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Emergency: «E nessuno di noi lo accetterebbe mai»

Luca, coordinatore di Emergency in Afghanistan, ci racconta la quotidianità di un un paese in guerra, delle sue vittime, dell’abitudine alle atrocità.

di Redazione - giovedì 7 gennaio 2016 - 3746 letture

«Ieri, ancora una volta, a Kabul ci sono stati due attentati. Due fragorose esplosioni che hanno causato decine di feriti e morti. Si susseguono a un altro attentato avvenuto venerdì scorso, il giorno di Capodanno, che ha causato altrettante vittime. Ma questa non è una novità. Non per noi, non per gli afgani.Tutti i giorni qui si somigliano, si ripetono. Piccoli attentati, clamorose esplosioni, continui combattimenti sono la quotidianità, ormai non fa più notizia. Questa è la vita in Afghanistan. Non passa giorno senza un incidente, senza feriti, senza storie molto simili e allo stesso tempo così diverse tra loro, che si presentano alla nostra attenzione mentre sono migliaia quelle che non conosceremo mai. Ognuna di queste storie porta un carico di sofferenza tale da compromettere la vita fisica ed emotiva di un individuo, di una famiglia, qui come ovunque. Come possiamo raccontare tutto questo senza scadere nella retorica della guerra, nell’ovvietà della situazione, senza creare fastidio a tal punto da non volerne sapere più nulla? Io credo che la risposta stia nell’empatia, cioè nella capacità di immedesimarsi, di comprendere i pensieri e gli stati d’animo delle persone, anche di quelle cosi culturalmente lontane da noi. Per chi, per fortuna o per scelta, non ha mai vissuto un contesto bellico, questo risulta difficile. Neanche il film più cruento può aiutarci a capire, perché la guerra puzza! Puzza di bruciato, di polvere da sparo, di sudore, di lacrime, di sangue, di paura. Anche la paura ha un odore ed è inconfondibile, lo senti sulla pelle, lo assapori in bocca, lo leggi negli occhi.

Prendete dieci minuti, sedetevi, chiudete gli occhi, immedesimatevi.

Pensate di essere Yusuf, un infermiere, un team leader della nostra terapia intensiva a Kabul. Siete a casa, è ora di cena, vostra moglie ha preparato la tavola e siete tutti seduti insieme, il vostro figlio piccolo fa i capricci perché non vuole mangiare la verdura, quello più grande vi racconta di come il maestro a scuola gli abbia fatto i complimenti per il suo compito di matematica, vostra moglie - mentre serve la cena - vi spiega come i prezzi al mercato siano aumentati e come costi sempre di più fare la spesa. Voi avete una parola per tutti, una carezza al figlio che va bene a scuola, un rimprovero al bambino che non mangia la verdura, una parola di conforto a vostra moglie, "in qualche modo faremo, non ti preoccupare", le dite.

Poi, d’improvviso, una fragorosa esplosione vi travolge. Così forte che frantuma i vetri di casa, che danneggia i muri, c’è polvere ovunque. Vostra moglie è attonita, immobile, in shock, i bambini piangono, il piccolo strilla come non mai. Voi siete frastornati, confusi, quel ronzio alle orecchie non vi dà pace, ma sapete che cosa dovete fare, controllate che stiano tutti bene e fortunatamente nessuno è ferito. La casa è danneggiata, il freddo entra dalle finestre divelte e anche se sapete che i bambini hanno bisogno di voi, prima dovete proteggerli dalle intemperie e in qualche modo mettete delle pezze, plastica alle finestre, sistemate la stufa, vostra moglie vi aiuta a mettere in ordine. Poi tutti a dormire o a provarci almeno. Anche se in cuor vostro siete spaventati come non mai, non lo date a vedere: i bambini hanno bisogno di sentirsi al sicuro. Forse raccontate una storia o solo qualche parola rassicurante; alla fine i bimbi si addormentano e vostra moglie con loro. Ma voi no. Non Yusuf, che non riesce a prendere sonno. Troppi pensieri vi frullano in testa. Quanto vi costerà riparare la casa? Forse è meglio trasferirsi in una zona più sicura, ma dove? Come cresceranno i vostri figli? Sarà sicuro mandarli a scuola domani? Come farà vostra moglie da sola a casa? E poi il pensiero arriva al lavoro, all’ospedale, ai vostri colleghi. Anche se sapete che sicuramente saranno occupati a fare il proprio dovere e sapete che i feriti continuano ad arrivare, decidete di telefonare, per sapere come vanno le cose e quanti sono i pazienti. Vi dicono che il reparto è pieno, che hanno appena ricoverato un ragazzo giovane in pessime condizioni, una donna era incinta, un’altra ha una brutta frattura. Voi siete il responsabile di quel reparto, una guida, un conforto per i colleghi e quindi, nonostante tutto, decidete che la mattina andrete al lavoro. E così è: uscite di casa dopo aver baciato i vostri figli, rincuorato vostra moglie, dato un veloce sguardo ai danni subiti. Poi sulla vostra bicicletta pedalate verso l’ospedale. Lo stomaco è chiuso, le gambe sono molli e il pensiero è costantemente a casa, "speriamo vada tutto bene".

Quando arriva in ospedale Yusuf è pallido. Glielo leggiamo in volto che non è lui, che non è il solito Yusuf. Anche Sara, la nostra infermiera dedicata alla terapia intensiva, si accorge subito che qualcosa non va e gli parla. Non crede a quello che sente, un nodo le stringe la gola. Roberto e Michela sono con loro, si conoscono da anni ma ancora una volta si scoprono sorpresi, ammutoliti."Yusuf, torna a casa, la tua famiglia ha bisogno di te", gli dicono. Lui prova a insistere, vuole restare ma alla fine accetta e va a casa mentre noi, una volta in più, impariamo una lezione.

Questo è l’unico modo, a mio parere, per capire. L’unico modo per capire come si vive in Afghanistan o in ogni altro contesto di guerra. Pulite la mente, eliminate i pregiudizi, lasciate le convinzioni, abbandonate le certezze, non fatevi influenzare e provate a essere Yusuf. Fatevi travolgere dalle emozioni, provateci. Questa non è retorica. È vita vera, una vita troppo spesso dimenticata, troppo spesso giudicata, troppo spesso accettata.

Ma questa in realtà non è vita, questa è sopravvivenza. E nessuno di noi lo accetterebbe mai».


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