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Testimonianza
(la figura di don Pino P. e l’eredità spirituale)
Sono
stati trovati ed arrestati gli assassini di don Puglisi?
(Risponde Don Luigi Ciotti)
Sì,
sono stati condannati all’ergastolo il 14 Aprile del
1998, e sai cosa hanno risposto al processo quando gli è
stato chiesto perché era stato ucciso? Hanno detto:
”Quel prete prendeva i ragazzi dalla strada, ci martellava
con la sua parola, ci rompeva le scatole.”. Auguro
a tutti, come cittadini, come insegnanti, come amici come
sacerdoti di essere capaci di rompere le scatole. E’
un’espressione che ci permette di capire con molta
chiarezza che rompere le scatole significa andare contro
corrente, significa amore di verità e giustizia per
una società che fa emergere i diritti delle persone.
Puglisi prendeva i ragazzi dalla strada perché è
importante recuperare la strada in senso positivo. Le mafie
hanno devastato il territorio, l’hanno occupato e
lo controllano. Mentre la criminalità con tutti i
suoi volti è preoccupata di controllare il territorio,
Don Peppino nel suo quartiere di Brancaccio invece faceva
abitare il territorio, faceva trovare i propri spazi ai
ragazzi. Per questo alle 20,40 del 15 settembre 1993 un
colpo di pistola ha ucciso don Puglisi, parroco della chiesa
di San Gaetano, nel quartiere palermitano di Brancaccio.
Un solo colpo: alla nuca, vile, preciso e definitivo. Un
colpo solo per spegnere la vita di Padre Pino Puglisi, “tre
P”, come lo chiamavano i ragazzi, non certo per minor
rispetto, ma, all’opposto, per quel profondo affetto
e quell’amichevole familiarità che quell’uomo
buono e coraggioso, quel prete dallo sguardo un po’
triste e sorridente, aveva saputo conquistarsi tra i fedeli
e la gente del quartiere. Un colpo solo per zittirlo, per
fargli smettere di “invadere” il territorio
organizzando centri sociali e di accoglienza, spazi e momenti
di aggregazione, come quel centro “Padre Nostro”
frequentato da tanti giovani o quel Comitato degli inquilini
di via Hazon. Luoghi di incontro, e dunque anche di preghiera,
veri e vivi, in cui si disputava di fede e di come migliorare
la vita del quartiere, dei problemi da affrontare e delle
attività da promuovere per risolverli, fossero questioni
di chiesa o di scuola, di verde pubblico o di famiglie in
difficoltà da sostenere. La pistola degli omicidi
era silenziata, ma l’eco di quel colpo arriva forte
anche ad anni di distanza. Un fragore che non cessa di ferire
le orecchie, di rimbombare nei cuori e nelle coscienze di
molti, nella società civile e forse anche in chi
lo ha ucciso. Vi sono infatti assassinii che “trascendono
coloro che li compiono”, come è scritto nella
requisitoria finale del processo che ha condannato quattro
dei responsabili dell’uccisione. E aggiunge: “Vi
sono assassini che uccidendo un uomo uccidono un pensiero,
una speranza, un modo di essere, l’idea stessa di
umanità”. Omicidio di mafia, movente di mafia:
ed è questo, più che il nome e le stesse intenzioni
di chi ne ha spezzato la vita, che ci dice la gravità
di quel delitto, ma, contemporaneamente l’importanza
e la profondità dell’opera di quest’uomo.
Un movente così sintetizzato nelle carte processuali:
“Il motivo si manifestò chiaro nell’attività
evangelica e pastorale e nella chiara contrapposizione di
questa attività al regime di terrore, morte e sopraffazione
imposto dalla mafia”. Una contrapposizione che sta
nelle cose e nelle parole, prima ancora che nelle scelte:
dove c’è mafia e morte non ci può essere
socialità e giustizia, dove c’è Cosa
Nostra non c’è spazio per il “Padre Nostro”;
dove c’è impegno, legalità, fedeltà
a Cristo e all’uomo non ci può stare crimine
e sopraffazione. Per questo don Pino è stato ucciso:
per paura del suo impegno a testimoniare la fede in mezzo
agli uomini, per le sue parole nella chiesa di San Gaetano
e per quelle al “Padre Nostro”, per la sua opera
pastorale e per la sua coscienza di cittadino. In luoghi
diversi, le stesse parole di coerenza, di fede, quando occorre
di denuncia e di richiamo alla legge di Dio e a quella degli
uomini. Parole spesso scomode, ma sempre feconde. Un anno
quando ci siamo trovati a ricordare Padre Puglisi è
stato donato un cartoncino. Su un lato c’era la fotografia
di don Pino, col suo sorriso aperto. Dietro una frase che
dice tutto quel che c’è da dire e da sapere
di lui, una preghiera semplice e vera, un ricordo piccolo
e profondo: “Sacerdote del Signore, Missionario del
Vangelo, Formatore di coscienze nella verità, Promotore
di solidarietà sociale e di servizio ecclesiale nella
carità. Ucciso dalla mafia per la sua fedeltà
a Cristo e all’uomo.”. Attaccata al cartoncino
c’era una bustina trasparente con dentro una manciata
di semi di grano. I semi della giustizia e della parola
non sono mai aridi, sono destinati a dare sempre frutto.
Don Puglisi lo sapeva bene, come sapeva che quei semi che
lui distribuiva tutti i giorni, non potevano essere tollerati
dalla mafia. “Me lo aspettavo”, sono state le
ultime parole che ha pronunciato davanti a chi lo stava
uccidendo. E, mentre diceva questo, mentre già il
colpo mortale stava partendo, certo già pensava che
quei semi sarebbero cresciuti, tenaci e forti, dopo di lui.
Bisogna abitare il territorio, bisogna che voi giovani,
come i ragazzi del Brancaccio di Puglisi, abbiate la possibilità
di trovare punti di riferimento, spazi vostri nel quartiere,
per sentirvi parte della vostra comunità, per sentirvi
cittadini. Non hanno capito i mafiosi quanto la forza della
parola e della verità vada al di là delle
stesse persone, diventando cultura e speranza condivisa
che nessuna violenza può soffocare.
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