Regista:
Atom Egoyan
Il
genocidio armeno secondo Atom Egoyan, in un film elegante
e ambiguo, ma sostanzialmente irrisolto.
“Ararat” è sicuramente il film
più sentito di Atom Egoyan, quello in cui il
regista armeno-canadese mette a nudo le radici antropologiche
del suo cinema.
Raccontare il genocidio del popolo armeno (del quale
troppo poco si è scritto, perché, come
afferma lo stesso Egoyan, “In Armenia non c’è
il petrolio”) attraverso la messa in scena di
un film nel film, e dunque ricorrere alla tematizzazione
del mezzo cinematografico come pretesto per riaprire
una polverosa pagina di storia, equivale, per l’autore
di “Exotica”, ad un viaggio a ritroso
nel tempo, alla riscoperta del brodo primordiale che
è la genesi del suo essere regista.
Restituire al cinema una funzione a suo modo didattica
sembra essere l’imperativo morale che muove
l’urgenza rappresentativa di Egoyan: e “Ararat”
è a suo modo un film didattico, a tratti persino
rosselliniano nel suo anelito di rappresentazione
dialettica delle diverse istanze. Questo è
il fascino e al tempo stesso il limite di un’operazione
sostanzialmente ambigua, giocata su di una pluralità
di registri, orchestrata secondo le direttive della
polifonia a tratti dissonante. Egoyan filtra tutto
attraverso la lente deformante del cinema, ricostruisce
alcuni momenti topici della strage armena come se
si trattasse di una messa in scena ingessata e vagamente
(volutamente?) tediosa, al fine di creare straniamento;
racconta di uomini alle prese con dilemmi morali apparentemente
insolubili, ne decostruisce le dinamiche psicologiche
centellinandone le azioni, attraverso un racconto
dalle cadenze distillate, prendendosi tutto il tempo
necessario. Così facendo, però, raffredda
l’emozione a livelli quasi glaciali, quasi avesse
paura di esternare tutto il suo disagio di fronte
alla materia trattata.
Ossessionato da sempre dall’idea del controllo
totale del materiale diegetico e filmico, Egoyan rifiuta
l’approccio empatico, ma alla distanza tradisce
inevitabilmente un certo coinvolgimento: il risultato
è una sorta di cortocircuito emotivo, che attrae
e respinge lo sguardo, e in un certo senso compromette
la messa in scena. Legato indissolubilmente ad un’idea
di cinema suggestiva ma a lungo andare monocorde,
Egoyan si scontra con i suoi fantasmi e rischia di
deragliare con il suo film.
Rimane un’opera suggestiva, puntellata da immagini
abbacinanti ed elegantissime, in perfetto Egoyan-style
(ma con qualche deriva antonioniana di troppo…),
ma troppo compresa nel suo anelito di dire tutto,
di raccontare tutto, di essere ovunque, di dispiegare
il proprio discorso nella maniera più chiara
e pedagogicamente efficace possibile. Da Fast Forward
quasi tutte le scene di battaglia, e la prima parte
dell’interrogatorio alla dogana.
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