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Il femminicidio in Italia è un crimine di Stato

Pubblichiamo il testo di Lucia R. Capuana che è stato alla base del suo intervento in occasione della presentazione del libro di Serena Maiorana, "Quello che resta", svoltosi a Francofonte il 31 luglio 2013.

di Lucia R. Capuana - giovedì 1 agosto 2013 - 4129 letture

Nel libro "Quello che resta", Serena Maiorana prende spunto da un fatto di cronaca, come recita il sottotitolo, storia di Stefania Noce, e da questo punto focale allarga la sua prospettiva toccando argomenti importanti che interessano tutti noi, donne e uomini. Il libro si configura come un’inchiesta, ed è di pregio in quanto Maiorana compie una lunga ricerca, raccoglie dati, li analizza mettendoli insieme, incrociandoli e, quindi, con stile giornalistico asciutto e rigoroso, compone un documento importante su il femminicidio e i diritti delle donne nell’Italia di oggi. Mi preme mettere in evidenza soprattutto la dicotomia tra “diritti” e “femminicidio”.

Per comprendere meglio il contrasto insito nell’accostamento di questi due termini bisogna tornare al fatto di cronaca da cui parte Maiorana. La storia appunto di Stefania Noce, Stefania viene ammazzata il 27 dicembre 2011, un omicidio che si è consumato a Licodia Eubea, in provincia di Catania. Ma non si tratta di un omicidio come tanti, no, perché la vittima, una ragazza di appena ventiquattro anni, viene uccisa in modo efferato, con dieci coltellate sferrate con un fendente lungo 11 cm, assieme a lei muore il nonno anche lui colpito dallo stesso fendente ben nove volte; la sua colpa? Aver tentato disperatamente di salvare la nipote, la nonna viene ferita gravemente, per lo stesso motivo. Qualsiasi ostacolo si frapponga tra l’assassino e la sua vittima viene eliminato. Tale la furia dell’uomo.

Ma questo non è omicidio, bensì FEMMINICIDIO, perché l’assassino è il fidanzato di Stefania e il movente del delitto premeditato è il reciso rifiuto da parte di questo uomo di vedere in Stefania una persona, un individuo capace di pensare e agire autonomamente. Questo il movente. E questo perché lui non ammette che Stefania possa lasciarlo, perché a suo parere Stefania gli appartiene, non perché l’ami, ma perché Stefania è sua, come ben evidenzia Maiorana, nella sua mentalità maschilista la sua ragazza è di sua proprietà, è una cosa e una cosa non pensa, non agisce per conto proprio, non ha diritti. È la sua cosa, pertanto, è lui che può disporne liberamente, con il plauso della società che alla fine dirà “l’amava troppo, era geloso, era in preda alla follia”.

E invece no, non si è trattato di un gesto d’impeto, dovuto ad un raptus. Il libro ci mostra non solo come viene architettato il delitto, ma anche che c’è stata precisa premeditazione, a dispetto di quanto, poi, la sentenza giudiziaria affermerà. Quindi, no, è stato ben organizzato, Maiorana, è molto chiara nel raccontarci che l’assassino ci pensava da mesi. Ha rubato le chiavi di casa a Stefania mesi prima, già due volte aveva sabotato i freni dell’auto della mamma di Stefania. L’ultima proprio la notte prima di questo episodio straziante, tragico.

Ha pensato a tutto, s’intrufola nel garage nella notte, manomette i freni dell’auto e poi aspetta, aspetta tutta la notte, fino al mattino successivo, entra in casa, con le chiavi, e fa una strage. Rincorre Stefania su per le scale, la raggiunge mentre la ragazza, agonizzante, disperata cerca di uscire fuori al balcone e gridare aiuto. Stefania sanguina, ma non vuole morire, si ribella fino all’ultimo. E lui, lui sferra l’ultimo colpo, quello mortale che le recide la trachea, la carotide. E non è per gelosia, per amore. Ma perché è egoista, non sopporta che lei sia brava negli studi, è invidioso, è in competizione con lei, è un vigliacco.

Le pagine che narrano la dinamica del delitto sono pagine molto intense benché scritte con il dovuto distacco giornalistico. Pertanto, non si tratta di sensazionalismo, come usa oggi fare per catturare con l’orrore il lettore impedendogli di ragionare e capire. Capire, appunto.

Per capire bene tutte le sottili sfumature insite nelle parole, parole da cui derivano le nostre azioni, bisogna comprendere bene cos’è il FEMMINICIDIO. Questo termine è un neologismo che intende sottolineare che si tratta di “storie di maschilismo e arretratezza sociale, basate su un semplicissimo schema circolare. La società rappresenta la donna come oggetto funzionale alla soddisfazione e ai bisogni dell’uomo. Le istituzioni, disinteressandosi della questione e promuovendo politiche familiari basate sulla netta disuguaglianza dei ruoli della coppia, legittimano le violenze e la mercificazione dell’immagine femminile. Gli uomini picchiano, violentano, sfruttano e uccidono le donne perché le considerano un oggetto di loro proprietà e si sentono legittimati nel farlo” (cfr. pp. 34-35).

Questo fenomeno è diffusissimo in tutto il mondo ma è ancor più diffuso in paesi dove si fatica a creare le condizioni necessarie per poter far sviluppare una società realmente paritaria, come precisa Maiorana, perciò il tema diventa esiziale alla questione dei diritti delle donne in Italia. Infatti, i dati ISTAT e di altre istituzioni, raccolte nel testo, dimostrano che la situazione nel nostro paese è spaventosa, persino una rilevazione ONU ha stabilito che nel nostro paese non c’è una reale parità sociale tra uomo e donna, perché il nostro paese risente ancora oggi di una cultura maschilista che, di fatto, impedisce che ci sia un concreto rispetto dei diritti delle donne.

La relazione del 2012 consegnata all’ONU dalla relatrice speciale contro le violenze sulle donne, Rashida Manjoo, definisce i femminicidi in Italia quali crimini di Stato in quanto lo Stato non fa nulla o molto poco per prevenire la violenza sulle donne che sfocia nel suo ultimo stadio nella morte, ma appunto, la morte rappresenta la tragedia finale, una tragedia annunciata che è maturata nel tempo in un crescendo di soprusi, discriminazioni, vessazioni, prepotenze e sopraffazioni di cui spesso, noi per prime, noi donne, non cogliamo la pericolosità perché a metterle in atto è qualcuno che amiamo e che dice di amarci e, allora ci si chiede, sbigottite, come sia possibile che chi ci ama ci voglia morte? Come può essere che un padre, un fratello, un marito, compagno o amante possano volerci morte? Eppure è quanto accade nella realtà. E nessuna di noi è al riparo. Il maschilismo, l’idea del possesso è trasversale, non appartiene ad una fascia sociale specifica, ma appartiene a tutti e proprio il caso di Stefania Noce lo evidenzia spaventosamente. Questo è un altro elemento del libro in questione che ci ha molto colpito, e che preoccupa perché è come se questo documento dicesse al lettore che non basta nemmeno la consapevolezza per evitare certe tragedie, serve altro.

Infatti, Stefania non è una sprovveduta, anzi è una ragazza sveglia, è una studentessa universitaria, è impegnata in politica, è femminista, si spende per sensibilizzare gli altri contro il femminicidio ma neppure lei ha saputo capire in tempo i segnali che pur gli venivano da quel fidanzato. Quel fidanzato che le diceva di amarla e però le sabotava gli esami universitari, facendole sparire relazioni a cui lei aveva lavorato con impegno, non voleva che lei fosse una persona autonoma, indipendente, libera. Lei dopo ogni sua confessione lo perdonava. Quando finalmente comprende che quello non è amore e lo lascia è troppo tardi, l’odio di lui è irrefrenabile, è arrivato al culmine e deve eliminarla fisicamente. Ci riesce.

Pertanto, è logico dedurne che nessuna donna è salva finché non ci si rende conto noi per prime che è la cultura di ognuno, ognuna di noi che deve cambiare. E bisogna cambiarla, come dice Maiorana facendo attenzione all’uso che facciamo delle parole, bisogna cambiarla, aggiungiamo noi in piena condivisione con l’autrice, coi fatti, con i gesti anche quotidiani, partendo proprio da quelli che riteniamo più innocui, come quando si dice ad un bimbo piccolo che lui è maschietto e non deve assomigliare alle femminucce, come se essere come le femminucce è male, introducendo, peraltro, anche un ulteriore schema di discriminazione, l’omofobia.

Sin dalla primissima infanzia si esorta i maschietti a non giocare con le bambole ma con i fucili, i trattori; lui può smontare i giocattoli, mentre la femminuccia deve essere ubbidiente, sempre garbata, deve essere bella e buona. Già da questi primi insegnamenti innestiamo, inavvertitamente, il seme della discriminazione, la bimba deve essere bella e vestita come un confetto, non deve sporcarsi, quindi non può correre, non può scaricare la sua naturale aggressività, non può esprimere tutta se stessa perché deve piacere. Il bimbo se è discolo lo si loda perché dimostra di essere sveglio, vivace, il bimbo non deve piacere, è, al contrario, libero di fare e di esprimersi liberamente.

È sconfiggendo queste cattive pratiche che lentamente, col tempo si sconfigge anche la cultura maschilista che impone al maschio una virilità basata sulla forza e la sopraffazione, fino alla violenza pur di farsi valere, ma allo stesso tempo gli nega ogni dimostrazione di emotività, lo si priva delle parole e lo si rinchiude in una gabbia. Come in una gabbia si rinchiude la donna a cui viene inculcato di non ribellarsi, di cercarsi un marito il prima possibile e farsi mantenere, diventandone così succube. Si impone alle donne italiane la cura della famiglia e dei famigliari, precludendogli ogni altra forma di realizzazione personale, si fa credere loro che non serva essere economicamente indipendenti, basta trovare un marito ricco e andare a fare shopping quando si sentono assalite da un pizzico di frustrazione, di noia, di insoddisfazione.

Perché, in fondo il loro compito è di piacere.


QUELLO CHE RESTA. Storia di Stefania Noce. Il femminicidio e i diritti delle donne nell’Italia d’oggi / di Serena Maiorana. - (pp. 60, €12,00; Villaggio Maori Edizioni, Catania – ISBN: 9788898119134)



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