Ma la Cina è davvero una minaccia?
L’avanzata dell’Impero Cinese e l’esercito scalzo dei negozianti italiani. L’economia italiana è realmente minacciata dai prodotti orientali?
Qualche settimana fa a Palermo si è svolta una manifestazione che coinvolgeva i giovani del movimento Forza Nuova. Una protesta pacifica che voleva puntare l’attenzione sugli effetti nell’economia italiana dell’avanzata del mercato cinese. Nulla di strano.
Le condizioni disumane quali sono costretti a lavorare intere comunità di cinesi sono una tematica da affrontare seriamente. Affaristi senza scrupoli infatti, sottopongono al loro servizio, in condizioni estreme e orari impossibili, piccole comunità e famiglie. Vengono impiegati in capannoni di lavoro, i cosiddetti “laogai”, che sono una sorta di campo di concentramento utilizzato per i lavori artigianali. Il nazionalismo di Forza Nuova ha, inaspettatamente, dei risvolti sociali; è attento alle problematiche dello sfruttamento. Un merito degno di nota. La domanda è, come mai la sinistra internazionale o le grandi organizzazioni umanitarie, non hanno sottoposto all’attenzione di tutti noi questo fenomeno sommerso?
In genere gli attivisti dei diritti umani fanno molto rumore a proposito, invece salta fuori solo l’aspetto economico; solo i commercianti locali si sentono minacciati dai piccoli dettaglianti cinesi che da qualche anno popolano le nostre città. In realtà la questione è complessa, non è combattendo il dettagliante che si risolve il problema in fondo. Dietro i rapporti commerciali con lo stato cinese vi è una mediazione dello stato italiano, ad esempio, o di qualsiasi grande organizzazione commerciale che, nella manodopera cinese, vede un ulteriore aumento degli interessi economici. Il leader palermitano di Forza Nuova sostiene che, nessun schieramento politico italiano può accennare alla questione, per via dei rapporti diplomatico-commerciali intrapresi con lo stato cinese. Ma davvero sono i cinesi una minaccia all’economia italiana? Dipende sotto quale profilo; e qui senza scomodare teorie di micro e macro economia, è necessario sottolineare da quale punto di vista si vede la questione.
Gli industriali della moda e del design, del famoso Made in Italy, si difendono non attaccando, bensì allacciando rapporti lavorativi con la comunità cinese. Con profitto e successo, si sono resi conto di quanto infinitamente più conveniente fosse mantenere un lavoratore cinese, che non aspira a pretese sindacali acquisite nell’occidente, che non si lamenta dei devastanti orari lavorativi e che, soprattutto, produce cento a costo uno. I designer si lamentano solo del furto di idee, secondo loro inaccettabile, perché i cinesi hanno, belle e pronte, idee che invece vengono studiate e sono frutto di lavoro intellettuale e di gusto tipicamente italiano. Così alcuni articoli, di qualsiasi genere, sono la copia esatta - no logo - delle migliaia di prodotti confezionati a basso costo per l’industria italiana.
Facendo un giro per i negozi, quelli con i palloni rossi all’ingresso - sono sbucati come funghi anche nei piccoli centri - si apprende che sono gestiti da famiglie e da parenti della stessa famiglia, in diverse città di una regione. Una rete fittissima che non ha nulla da invidiare alla nostra, tipicamente italiana, “conduzione familiare”; quella che ha fatto grande nel mondo l’azienda artigianale italiana e poi un marchio di qualità, il Made in Italy. Superata la diffidenza iniziale, gli italiani abitualmente frequentano questi veri e propri magazzini e comprano prevalentemente capi di abbigliamento.
E’ questo il settore maggiormente in crisi. Il paradosso però è un altro; l’italiano famoso nel mondo per la sua moda è costretto a vestirsi a basso costo. Considerando che l’Italia produce ed esporta alte percentuali di vestiario ed accessori moda, è ancora più paradossale che l’”upper class” italiana spenda cifre astronomiche per acquistare un prodotto italiano, creato dal genio italiano, ma confezionato in Cina, India, Pakistan, Romania, aree geografiche che la macroeconomia deputa al lavoro a basso costo, con l’impiego di manodopera priva di rivendicazioni sindacali. Le politiche economiche dell’oriente contravvengono alle basilari acquisizioni che il lavoratore medio ha ottenuto in anni di lotta, anche sanguinaria, contro lo sfruttamento.
Non considerando l’aspetto che coinvolge i minori in questa logica affaristica spregevole; i bambini sfruttati nel mondo del lavoro meritano un discorso a parte, non dobbiamo stupircene; in alcune regioni italiane, la Campania in particolare, oltre alla comunità cinese, con la presenza dei loro campi di lavoro, accoglie per altre industrie manifatturiere, molti extracomunitari che, per pochi spiccioli, pretendono una dignità lavorativa altrimenti negata o sfruttata dalle organizzazione malavitose. Aumentare i profitti, diminuendo le spese di gestione, è il fine del capitalismo; ottenere tutto ciò è merito di questo popolo di sfruttati che cresce in maniera esponenziale. Il Made in Italy creato in Cina, si paga a caro prezzo, non solo praticamente, ma anche socialmente e in termini etici. Ma può una famiglia media italiana comprare nelle grosse catene commerciali per vestirsi?
Il leader di Forza Nuova si ammutolisce. Ecco la microeconomia che fa capolino e disintegra il lavoro dei negozianti abituali. A parità di prodotto, è fin troppo ovvio scegliere quello che conviene di più. Ma senza scomodare le condizioni dell’italiano medio che deve fare quadrare i conti, salta all’occhio che le più assidue frequentatrici di questi magazzini cinesi sono le donne, quelle ben vestite, quelle che in preda ai raptus bulimici dello shopping, comprano dovunque e qualsiasi cosa. Sappiamo tutte che fine può fare, in fondo all’armadio, un capo costoso, oppure scontatissimo, passata la crisi bulimia dello shopping. Sono gli acquisti che fanno la differenza e che fanno chiudere in rosso i conti dei negozianti italiani. In un contesto consumistico, alla costante ricerca del capo nuovo, originale, le donne diventano determinanti.
Una cinese incuriosita dalla mia presenza - le sono simpatica - mi sorride e dice che molte signore comprano e spendono per tanti capi allo stesso prezzo di un solo prodotto dei negozi italiani. Certo, i magazzini dei cinesi sono francamente squallidi, pieni di scatoloni e buste accatastate, ma quello che conta è il risultato, ovvero, con circa cento euro, è possibile acquistare un abbigliamento completo e qualche cambio. Il dubbio è, supereranno la prova lavatrice? Che importa, basta lavare il tutto come se si avesse il più prezioso dei maglioni di cashmire ed aspettare il prossimo raptus bulimico. Gli addetti ai settori invece, coloro che studiano le tendenze dell’economia, dovrebbero smettere di scaricare la responsabilità dello sfacelo dell’economia italiana al povero acquirente anonimo del negozio cinese anonimo.
I conti si fanno quadrare con le politiche etiche, che vengono incontro alle esigenze del singolo, ma rispettano gli interessi della comunità mondiale tutta. Dice il saggio cinese: chi di moda ferisce, di moda perisce ed il maglione... infeltrisce.
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