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RICORDO «Frizullo»

 

C'è ancora una carretta del mare mezzo arrugginita, ancorata in un porto
italiano del sud, forse Brindisi, forse Mazara, che su una fiancata
scarcassata porta ancora inciso, con rabbia e con amore un grande graffito,
netto, quasi una ferita sul rosso screpolato della ruggine. E' un nome in
stampatello: «FRIZULLO». Quando la nave arrivò così 6 anni fa, veniva da
pensare, con invidia: «Ecco, Dino ci diventa mitico come Potjomkin». Poi ne
arrivò perfino un'altra di nave con lo stesso nome storpiato in
«Frisonullo». I profughi kurdi, in fuga dalla guerra etnica dei generali
turchi della Nato, pensavano che l'Italia li avrebbe accolti a braccia
aperte se solo avessero innalzato quel vessillo, quel nome a loro così
vicino e caro: era di un uomo che, per i kurdi e come loro, era finito nelle
prigioni di Ankara. L'Italia era per loro «Frizullo», quasi un anagramma.
Come per Ocalan - prima che venisse consegnato ai Servizi segreti
internazionali per finire nella galera speciale di Imrali - l'Italia
rappresentava il luogo dove avviare una svolta e trattativa per una lotta
arrivata a un punto di non ritorno e altrimenti sconfitta. Sì, era stato
Dino a pensare che il Celio, l'ospedale militare dove si supponeva dovesse
transitare il leader kurdo, dovesse diventare un presidio permanente, fino a
trasformare il nome del luogo in «Piazza Kurdistan». Scherzavamo con Dino:
gli scavi archeologici di Roma non se la sarebbero presa più di tanto, in
fondo Celio Vibeuna era stato un eroe mitico degli etruschi (originari in
parte proprio dell'antica Lidia, l'attuale Turchia e Kurdistan) quando quel
popolo governava su Roma. Già, questa è la storia profonda degli uomini e
delle donne che ci ostiniamo a considerare «immigrati», «clandestini» e
«profughi» e a chiudere nei campi di concentramento dei centri di
accoglienza. Addio Dino senza confini, sempre sereno eppure vulcano, con il
sorriso acceso dei perdenti che ricominciano tutto ogni giorno. Così
«irresponsabile» ed eguale a noi. Dino, graffiato di rabbia e d'amore.

Tommaso Di Francesco (Da il manifesto)

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