L’Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio


Autobiogrammatica / di Tommaso Giartosio. - Roma: Minimum Fax, 2024 - 440 pp. - ISBN 978-88-3389-552-9


di Angelo Guida pubblicato il 1 settembre 2024

Pur richiamando palesemente il Lessico famigliare, sarebbe riduttivo ritenere Autobiogrammatica sic et simpliciter una versione aggiornata dell’opera di Natalia Ginzburg.

Attraverso la parola, le parole, il linguaggio fondativo, il romanzo delinea un percorso esistenziale che è anche extrafamiliare, verso l’emancipazione dell’individuo dal suo contesto di provenienza, e ricorda un po’ il «growing up in public / With […] pants down» di Lewis Allan Reed. E poi la tecnica, intrisa di poesia (non dimentichiamo che Giartosio è anche poeta, autore di Come sarei felice. Storia con padre), è sostanzialmente diversa: un flusso di coscienza che scorre senza incertezze e senza soluzione di continuità, trascinando con sé il lettore dall’inizio alla fine, in un ininterrotto amplesso verbale.

Frutto della contaminazione tra narrativa e saggistica, e per questo definito un ircocervo, Autobiogrammatica è, dunque, un romanzo sull’arduo percorso di costruzione dell’io, un Bildungsroman, in cui giocano un ruolo decisivo il linguaggio, la lingua, le lingue, l’onnipresente corporeità familiare e sociale. «Eravamo innamorati, una condizione prima di tutto corporea», dice Tommaso della sua relazione con Carlo. Ma lo stesso si può dire a proposito della vita affettiva all’interno della compagine familiare. Se è vero che siamo «cateratte di parole», è pur vero che «siamo fontane di carne» e che «la lingua è anche corpo», come ci tiene a sottolineare l’autore.

L’individuo, prima di essere soggetto parlante, si pone in ascolto e registra persino le parole inespresse perché le auspica o ne teme la mancanza.

Mancanze sono, ad esempio, gli eloquenti silenzi del padre: l’assenza di suoni, ammantata di un apparente non-essere, è comunque indizio di un’esistenza corporea che genera onde sonore. «La parola, in fondo, è una lacuna. La parola cane, come è noto, trasmette l’idea di cane ma non ci mostra un cane reale; per comunicare l’essenza della cosa esige la sua assenza». Il silenzio è, allora, assenza di un’assenza ma anche indice di una presenza (corporea).

Nel confronto edipico col genitore, il padre è definito al tempo stesso come un vuoto e un pieno: «È autorevole. Ma non autore. Le sue parole sembrano svanire».

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Autobiogrammatica, di Tommaso Giartosio

Sin dall’inizio del romanzo, Tommaso non ha paura di mettersi in gioco, di mettere in mostra la sua umana fallibilità, di mettersi finanche alla berlina presentandosi come un gaffeur con una topica su salvolima che lascerò scoprire al lettore. Ma pure gli errori o i presunti errori hanno dei risvolti positivi: «anche la battuta più infelice, più goffa e lambiccata e fuori luogo, è scandalosamente felice. Contiene in sé una gioia. Esprime nel suo fioco delirio una ricerca della felicità». Il linguaggio si erge come un totem, è puro sortilegio.

Anche se il libro esamina minuziosamente le parole ricorrenti nel lessico familiare, senza comunque tralasciare quelle adoperate in ambito extrafamiliare, l’autore a ogni piè sospinto ci ricorda implicitamente o esplicitamente che dietro i flatus vocis ci sono delle entità reali immerse nel proprio tempo, attraversate dalle vicende culturali e politiche dei periodi storici in cui il romanzo si svolge o a cui si rivolge. Ci parla di mafia, di terrorismo, delle oscure vicende italiane degli anni Settanta e Ottanta, di bullismo (puntando il dito non solo contro quelli che menano ma anche contro quelli che guardano, colpevoli del peccato di omissione), di fascismo (soprattutto attraverso l’odiosamata figura di Pound, contigua a quelli che menano). E, anche nelle vicende esogene rispetto al nucleo familiare, il padre gioca un ruolo cruciale. Molto spesso tace («L’obbligo di dire la verità è fratello gemello del silenzio») e a volte si ritira. È un militare in carriera ma quando gli offrono di dirigere il SISDE lui rifiuta, nonostante le promesse di soldi e potere, perché sa che alcuni suoi probabili colleghi sono «neofascisti e aspiranti golpisti» e dunque perché il lavoro è «poco accettabile moralmente». Tommaso non esprime giudizi ma, tra le righe, si capisce che è fiero del diniego del genitore. Sa quanto è salutare per la società avere, accanto a sterminate moltitudini di yes-men, un drappello di renitenti che si rifiuta di porgere i propri servigi per cause poco nobili o tutt’altro che nobili.

Ed ecco che Tommaso, consapevole della difficile professione di genitore, commenta: «diventare padre è diventare un mondo, edificare un ecosistema».

Ma non trascura la figura materna, principale artefice del lessico famigliare. Dopotutto, non si parla di lingua madre? Il lessico della genitrice è un quid pluris: è «un atlante morale».

A un certo punto della narrazione, le due figure genitoriali si fondono e diventano papaemmamma, un ircocervo come il romanzo stesso, un’unica entità attorno alla quale si addensano suoni e silenzi.

Insomma, dietro le parole ci sono le persone, i loro corpi, i loro ricordi, le loro memorie. L’autore precisa perciò che se ci tiene tanto alle parole non è perché sono più importanti degli esseri umani ma perché è in loro che «il tempo rallenta e si accumula».

Accanto all’italiano – la lingua madre – c’è poi l’inglese, l’altra lingua parlata in famiglia che – nel prosieguo del romanzo di formazione del giovane Tommaso – diventerà la lingua dei viaggi e delle scoperte, la lingua del rock e della libertà, la lingua che gli permetterà di accedere a nuove relazioni e che lo traghetterà verso l’età adulta. L’autore, come Nabokov, riconosce così di essere un english child. Avrebbe voluto impararne altre di lingue. E, fra le tante, il cinese: ma, dopo averlo desiderato ardentemente per un po’ di tempo, alla fine si rifiuta di studiarlo perché è la lingua di un regime autoritario che massifica e sterilizza gli individui.

Nella Kabbalah l’alfabeto è una foresta di simboli. L’alfabeto è imprescindibile dalle esistenze di noi tutti, ha carattere individuante. Le lettere rappresentano cose. L’alfabeto prima che scritto è disegnato. Il libro di Giartosio è interessante anche perché è un libro illustrato, costellato di immagini ma soprattutto di disegni dell’autore come quello dell’ormai iconica copertina.

Il libro è complesso, irto di difficoltà. Sembrerebbe scritto apposta per quelli che vengono definiti lettori forti. Ma nessuno si lasci spaventare perché questo romanzo è anche un’avvincente avventura in cui siamo tutti coinvolti: l’avventura della vita (Tommaso siamo tutti noi). Basta solo un po’ di concentrazione e di buona volontà.

Questo libro è un libro rispettoso del lettore perché gli conferisce lo status e la dignità di soggetto attivo, parte del processo creativo che si svolge all’interno del sistema letterario. E non lo tedierà. Soprattutto se si farà scuotere dal monito di Giuseppe Levi, il padre di Natalia Ginzburg, che – nel corso dei soggiorni in montagna – ripeteva ai propri familiari: «Voialtri, […] vi annoiate, perché non avete vita interiore».

Nell’epilogo, l’autore/protagonista, dopo essere approdato all’università, mentre sta per dare il primo esame di Storia moderna, si rende conto che – in quel momento del proprio percorso esistenziale – finisce il tempo degli alfabeti e inizia quello dei nomi. È legittimo allora aspettarsi un seguito di Autobiogrammatica? Solo l’autore lo sa, noi non abbiamo altro che un debole indizio. Una cosa è certa: se mai ci sarà non sarà un sequel hollywoodiano ma piuttosto un ricercare proustiano.


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