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Se il girotondo fa male
di PAOLO FLORES DARCAIS
Le sezioni riunite della Corte di Cassazione hanno detto no alla pretesa di impunità avanzata dal capo del governo (che è anche imputato), tramite i suoi difensori (che sono anche suoi parlamentari). Alla pretesa, cioè, che il governo sia come il sovrano ai bei tempi del re sole: "legibus solutus". Al di sopra delle leggi, valide solo per la gente comune ma non per "l'unto del Signore". Questo e non altro vuole infatti ottenere la maggioranza berlusconiana con la raffica di leggi contro la giustizia che da un anno e mezzo monopolizza e surroga ogni attività di governo. Per lo Stato di diritto si tratta di uno scampato pericolo. Di questi tempi non è poco. Anche se la prepotenza di una maggioranza che punta al regime già rinnova i bellicosi propositi contro la "eversione" di Montesquieu, già promette altre prevaricazioni contro la divisione dei poteri tipica di ogni democrazia liberale. Lo Stato di diritto è dunque ancora a repentaglio. Ecco perché alla soddisfazione di ogni democratico liberale, deve accompagnarsi la cautela e la riflessione. Anche il Procuratore generale della Cassazione, infatti, aveva chiesto che il processo non fosse trasferito da Milano. Ma con argomenti che costringono alla più grande perplessità. Il procuratore Siniscalchi, infatti, aveva sostenuto come oggi non sussistessero affatto minacce all'imparzialità del processo, mentre sarebbero state presenti a Milano un anno fa. A causa del discorso di inaugurazione dell'anno giudiziario del dottor Borrelli e della manifestazione del Palavobis. Questi argomenti vanno analizzati con grande attenzione, anche qualora venissero respinti nella motivazione della sentenza - come è ovviamente augurabile - perché sono stati comunque espressi ad altissimo livello, e potrebbero implicare un'improponibile limitazione di diritti costituzionalmente tutelati (di opinione e di manifestazione). Parto dal secondo fattore - il Palavobis - che avrebbe impedito a suo tempo di amministrare a Milano una giustizia imparziale, visto che di quella manifestazione sono stato il principale responsabile. Quel giorno, venti persone - di fronte alle quarantamila che gremivano il teatro-tenda e i prati circostanti - hanno espresso la loro opinione sul rapporto tra giustizia e politica: sulle scelte della maggioranza di governo, criticate aspramente, ma anche sugli atteggiamenti della minoranza di centro-sinistra, soprattutto in relazione alla sciagurata "bicamerale" con le sue sette "bozze Boato". Fra i venti oratori non vi era nessun magistrato. Non che sarebbe stato illegittimo, sia chiaro. Un magistrato ha il diritto di esprimere le sue opinioni (il dottor Nordio, magistrato a Venezia, dove per anni ha inquisito i vertici della sinistra - magistrato apprezzatissimo dalla maggioranza berlusconiana, che gli ha affidato la riscrittura di interi codici - lo fa un giorno sì e l'altro pure - legittimamente - su importantissimi quotidiani filogovernativi del paese). Un magistrato deve astenersi solo dall'esprimere il suo punto di vista sui procedimenti in corso con i quali ha relazione. Al Palavobis, comunque, nessun magistrato ha preso la parola. Lo hanno fatto solo venti cittadini, alcuni noti, altri meno, altri affatto. Esprimendo le loro libere opinioni. Certamente invise al governo, e che non sono piaciute granché neppure a settori influenti dell'opposizione. Dunque, possono non essere piaciute anche al Procuratore Siniscalchi. Condannarle come cittadino è un suo diritto, esattamente come pronunciarle è un diritto di chi al Palavobis ha attaccato il governo (e parte dell'opposizione). La democrazia infatti è questo: diritto alle proprie opinioni, libere, minoritarie, dissenzienti. Cosa c'entra però una manifestazione pacifica (gradita o sgradita che sia, comunque tutelata dalla Costituzione) con l'imparzialità di una sede giudiziaria? Cioè con l'ipotesi che l'insieme dei collegi giudicanti in quella città, tale imparzialità non la garantisca più? Nulla, evidentemente. Come fa ad essere intimidatoria, infatti, cioè ad avere l'effetto di "costringere" tutti i magistrati di un distretto a non ascoltare più la propria coscienza e a disattendere la legge, una manifestazione pacifica? Se così fosse, ogni opinione che pesi potrebbe essere accusata di dar luogo ad intimidazione. E le opinioni di chi controlla le leve del governo, o di una maggioranza parlamentare, pesano infinitamente più dei 40 mila del Palavobis. Di conseguenza, nessun deputato della maggioranza dovrebbe criticare mai un giudice. O nessun giornale filoberlusconiano (quasi tutti), non appena superi le 40 mila copie, e nessuna rete televisiva controllata da Berlusconi (tutte), per la quale 40mila spettatori sarebbero nulla e l'unità di misura è il milione. Inoltre, se si stabilisse che una manifestazione politica pacifica può costituire una minaccia all'imparzialità dei magistrati della zona, nascerebbero alcuni vistosi paradossi: laddove vi fosse una sola manifestazione antimafia non si dovrebbe processare la mafia, ad esempio (quando è più probabile che la mancanza di tali manifestazioni indichi una capacità di intimidazione pesantissima da parte delle cosche). E nessun terrorista potrebbe più essere processato laddove vi fossero manifestazioni contro il terrorismo. A Treviso, infine e da molti anni, non dovrebbe essere processato più nessun extra-comunitario, quale che sia la gravità del reato, visto che la pressione "intimidatoria" del sindaco Gentilini è, fatte le debite proporzioni, ben più forte di qualsiasi Palavobis. E veniamo al discorso di Francesco Saverio Borrelli. Che invitò a resistere sulla linea del Piave della legalità (del resto questo fu anche lo slogan del Palavobis), contro tutte le tentazioni al disgregarsi delle coscienze civili. In che senso questa sarebbe una interferenza politica inammissibile? E tale da distruggere l'imparzialità dell'intero distretto giudiziario milanese? Nessun Procuratore generale, nell'inaugurare l'anno giudiziario, può evitare di dare un giudizio - per frasi od omissioni - su quanto i politici - con le loro leggi od omissioni - hanno fatto in tema di giustizia nell'anno trascorso. Con questo ragionamento, però, tutti i politici che non condividano l'analisi avanzata dal Procuratore generale in quel distretto (e tutti i loro amici di partito, o addirittura elettori) non potrebbero mai essere giudicati nello stesso, quale che fosse il reato di cui sono imputati. Che fine farebbe, in questo modo, la previsione costituzionale del "giudice naturale"? Posto infine che fosse sospettabile il Procuratore per il suo "resistere" (il che, abbiamo visto, non è), perché mai diventerebbero sospetti tutti gli altri magistrati del distretto? Neanche la legge sui sospetti di giacobina memoria arrivava a tanto. Da noi anche il sospetto, almeno come la responsabilità, dovrebbe essere sempre personale, mai collettivo. Delle reazioni di parte berlusconiana alla sentenza della Cassazione, ci occuperemo domani.

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