The elephant man: il caso Imane Khelif


Nessuno si è chiesto nella società inclusiva e dionisiaca occidentale: “Come si sente e cosa ha provato Il caso Imane Khelif nel vedersi ridotta a ossa, muscoli e geni da analizzare? Quanto avrà sofferto?”


di Salvatore A. Bravo pubblicato il 5 agosto 2024

Il caso Imane Khelif è ancora vivo. Le Olimpiadi dalle polemiche infinite che rimuovono lo sport per trasformarsi in un immenso palcoscenico continuano la loro corsa. I casi sono debitamente resi complessi e sfuggenti, in modo da tenere gli spettatori incollati al potere della chiacchiera. I media e i social sono parte del “cinico gioco”, sono la pubblica ghigliottina e prima che la lama scenda le vittime della campagna mediatica sono debitamente catalogate-analizzate-squartate. Si procede ad una pubblica discussione, in cui il “caso persona” è oggetto di una autentica autopsia, mentre è in vita. In questo caso l’occidente mediatico ha vissuto la sua passione: sesso, sangue e denaro. Si è proceduto a discorrere sulla sua anatomia e sul suo sangue (i geni).

L’atleta è stata analizzata da un punto di vista estetico e genetico e si è trasformato il caso in un “evento mediatico”. Alla fine di tale processo la fine è diventata “solo nuda vita”. La sensibilità del mondo liberal sempre accesa sulla fluidità di genere e curvata sulla dimostrazione che non esistono generi ma solo interpretazioni ha trovato il suo ghiotto boccone. In tutto questo nessuno ha sollevato la domanda prima: l’atleta in questo baccano mediatico nel quale non è trattata da persona ma da “elephant man” che cosa ha provato e come ha vissuto il circo mediatico, giacché è un confronto impari.

Nessuno si è chiesto nella società inclusiva e dionisiaca:

“Come si sente e cosa ha provato Il caso Imane Khelif nel vedersi ridotta a ossa, muscoli e geni da analizzare? Quanto avrà sofferto?”

A nessuno sembra interessare la silenziosa sofferenza di una donna dalla storia, si suppone, difficile.

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Imane Khelif

Gli organizzatori delle Olimpiadi per risparmiare all’atleta e alle sue concorrenti lo splendore della gogna avrebbero dovuto analizzare debitamente il caso prima delle Olimpiadi, al fine di proteggere colei che in questa storia è misurata solo a base di pugni e che risulta essere la più debole. L’atleta è di origini algerine e questo non è un dettaglio. Il palcoscenico dunque è più importante della condizione emotiva e psichica delle persone divenute casi mediatici che attraggono pubblico e attenzione. Per il capitalismo dello spettacolo per il quale l’inclusione è il trofeo per autolegittimarsi con la sua “superiorità etica” sui blocchi concorrenti, l’inclusione in realtà è solo un mezzo.

Tutti possiamo cadere nella trappola; possiamo essere inclusi e successivamente diventare casi da ostentare. La discussione finisce per rendere le persone con la loro storia e con le angosce che ogni vita reca con sé solo “spettacolo”. Finita la scena prima, si è gettati nel calderone della dimenticanza e coloro che sono saliti sul podio della gogna sono lasciati soli: non servono più, si va avanti con altri “casi”. Al suo rientro in Algeria, c’è da chiedersi come sarà accolta e come sarà vissuta. Mettiamoci nei panni di coloro che sono all’interno della macchina dello spettacolo, proviamo a farlo e, forse, vivremo la verità di un sistema senza pietà. L’Occidente capitalistico fondato sull’individualità atomistica è profondamente disumano, in quanto ha perso la capacità di sentire la presenza dell’altro.

Cambiamo prospettiva, obliamo la chiacchiera tagliente che gode del vino dell’eccitazione mediatica, per porci nella prospettiva di Imane Khelif e comprenderemo che l’inclusione, quella reale, è sensibilità nel silenzio, perché l’altro in ogni circostanza è persona, è relazione nell’immanenza della storia. Tutto questo è venuto a mancare, pertanto viviamo e ci dibattiamo in una realtà senza pietà che con lo sguardo e con la parola riduce le persone ad ossa e muscoli da soppesare.

Forse, a noi tutti, farebbe bene rivedere il film The Elephant Man, la versione in bianco e nero e attraverso di esso rivederci nella nostra orrida realtà-verità. Senza inclusione e senza empatia non è civiltà e non c’è uguaglianza, ma sono l’uso economico di valori irrinunciabili. G. Debord nel saggio La società dello spettacolo aveva ben dire che lo spettacolo è la truce verità del capitalismo dalla quale dobbiamo emanciparci per riumanizzarci:

“11. Per descrivere lo spettacolo, la sua formazione, le sue funzioni e le forze che tendono alla sua dissoluzione, bisogna distinguere artificialmente degli elementi inseparabili. Analizzando lo spettacolo, si parla in una certa misura il linguaggio stesso dello spettacolare, in quanto si passa sul terreno metodologico di questa stessa società che si esprime nello spettacolo. Ma lo spettacolo non è niente altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale, del suo impiego del tempo. E’ il momento storico che ci contiene”.

Si esce da tale condizione ripensando l’ovvio di cui ci nutriamo e non poniamo in discussione, è un ovvio tossico che a taluni può procurare inaudite sofferenze.


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