Appunti e storie sul mestiere di insegnante
Deprivazione culturale
Insegnavo in una prima media, senza nessuno strumento valido, e con la grossa
responsabilità - che nessuno mi aveva dato ma che io mi ero assunta - di usare
il mio insegnamento per pareggiare i conti, per offrire a ragazzi "provenienti
da un ambiente deprivato culturalmente" gli strumenti di cui mancavano. Andavo
per tentativi ed errori. Entrambi sono stati tanti che non so fare un bilancio
di quell'anno né dire cosa ho effettivamente insegnato. Penso oggi di essere
stata deleteria per i miei alunni a causa delle mie insicurezze e soprattutto
mi piacerebbe tornare indietro per ascoltarli di più e costringerli di meno.
Forse è mancata proprio la gioia dell'apprendimento. Mi sentivo e li facevo
essere in trincea per sconfiggere la deprivazione culturale, per convincerli
che lo studio era per loro di vitale importanza. Mi portavo dietro evidentemente,
senza rendermene conto, la "mia" esperienza di promozione sociale attraverso
la cultura e quindi il rigore nel perseguire i miei confusi progetti senza cercare
lo scambio, né con gli alunni né con i colleghi.
Autenticità
Voglio evitare la trappola delle parole abusate, ma secondo me autenticità è
la parola che mi ha consentito di dare valore al mio insegnamento. Ma occorre
chiarire autenticità nel senso di essere se stessi, o più esattamente nel senso
di possedere una cosa difficilissima: l'onestà e la libertà intellettuale. Come
in tutti i luoghi delle relazioni umane, non può esserci vera comunicazione
, e quindi scambio, se tra alunni e insegnanti non si stabiliscono rapporti
significativi. E' un'affermazione che faccio con il timore che ancora una volta
questa necessità venga fraintesa per scadere nel luogo comune dell'"amicizia"
con l'alunno o del rapporto "materno" genericamente inteso. Ho rifiutato per
anni l'idea che fare l'insegnante fosse il mestiere più congeniale alle donne.
La rifiuto ancora oggi, nell'accezione comune, convinta però che il contributo
delle donne sia fondamentale per riqualificare questo mestiere, e non certo
perché sono tante. Ma andiamo per ordine. Il mio rifiuto nasceva dal fatto che
la congenialità sottintendeva un impoverimento della figura dell'insegnante.
E non mi riferisco alla questione dello stipendio(anch'essa comunque significativa).
La donna poteva fare l'insegnante perché si riteneva che questo mestiere richiedesse
un impegno di tempo e di energie irrisorio o comunque tale da poter essere sempre
e comunque subordinato agli impegni prioritari della cura della casa, del marito
e dei figli. La donna che insegnava passava (passa?) prima di tutto per casalinga,
una casalinga privilegiata dal fatto di poter evadere dal chiuso della casa
e di poter contribuire al bilancio familiare. Un ruolo che appare in continuità
con il ruolo materno. La femminilizzazione dell'insegnamento decresce infatti
con il progredire del curricolo di studi. Ma cosa succede se dall'oggi diamo
uno sguardo alla storia? Apprendiamo che ancora agli inizi del nostro secolo
l'insegnamento(Università e Licei per alcune discipline) era vietato alle donne.
La presenza femminile nel mondo della scuola è progredita di pari passo con
la presenza femminile in altri settori, intensificandosi man mano che il prestigio
sociale e il vantaggio economico abbandonavano la professione, mentre si affermava
la scuola di massa. (Non è stato difficile così, fra l'altro, imputare alla
massiccia presenza femminile, demotivata e mal retribuita, lo sfascio della
scuola). Così il senso comune mentre da un lato reputa le donne più adatte all'insegnamento,
dall'altro le fa responsabili dei danni ad esso arrecati. Con l'affermarsi della
scuola di massa infatti gli stipendi degli insegnanti sono apparsi più adatti
ad integrare un bilancio familiare che a costituirne l'unico cespite, ruolo
tipico del salario operaio femminile fin dall'inizio dell'industrializzazione.
Ragionamento che ha un suo fondamento e che riguarda la realtà quotidiana di
molte colleghe. Si tratta però di partire da questo dato di fatto per ribaltarlo,
per coglierne le potenzialità innovatrici. Ruolo materno e femminilizzazione
possono anche voler dire - alla luce delle riflessioni di Luisa Muraro e di
altre sul simbolico e sulla maternità - risorsa di una diversità che arricchisce,
rifiuto di una cultura monolitica e di un atteggiamento autoritario nell'insegnamento.
"rifondare l'educazione su base maieutica, sul reciproco scambio, su una vera
comunicazione che spezzi la trasmissione continuativa unilaterale: autoritaria,
sterile, castrante. Insomma quella "norma", vigente a scuola, sul lavoro e nei
media, che ci asserve e ci mutila".
"Per comunicare, al contrario, è necessario che ognuno sia creativo nell'ascoltare-interpretare.
Così come nell'esprimersi, non solo verbalmente. E' per questo che non può esistere
alcuna comunicazione di massa: la pasta o la sabbia non comunicano. Soltanto
gli organismi, al più alto livello, possono riuscirci". DANILO DOLCI (Dall'intervista
a Repubblica del 19-7-'96, "Danilo Dolci utopista di mestiere", di Franco Marcoaldi).
Autore |
Valeria Franchini
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Titolo |
Appunti e storie sul mestiere
di insegnante
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Data stesura |
gennaio 2000
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Data aggiornamento |
gennaio 2000
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