole
responsabilita’ che gli devono essere attribuite durante lo sciopero sono
quelle che egli porta effettivamente a proposito dell’ingiustizia denunciata
e combattuta. Le pressioni che devono essere esercitate nei confronti dei
responsabili dell’ingiustizia non devono affatto mettere in evidenza le
sofferenze degli scioperanti della fame, ma le sofferenze di coloro che sono
vittime dell’ingiustizia.
Perche’ l’obiettivo possa essere raggiunto in uno spazio di tempo cosi
breve, e’ necessario che l’opinione pubblica sia gia’ sensibilizzata
riguardo all’ingiustizia di cui si vuole ottenere l’eliminazione. La
funzione di uno sciopero della fame illimitato e’ di opporsi a una
ingiustizia contro cui si e’ delineata una maggioranza, rimasta pero’ ancora
silenziosa. L’ingiustizia e’ gia’ stata identificata come tale, ma non ne e’
stata veramente percepita la sua gravita’. La tentazione di rassegnarsi e’
piu’ forte della volonta’ di agire. La maggioranza potra’ allora trovare
nell’azione degli scioperanti l’espressione del proprio sentimento e del
proprio pensiero. Essa avra’ cosi’ modo di esprimersi e di agire a sua volta
allo scopo di esercitare il proprio potere politico per far fallire il
potere di coloro che sono responsabili dell’ingiustizia. Lo sciopero della
fame illimitato svolge allora il ruolo di catalizzatore che mobilita e mette
in moto per una stessa azione delle energie rimaste latenti. A questo punto
facciamo nostra l’affermazione di Gandhi secondo cui e’ piu’ conveniente
intraprendere il digiuno contro i propri amici, che contro i propri nemici.
La pressione, che dovra’ essere decisiva per il raggiungimento
dell’obiettivo fissato, non deve essere quella dello sciopero della fame, ma
quella che e’ stata suscitata dallo sciopero della fame. Cosi’, quando si
conduce la lotta contro una decisione del governo, lo sciopero della fame
illimitato non ha come fine diretto quello di farlo cedere, ma di
cristallizzare l’opposizione e la determinazione della popolazione perche’
questa faccia cadere il governo. E’ percio’ necessario che gli scioperanti
possano contare immediatamente su appoggi, innanzitutto a livello
dell’informazione ma anche a livello dell’azione. Cio’ richiede che
organizzazioni che giocano un ruolo importante nei confronti dell’opinione
pubblica, come i partiti politici, i sindacati e le Chiese, e anche
personalita’ influenti, condividano nella parte essenziale, prima ancora
dell’inizio dello sciopero, l’analisi e l’obiettivo di coloro che sono
decisi ad intraprenderlo e siano pronti a sostenerlo. Per costringere
l’avversario a cedere, sara’ dunque necessario che siano organizzate altre
manifestazioni nonviolente: non soltanto manifestazioni pubbliche ma pure
azioni di non-cooperazione, magari di disobbedienza civile. E’ compito di
coloro che hanno preso l’iniziativa dei movimento di resistenza, cioe’ degli
scioperanti, suggerire quali sono le possibilita’ concrete di azione. Dovra’
essere costituito un comitato direttivo con il compito di coordinarle.
Ricordiamo che fu attraverso uno sciopero della fame illimitato che Louis
Lecoin, all’eta’ allora di settantaquattro anni, ottenne il riconoscimento
legale in Francia dell’obiezione di coscienza. Nell’ottobre dei 1958, il
comitato di sostegno degli obiettori di coscienza consegno’ al governo il
progetto di uno statuto. Nonostante tutti i passi intrapresi, non fu dato
alcun seguito a questo progetto. Tuttavia, interrogato in privato,
soprattutto da Albert Camus, il generale De Gaulle rispose che gli obiettori
avrebbero avuto uno statuto, ma che bisognava attendere il momento
opportuno, cioe’ la fine della guerra d’Algeria. All’inizio del 1962, Lecoin
stimo’ che non c’era piu’ niente che poteva opporsi all’approvazione di
questo statuto. Egli decise percio’ d’impegnarsi in una prova di forza con
il governo. Il 28 maggio scrisse al generale De Gaulle per informarlo che
avrebbe incominciato dal primo di giugno uno sciopero della fame affinche’
le buone intenzioni manifestate fin allora a favore degli obiettori di
coscienza si traducessero nei fatti. A partire dal primo di giugno Lecoin si
astenne percio’ da qualsiasi nutrimento. Dopo qualche giorno, i giornali e
la radio diedero abbondanti informazioni sull’azione di Lecoin. Ben presto
dagli ambienti vicini al presidente della Repubblica arrivarono promesse
ufficiose. Lo stesso generale De Gaulle disse ad una persona molto vicina a
lui: "Non voglio vedere morire il signor Lecoin". Il vecchio anarchico volle
pero’ proseguire il suo sciopero fino a che una decisione non fosse stata
presa ufficialmente. L’opinione pubblica, interpellata, incomincio’ a
mobilitarsi. Furono promosse numerose iniziative a sostegno dell’azione di
Lecoin. Il 15 giugno, alcuni poliziotti, accompagnati da un medico legale,
fecero irruzione nella camera di Lecoin e lo trasportarono all’ospedale. Il
21 giugno, il primo ministro Georges Pompidou informo’ che il governo aveva
deciso di sottoporre all’Assemblea nazionale, durante la sessione in corso,
un progetto di legge per il riconoscimento degli obiettori di coscienza.
Lecoin poteva a quel punto ritenersi del tutto soddisfatto. Tuttavia egli
richiese che se, per un qualsiasi motivo, il Parlamento non avesse potuto
discutere il progetto durante la sessione in corso e fosse stato costretto a
spostare l’esame a una data ulteriore, gli obiettori incarcerati fossero
liberati in attesa di un voto definitivo. La sera dei 22 giugno il governo
diede questa assicurazione e Lecoin cesso’ il suo sciopero. Bisogno’ pero’
aspettare il 24 luglio 1963 perche’ l’Assemblea potesse discutere il
progetto di legge. Lecoin assistette ai dibattiti. Ma numerosi emendamenti,
di cui molti furono presentati dal deputato Michel Debre’ che si trovava
purtroppo "in posizione critica rispetto al governo", mutilarono il progetto
iniziale che purtuttavia era stato accettato dallo stesso generale De
Gaulle. A quel punto Lecoin, non potendo sopportare ulteriormente, si alzo’
e grido’: "E’ una vergogna, e’ uno scandalo". Gli uscieri e i poliziotti lo
bloccarono e lo portarono in questura. Alla fine, cio’ che resto’ del
progetto fu votato definitivamente il 22 dicembre 1963.
Lo sciopero generale. Nella sua Histoire socialiste Jaures riporta la
seguente dichiarazione che Mirabeau pronunzio all’Assemblee des Etats de
Provence rivolgendola all’indirizzo di "tutti i gentiluomini e signorotti
che intendevano tutelare gli interessi della classe produttiva": "State
attenti, non sdegnate questo popolo che produce tutto, questo popolo che per
essere formidabile non dovrebbe che rimanere immobile". E Jaures osserva che
Mirabeau diede in questa occasione "la piu’ potente e la piu’ sbalorditiva
formula di cio’ che chiamiamo oggi sciopero generale". Cosi’ definito, lo
sciopero generale di tutto un popolo, deciso a spezzare il giogo della
tirannide e dell’oppressione che pesa sulle sue spalle e a diventare padrone
dei proprio destino, e’ l’esemplificazione piu’ perfetta del principio di
non-cooperazione.
Nel suo famoso libro Considerazioni sulla violenza, Georges Sorel fa
l’apologia della "violenza proletaria". Ma nell’affermare con forza la
necessita’ della violenza per la liberazione dei proletariato, Sorel non
intende incitare gli operai a buttarsi in uno scontro sanguinoso con gli
eserciti della borghesia. Al contrario, egli si rammarica del fatto che la
parola rivoluzione evochi generalmente questa immagine, e rifiuta questa
prospettiva che, egli afferma, appartiene al passato. "Per moltissimo
tempo - egli scrive - la Rivoluzione e’ apparsa, nei suoi tratti
fondamentali, come un succedersi di guerre gloriose, che un popolo, assetato
di liberta’, e mosso dalle piu’ nobili passioni, aveva sostenuto contro la
coalizione di tutte le forze della tirannide e dell’errore". Ma, facendo
leva soprattutto sui fatti tragici della Comune avvenuti nel 1871, egli
mostra che il proletariato ha dovuto distogliere la sua immaginazione e la
sua ragione da qualsiasi epopea guerresca. D’altra parte, Sorel se la prende
con forza con i "socialisti parlamentari" che vorrebbero convincere gli
operai del fatto che e’ possibile ormai ottenere il riconoscimento dei loro
diritti con il solo gioco della democrazia formale. Sorel afferma che ormai
il proletariato deve porre il suo ideale e la sua speranza soltanto nello
sciopero generale. Dicendo cio’, egli non si preoccupa di concepire
l’organizzazione pratica di questa azione gigantesca: cio’ che a lui
interessa dimostrare e’ che l’idea dello sciopero generale corrisponde alle
aspirazioni profonde dell’anima operaia e che essa e’ capace di mobilitare
il proletariato nella lotta contro la borghesia. Per lui lo sciopero
generale e’ un mito e deve essere considerato come tale, ma pensa appunto
che solo la potenza di questo mito puo’ creare il dinamismo necessario al
movimento rivoluzionario. "Lo sciopero generale - egli scrive con molta
perspicacia - e’ il mito in cui viene a compendiarsi il socialismo, nella
sua interezza, un organismo d’immagini capaci di evocare, con la forza
dell’istinto, tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse
manifestazioni della guerra, impegnata dal socialismo, contro la societa’
moderna. Gli scioperi hanno fatto fiorire nel proletariato i sentimenti piu’
nobili, piu’ profondi e piu’ fattivi che esso possegga. Lo sciopero generale
li unisce tutti, in un quadro d’insieme; da’ a ciascuno di essi, riunendoli
insieme, la massima intensita’. (...) Noi otteniamo, cosi’, quella
intuizione del socialismo che il linguaggio non poteva fornirci in modo
perfettamente chiaro - e l’otteniamo, in un insieme percepito
istantaneamente".
Cosi’ Sorel, ed e’ in cio’ che la sua analisi ci sembra interessante, tenta
di sostituire nella coscienza operaia il mito della guerra rivoluzionaria
con la quale il proletariato schiaccia definitivamente la borghesia in un
bagno di sangue - e noi sappiamo quanti "rivoluzionari" in tutto il mondo
sono ancora legati piu’ o meno coscientemente a questo mito -, con il mito
dello sciopero generale con il quale il proletariato pone fine
all’oppressione capitalistica e inaugura con entusiasmo l’era del
socialismo. Comunque, esiste effettivamente una tradizione operaia in cui lo
sciopero generale concentra tutte le speranze del proletariato. Barthelemy
De Ligt ci ricorda una canzone che una volta "si cantava dappertutto: nelle
famiglie, nelle assemblee e nelle officine". Essa illustra questa tradizione
in modo particolarmente significativo:
"0 tu che ti chini verso la terra / La tua fronte e’ pallida dal dolore /
Sollevati, fiero proletario / Un migliore avvenire appare all’orizzonte! /
Non a colpi di mitraglia / Il Capitale vincerai / Per vincere la battaglia /
Non avrai che da incrociar le braccia! / Per la caduta fatale / Degli
sfruttatori tiranni, / Lo sciopero generale / Ci fara’ trionfanti! / La
migliore arma per abbattere / I difensori del Capitale, / Questa orrenda
razza matrigna, / e’ lo sciopero generale".
Rosa Luxemburg ha consacrato allo sciopero generale uno studio documentato e
dettagliato, facendo riferimento essenzialmente all’esperienza della
rivoluzione russa del 1905. Per molto tempo lo sciopero generale fu
combattuto in seno ai partiti comunisti come un’idea pericolosa,
propagandata dagli anarchici e capace di portare il movimento rivoluzionario
fuori dalle vie realiste. Su questo punto, Engels aveva vivamente attaccato
Bakunin. Ma Rosa Luxemburg non esita ad affermare: "Lo sciopero di massa
(...) appare oggi l’arma piu’ potente della lotta politica per i diritti
politici". Analizzando gli avvenimenti sopravvenuti in Russia, Rosa
Luxemburg sottolinea che "lo sciopero di massa non puo’ essere "fatto"
artificiosamente, non puo’ essere "deciso" nel cielo azzurro, ne’
"propagandato", ma che esso e’ un fenomeno storico che in un certo momento
risulta dalle condizioni sociali con la forza della necessita’ storica".
Percio’ "il Partito deve - se si osa adoperare questo termine - agganciarsi
al movimento di massa, quando lo sciopero sia stato spontaneamente
intrapreso, e ha il compito di dargli un contenuto politico e delle parole
d’ordine giuste. Se non ne ha l’iniziativa, deve averne la direzione e
l’orientamento politico. E’ soltanto cosi’ che potra’ impedire che l’azione
si perda e rifluisca nel caos".
Se ci riferiamo allo sciopero di massa avvenuto in Francia, nel maggio del
’68, non possiamo che essere sorpresi dalla giustezza delle affermazioni di
Rosa Luxemburg. E’ vero che nel 1968 lo sciopero generale non e’ stato ne’
suscitato, ne’ deciso, ne’ organizzato da alcun partito ne’ organizzazione
ma che esso e’ stato intrapreso spontaneamente da un movimento venuto dalle
masse stesse. E’ pure vero che, per il fatto di non aver intravisto come
possibile un tale fenomeno, i diversi partiti e le diverse organizzazioni
che si ritiene rappresentino gli interessi delle masse, sono stati presi
alla sprovvista. Si sono trovati nell’incapacita’ di dare un contenuto
politico coerente allo sciopero generale e non hanno potuto "impedire che
l’azione si disperdesse". Cosi’, anche se appare difficile preparare a medio
termine, per tale giorno e a tale ora, l’inizio di uno sciopero generale, e’
opportuno che quest’ultimo venga tenuto in considerazione come un elemento
essenziale della prospettiva rivoluzionaria. La sua possibilita’ concreta
deve essere ricercata in certe circostanze sociali particolari, allo scopo
di potere allora dominare e orientare l’avvenimento e di far riuscire per
quell’occasione i progetti da cui dipende l’avvento di un "socialismo dal
volto umano".
b. Azioni dirette d’intervento
Se la manifestazione e’ un confronto diretto con il pubblico che si cerca di
far aderire alla propria causa perche’ eserciti una pressione capace di
provocare il cambiamento ricercato, se l’azione di non-cooperazione ha lo
scopo di inaridire le fonti del potere dell’avversario e di costringerlo a
soddisfare le rivendicazioni che gli vengono presentate, l’intervento
nonviolento e’ un confronto diretto con l’avversario attraverso il quale ci
si sforza di provocare il cambiamento nei fatti. Con l’intervento
nonviolento si porta il conflitto nel campo dell’avversario che e’ posto di
fronte ai fatti compiuti, per cui lo scontro diventa inevitabile.
L’intervento provoca deliberatamente le rappresaglie e la repressione, per
cui i rischi in cui si incorre devono essere accuratamente calcolati.
Il sit-in. Il piu’ noto metodo di intervento diretto nonviolento e’ il
sit-in (letteralmente: stare seduti dentro) che fu impiegato soprattutto dai
neri negli Stati Uniti per ottenere la fine della segregazione nei
ristoranti, nei cinema, nelle biblioteche, ecc. Si tratto’ allora di sfidare
i responsabili di quei locali pubblici mettendoli di fronte al fatto
compiuto e di obbligarli a cedere di fronte alla pressione sociale cosi’
esercitata.
Generalmente il sit-in e’ un’occupazione che si fa stando seduti nei locali
di proprieta’ dell’avversario allo scopo di imporsi a lui come interlocutori
necessari e di obbligarlo a riconoscere i diritti che si e’ rifiutato, fino
a quel momento, di prendere in considerazione. Durante uno sciopero operaio,
questo metodo dovrebbe consistere nell’occupare pacificamente gli uffici del
padrone per costringerlo a negoziare nel caso che si rifiuti di farlo. Esso
dovrebbe essere sistematicamente preferito al sequestro del padrone nel suo
ufficio, per ragioni morali e tattiche, e dovrebbe rivelarsi piu’ efficace.
In senso lato il sit-in consiste nello svolgere una manifestazione sedendosi
in un luogo pubblico. Questo metodo puo’ essere impiegato in particolare da
quelli che partecipano ad una manifestazione che rischia di scontrarsi con
le forze di polizia. Essa permette allora un’occupazione efficace del
terreno che diventa molto difficile da "pulire", e permette alla
manifestazione di durare. E’ possibile allora che le forze di polizia
indietreggino di fronte alla responsabilita’ di caricare, a colpi di
sfollagente e di bombe lacrimogene, una folla silenziosa il cui solo torto
e’ di star seduta in una strada per far valere i propri diritti. Ma e’ anche
possibile che esse non indietreggino e si decidano invece a fare una carica.
Queste due possibilita’ si sono verificate negli Stati Uniti nel corso di
manifestazioni nonviolente dei neri in lotta per 1’integrazione. Si tratta
di valutare nel modo piu’ giusto possibile il rischio che si corre, partendo
dall’analisi del clima politico e sociale nel quale si svolge la
manifestazione. Se si prendera’ la decisione di andare fino in fondo, e’
opportuno che le prime file dei manifestanti siano particolarmente
preparate, sia psicologicamente che tecnicamente, ad affrontare le cariche
della polizia e conoscano in particolare i metodi elementari di protezione
che devono essere presi in quel momento (si tratta soprattutto di
proteggersi la nuca con le mani). Se la polizia non osa disperdere la
manifestazione con la violenza, si trova costretta a portar via uno alla
volta tutti i manifestanti.
Si puo’ dare allora la parola d’ordine di rifiutare qualsiasi cooperazione
con le forze di polizia, e cioe’ di "diventare molli" (come dicono gli
anglosassoni) e lasciarsi "manipolare" con calma dai poliziotti mentre
questi riempiono i furgoni destinati a ricevere i manifestanti.
L’ostruzione. L’ostruzione consiste nell’impedire la libera circolazione
su una via pubblica facendo dei proprio corpo un ostacolo inevitabile per
chi volesse passare. Questo metodo e’ stato utilizzato in particolare in
occasione di scioperi operai per impedire ai non-scioperanti di accedere al
loro posto di lavoro. Si e’ pure ricorso a questo procedimento per ottenere
l’arresto e l’immobilizzazione di veicoli che servono ad alimentare
direttamente, sia in uomini che in materiali, l’ingiustizia che si combatte.
Puo’ essere utilizzata anche per impedire una costruzione giudicata
indesiderabile come quella di una base militare, di una centrale atomica o
di una realizzazione di prestigio che costituirebbe un’ingiuria per i
poveri: si tratterebbe in questi casi di occupare il cantiere e di impedire
agli operai di lavorare. Si puo’ anche concepire l’ostruzionismo simbolico
dell’ingresso di un edificio ufficiale: ostruendo ad esempio l’ingresso del
ministero della Difesa nazionale per protestare contro la vendita di armi
che vanno ad alimentare l’oppressione in diversi paesi stranieri.
In genere, e’ preferibile che l’ostruzione sia compiuta da un gran numero di
persone piuttosto che da poche. Vi sono soprattutto meno pericoli e l’azione
sara’ capita meglio dal pubblico.
In questi ultimi tempi, si sono sviluppate altre tecniche di ostruzione: non
si tratta piu’ soltanto di fare ostruzione con il proprio corpo ma con la
propria automobile, con il proprio trattore, o con il proprio camion. Il
fine dell’ostruzione qui non e’ piu’ di impedire gli spostamenti
dell’avversario o di rendere impossibile la cooperazione con lui, ma di
impedire semplicemente la circolazione al fine di creare il fatto che
consenta di far conoscere l’ingiustizia all’opinione pubblica. E’ noto che
in Francia i commercianti, gli agricoltori e i camionisti sono ricorsi a
queste tecniche, e generalmente con successo.
L’usurpazione civile. Invece che abbandonare il proprio posto e
interrompere ogni attivita’, puo’ essere piu’ efficace, per dare scacco al
sistema, sovvertirlo dall’interno restando al proprio posto. Si tratta
allora di ignorare volutamente le istruzioni che giungono dall’alto e
d’impegnarsi a seguire, nel proprio lavoro, le disposizioni dei movimento di
resistenza. Invece di scioperare, questa o quella categoria di funzionari o
di professionisti puo’ esercitare sul governo una pressione maggiore
mettendo a disposizione del movimento "le sue armi e i suoi bagagli". Questo
metodo di azione e’ chiamato "usurpazione civile". Theodor Ebert ne da’ la
seguente definizione: "Lungi dall’interrompere il lavoro, gli insorti si
assumono direttamente l’organizzazione dei lavoro secondo i metodi del
sistema sociale che essi auspicano ed e’ l’ampiezza di questa azione che
costringe gli attuali detentori del potere ad adattarsi alle strutture
create dagli insorti". Ci sembra opportuno precisare che non si tratta qui
di fare evolvere le strutture dall’interno sforzandosi di sfruttare il piu’
possibile il margine d’iniziativa lasciato dal sistema. Salvo qualche
eccezione, questo comportamento avalla maggiormente il sistema piu’ di
quanto non lo metta in discussione. Serve spesso di pretesto a chi non ha il
coraggio di rifiutare apertamente la propria collaborazione con
l’ingiustizia. L’usurpazione civile si colloca certamente all’interno delle
strutture, pero’ essa opera una rottura con il sistema dominante e sfida
apertamente la gerarchia. Si tratta di dirottare le strutture dal fine che
e’ loro assegnato dal sistema e di rivolgere la loro efficacia contro di
esso.
Questo metodo puo’ essere utilizzato allo scopo di incominciare a realizzare
direttamente nei fatti il cambiamento sociale che si vuole promuovere,
invece che esercitare una pressione per ottenerlo. Arriviamo percio’ alla
nozione di "controllo operaio" cosi’ come e’ stato gia’ espresso nel
contesto della lotta di classe. "L’assunzione del controllo da parte dei
lavoratori significa che questi smettono di giocare secondo le regole.
Significa che essi stessi decidono delle loro condizioni di lavoro, e
soprattutto della loro produzione. Significa rifiutare totalmente la
collaborazione con il sistema esistente. Significa farsi carico della vita
dell’impresa (formazione professionale, ritmi, sicurezza, orari,
ripartizione dei lavoro, movimenti del personale...). (...) La strategia del
fatto compiuto e’ sempre comprensibile a condizioni che sia onesta’ fin
dall’inizio della sua proposta. Infatti, non bisogna nascondere ai
lavoratori che l’esercizio del controllo non puo’ essere transitorio e
legato ad un rapporto di forza. Cio’ finisce sempre in uno scontro globale
con l’avversario di classe (lock-out...). Ma soprattutto, l’esercizio dei
controllo collettivo resta la forma migliore di apprendimento da parte dei
proletariato delle responsabilita’ che l’attendono per la presa del potere e
la transizione verso il socialismo" ("Le controle ouvrier").
Cosi’, invece di porsi in sciopero per reclamare nuovi ritmi di lavoro in
fabbrica, gli operai decidono da soli di lavorare con i nuovi ritmi e
instaurano in fabbrica una situazione di fatto. La pressione cosi’
esercitata puo’ rivelarsi piu’ efficace.
L’usurpazione civile realizza contemporaneamente sia il programma di
non-cooperazione con il quale ci si rifiuta di servire un sistema ingiusto,
sia il programma costruttivo che permette di realizzare nei fatti le
soluzioni concrete proposte dal movimento. I settori di attivita’ sociale,
in cui l’organizzazione dei lavoratori e’ riuscita a soppiantare la
direzione legata al sistema e in cui diventa possibile applicare
concretamente i principi della nuova societa’, costituiscono dei "territori
liberati".
Certo, anche qui si dovra’ fare i conti con i mezzi di risposta di cui
dispone l’avversario. Egli tentera’ di porre fine a questa usurpazione e di
riprendere possesso dei servizi amministrativi o dei settori sociali che
sono sfuggiti al suo controllo. Questa risposta dell’avversario potra’
essere piu’ o meno efficace a seconda dei rapporti di forza gia’ esistenti.
Puo’ divenire necessario evacuare i territori momentaneamente liberati e
organizzare la resistenza facendo ricorso unicamente ai metodi classici di
non-cooperazione, e cioe’ alle diverse forme di sciopero. Ma e’ anche
possibile che l’avversario si trovi disarmato per riprendere questi
territori e che questi giochino allora un ruolo determinante nell’evoluzione
del conflitto.
Usurpazione delle funzioni governative e governo parallelo. Quando tutto
un paese e’ abbandonato all’arbitrio di un governo che intende imporre il
dominio rinnegando tutti i principi della vita democratica, non si tratta
piu’ soltanto di opporsi a una legge particolare, si trattera’ di opporsi al
governo. Converra’ percio’, allo scopo di bloccare i meccanismi del governo
e di paralizzarlo, estendere la disobbedienza civile alle leggi che, pur non
essendo di per se stesse ingiuste, servono nondimeno ai progetti del
governo.
Nella misura in cui la disobbedienza civile avra’ potuto essere organizzata
su scala nazionale, i leader dei movimento di resistenza potranno essere
considerati come rappresentanti dell’autorita’ legittima del paese. Se la
situazione l’esiga e lo permetta - e bisogna ammettere che cio’ si puo’
verificare solo eccezionalmente - il movimento di resistenza puo’ essere
condotto a usurpare certe funzioni governative, fino a creare un governo
parallelo. La popolazione ignorerebbe allora sistematicamente le decisioni
del governo per obbedire solo alle disposizioni del movimento di resistenza.
"Quando un gruppo di uomini rinnega lo Stato sotto la cui dominazione hanno
vissuto fino ad allora - scrive Gandhi -, essi costituiscono quasi un
proprio governo. Dico "quasi" perche’ essi non arrivano al punto d’impiegare
la forza quando lo Stato resiste".
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