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Giro90
Boicotta
Le duecento società che controllano il mondo
Frédéric F. Clermont,
da Le Monde Diplomatique.
Mentre i 50.000 operai siderurgici
di Thyssen manifestavano a Francoforte, la Krupp
rinunciava a lanciare la sua offerta pubblica
di acquisto, in conflitto con la sua concorrente.
In compenso, le due imprese tedesche annunciavano
la creazione di una società comune dell'acciaio,
decisione che dovrebbe tradursi in migliaia di
licenziamenti. E d'altra parte, anche la chiusura
dello stabilimento di Vilvoorde (Belgio) da parte
della Renault contribuisce a illustrare il disprezzo
nel quale sono tenuti i lavoratori. Due esempi,
tra molti altri, del ruolo giocato dalle 200 principali
imprese multinazionali su scala planetaria, mosse
da interessi particolari che si discostano sempre
più dall'interesse generale. Dall'inizio
degli anni 80, queste "prime duecento"
hanno conosciuto, attraverso le fusioni e i riscatti
di imprese, un'espansione ininterrotta, grazie
alla quale esercitano un dominio per così
dire totalitario non solo sull'economia, ma anche
sull'informazione e sulle menti.
di Frédéric F. Clermont
*
Si cercherebbe invano, nei discorsi
elettorali o in quelli degli adepti della teoria
neoclassica, la minima allusione al fatto che
le concentrazioni di imprese sono oramai il principale
motore dell'accumulazione del capitale. Certo,
si è trattato di una costante nella storia
del capitalismo, se non di una condizione della
sua sopravvivenza come modalità di dominio
di classe; ma il suo ritmo non era mai stato così
rapido.
Dalla metà degli anni 70 l'accumulazione
del capitale si realizza essenzialmente tramite
le annessioni di imprese, i riscatti e le fusioni,
Combinata alla colossale espansione dei flussi
finanziari, speculativi e non, essa agisce direttamente
sulle decisioni di investimento: ma nulla di tutto
ciò viene spiegato chiaramente ai lavoratori,
benché sia in gioco il loro destino. Si
insiste invece sul ruolo dinamico del "mercato",
che dovrebbe guidare le decisioni delle grandi
società. Ma a sette anni dallo smembramento
dell'Unione sovietica, con la colonizzazione massiccia
dell'Est europeo, il rallentamento della crescita,
l'aggravarsi degli antagonismi in seno alle nazioni
e all'interno stesso del mondo imperialista, dove
sono le gloriose promesse del "libero mercato?"
(1) Intravista per qualche attimo alla fine degli
anni 80, la tanto vantata "ripresa economica"
non ha mantenuto le sue promesse. Le industrie
manifatturiere mondiali (a eccezione di quelle
cinesi) lavorano soltanto al 70-75% della loro
capacità. Il debito mondiale (che comprende
quello delle imprese, degli stati e delle famiglie)
ha superato 33.100 miliardi di dollari, pari al
130% del prodotto interno lordo (Pil) mondiale,
e progredisce a un tasso del 6-8% l'anno vale
a dire oltre il quadruplo della crescita del Pil
mondiale. Queste disparità dei tassi sono
insostenibili e hanno conseguenze disastrose (2).
Dovunque, in tutti i settori, i salari reali diminuiscono
sotto i colpi delle ristrutturazioni, delle chiusure
di fabbriche e delle delocalizzazioni. Nelle sole
economie capitaliste "avanzate", il
numero dei disoccupati supera i 41 milioni, e
non è finita ...
Ma la crisi, con le sue centinaia di milioni di
vittime, non colpisce le compagnie transnazionali.
Cantando le lodi delle realizzazioni delle 500
imprese globali censite da Fortune, gli autori
di questo elenco notano con compiacimento che
"esse hanno travolto le frontiere per impossessarsi
di nuovi mercati e inghiottire i concorrenti locali.
Più sono i paesi, più aumentano
i profitti. I guadagni delle 500 maggiori imprese
sono cresciuti del 15%, mentre l'aumento dei loro
redditi ha raggiunto l'11% (3)" All'inizio
degli anni 90, circa 37.000 compagnie transnazionali,
con le loro 170.000 filiali, stringevano nei loro
tentacoli l'economia internazionale. Ma il vero
potere si concentra nella cerchia più ristretta
delle "prime duecento", che dall'inizio
degli anni 80 hanno conosciuto un'espansione ininterrotta
(4) attraverso le fusioni e i riscatti di imprese.
La quota del capitale transnazionale nel Pil mondiale
è infatti passata dal 17% della metà
degli anni 70 al 24% nel 1982 a oltre il 30% nel
1995. Le "prime duecento" (5) sono conglomerati
le cui attività coprono, senza distinzioni,
i settori primario, secondario e terziario: grandi
aziende agricole, produzioni manifatturiere, servizi
finanziari, commercio ecc.
Geograficamente si ripartiscono tra 10 paesi:
Giappone (62) Stati uniti (53) Germania (23) Francia
(19), Regno unito (11), Svizzera (8), Corea del
Sud (6) Italia (5) e Olanda (4). Se si eccettuano
alcune società anglo-olandesi a capitale
misto (i gruppi Shell e Unilever), restano in
corsa soltanto 8 paesi, che totalizzano il 96,5%
delle "prime duecento" e il 96% del
loro fatturato. Ma in realtà la concentrazione
è ancora maggiore di quanto non facciano
pensare queste statistiche. Infatti, le compagnie
appartenenti alla categorie delle "prime
duecento" non sono tutte società autonome,
come è dimostrato dagli esempi ben noti
della Mitsubishi, della Sumitomo e della Mitsui,
per citarne solo alcune. Esistono cinque imprese
Mitsubishi tra le "prime duecento",
il cui fatturato aggregato supera i 320 miliardi
di dollari. Queste entità in seno all'impero
Mitsubishi, benché dotate di un elevato
grado di autonomia, sono strategicamente intrecciate
le une alle altre in materia di amministrazione,
di prezzi, di commercializzazione e di produzione.
Lo stesso vale per quanto riguarda le loro comuni
reti economiche, politiche e di spionaggio. Il
loro agente politico è il partito liberal-democratico
(Pld) le cui spese di funzionamento sono coperte
nella misura del 37% dall'impero Mitsubishi. Tra
le "prime duecento", le disparità
di potere non hanno cessato di accentuarsi durante
il processo di espansione che hanno conosciuto
in questi due ultimi decenni, in particolare in
ragione della guerra in atto tra loro per aggiudicarsi
quote sempre maggiori del mercato mondiale. In
effetti, tra il 1982 e il 1995 il numero delle
compagnie americane è sceso da 80 a 53,
mentre quello delle società giapponesi
è aumentato, durante lo stesso periodo,
da 35 a 62.
Un tempo prima potenza imperiale, il Regno unito
ha visto il numero delle sue società crollare
da 18 a 11. In compenso è emerso un nano
geografico e demografico, la Svizzera. Ma l'aspetto
più sorprendente è stata la rapida
ascesa delle società sudcoreane, il cui
numero è passato da 1 a 6 in un periodo
di tempo relativamente breve. In testa figura
la Daewoo, uno dei gruppi transnazionali di più
aggressivo espansionismo, punta di lancia dell'imperialismo
coreano. Con un fatturato di oltre 52 miliardi
di dollari, ha superato colossi quali la Nichimen,
la Kanematsu, la Univeler o la Nestlé.
L'espansione planetaria della Daewoo è
abbastanza sintomatica della potenza dei chaebol,
i conglomerati coreani. Gli attivi dei trenta
primi chaebol sono aumentati da 223 miliardi di
dollari del 1992 a 367 miliardi nel 1996, e rappresentano
oltre quattro quinti del Pil coreano (6). Inoltre,
sono le compagnie che occupano i quattro primi
posti Daewoo, Sandgong, Samsung e Hyundai a spartirsi
la metà di questi attivi (185 miliardi
di dollari). Nel gennaio scorso, la rivolta operaia
ha fatto volare in frantumi il mito del "miracolo
coreano", ma non è affatto detto che
il risultato sia un rallentamento dell'espansione
di questi giganti, all'interno del paese e fuori.
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza
i miliardi di dollari forniti dagli Stati uniti
durante la fase della crescita coreana, negli
anni tra il 1947 e il 1955; dopo di che subentrarono
decine di miliardi di dollari di sovvenzioni pubbliche.
Nella Corea del Sud, come del resto in Giappone,
non esiste una linea di demarcazione ben definita
tra i chaebol e lo stato (7). Alle sovvenzioni
pubbliche andrebbe poi aggiunta la repressione
spietata della classe operaia e la liquidazione
dei diritti della persona. Tutti i politici, senza
eccezione alcuna, così come i membri delle
alte gerarchie militari, sono azionisti di primo
piano, che siedono nei consigli di amministrazione
delle grandi compagnie. Nella confraternita dei
chaebol, tutti si conoscono e i matrimoni si combinano
all'interno.
Chi non ricorda la frase pronunciata dal grande
industriale tedesco Walter Rathenau nel 1909:
"Trecento uomini, che si conoscono tutti
tra loro, dirigono i destini dell'Europa e cooptano
al loro interno i propri successori (8)?"
Helmut Maucher, direttore generale della Nestlé
oltre che "impresario" del Forum di
Davos, presiede La tavola rotonda europea degli
industriali, il Club delle élites appartenenti
a 47 società nel novero delle "prime
duecento". Avversario implacabile della carta
sociale europea, è un militante attivo
della flessibilità del lavoro, come tutti
i membri della sua casta. Dal 1986 al 1996 le
fusioni di imprese si sono moltiplicate al ritmo
del 15% l'anno, e non si vedono segni di rallentamento
nel prossimo futuro. Se dunque le cose non cambieranno
da qui al 2000, il costo cumulato di questo genere
di transazioni raggiungerà circa 10.000
miliardi di dollari (a titolo di confronto, il
Pil degli Stati uniti era, nel 1996 e a livelli
di prezzi correnti, di 7.600 miliardi di dollari).
Evidentemente, in questo periodo contrassegnato
dalla deflazione e dal rallentamento della crescita,
dalla sottoccupazione e dall'indebitamento, le
società transnazionali non hanno altro
mezzo, per promuovere la propria espansione, che
quello di assorbire le loro concorrenti per conquistare
così nuovi mercati.
Le fusioni di imprese permettono inoltre la realizzazione
di economie di scala sul mercato mondiale. Vi
fanno ricorso molte compagnie transnazionali,
quali la Boeing e le tre grandi società
automobilistiche degli Stati uniti, oppure, in
Giappone e nella Corea del Sud, i giganti dell'automobile,
dell'elettronica e delle costruzioni navali. Cinque
tra le maggiori imprese transnazionali hanno messo
le mani su oltre la metà del mercato mondiale
nei settori chiave dell'aerospaziale, delle forniture
elettriche, delle componenti elettroniche e del
software; altre due hanno fatto altrettanto nella
ristorazione rapida, e cinque nei settori delle
bibite, del tabacco e delle bevande alcooliche.
L'ascesa delle transnazionali è incoraggiata
non solo dai governi dei rispettivi paesi, ma
anche dalle enormi sovvenzioni e dai privilegi
fiscali offerti da paesi d'accoglienza quali il
Regno unito e l'Irlanda, così come dai
governi dell'Europa dell'Est, che stanno svendendo
il patrimonio nazionale a colpi di privatizzazioni
e di incentivi fiscali di ogni genere.
Fusioni e alleanze di società (come l'alleanza
tra la Shell e la Bp) contribuiscono all'edificazione
di un complesso economico totalitario. "Liberalizzazione",
"privatizzazione", "deregulation",
"sistema del libero commercio internazionale",
sono altrettanti argomenti razionali che dovrebbero
giustificare quest'evoluzione. In questo movimento
di concentrazione, le grandi banche di investimenti,
i fondi mutui e i fondi pensione giocano un ruolo
preponderante (leggere l'articolo a pagina 18).
Wall Street, dal canto suo, esercita pressioni
per gonfiare i guadagni dei "valori di portafoglio";
e le banche di investimenti trovano in tutto questo
il loro tornaconto.
Il caso della Goldman Sachs, una delle principali
banche di investimenti, al primo posto nel mondo
per il consolidamento delle società transnazionali,
è esemplare a questo riguardo. I suoi profitti
sono raddoppiati nel giro di un anno, passando
da 931 milioni di dollari nel 1995 a 1,9 miliardi
nel 1996.
Applicando le sue ricette, questa banca ha ridotto
del 20% i suoi effettivi in questi ultimi anni,
per non essere handicappata da un "costo
del lavoro troppo elevato". Il che non le
impedisce di pagare oltre 200.000 dollari di dividendi
annui a ciascuno dei suoi 175 associati, in aggiunta
ai profitti sul loro capitale.
Alla Morgan Stanley (9), il presidente ha percepito
oltre 14 milioni di dollari di dividendi nel 1996,
pari a un aumento del 30% rispetto all'anno precedente.
Ma queste banche, non contente di incoraggiare
le fusioni di imprese, si impegnano direttamente
sulla stessa strada. La fusione tra la Morgan
Stanley e la Dean Witter ha dato origine a una
delle più grosse società di investimenti
e titoli del mondo, il cui valore di mercato è
di oltre 24 miliardi di dollari (10). E quest'evento
ha scatenato una reazione a catena tra le altre
banche di investimenti e le società di
intermediazione.
Quanto potrà durare questo gioco? "Francamente,
nessuno lo sa, dichiara un commissario ai conti
della City. Le banche impegnano somme molto rilevanti.
Stiamo spingendo all'impazzata alle fusioni, che
sono il nostro nutrimento". Questo esperto
altamente qualificato riconosce così senza
mezzi termini che quest'orgia di annessioni di
imprese si finanzia mediante l'indebitamento.
Né più né meno dell'economia
mondiale. La Novartis, nata nel 1996, occupa il
secondo posto tra i giganti dell'industria farmaceutica,
Questa società è il prodotto di
una fusione tra la Sandoz e la Ciba-Geigy: si
è trattato della maggiore operazione del
genere nella storia delle transnazionali, che
in commissioni e onorari di legali ha fruttato
circa 95 milioni di dollari, ripartiti tra la
Morgan Stanley e l'Union de Banque Suisse (Ubs).
Da un giorno all'altro, il capitale della Novartis
è balzato da 63 miliardi di dollari a 82
miliardi. Quando una manna del genere cade nei
forzieri di un ristrettissimo gruppo di finanzieri,
come parlare di crisi del capitalismo? Tuttavia
la medaglia ha il suo rovescio: la nascita della
Novartis ha comportato massicce liquidazione di
posti di lavoro, prontamente eseguite in nome
delle abituali "economie dei costi"
e "ristrutturazioni". Di colpo, le azioni
delle due società hanno conosciuto un rialzo
senza precedenti.
Il 10% della forza lavoro sarà eliminato
in una prima fase. E le conseguenze in termini
di aggravamento della miseria non impediscono
agli ambienti della finanza di presentare l'operazione
come una vittoria della razionalità di
mercato.
Allo stesso modo si esulta, a Wall Street e su
tutti i mercati finanziari, per l'assorbimento
da parte della Boeing della McDonnell Douglas
(14 miliardi di dollari). Ma stavolta c'è
stata una differenza nella strategia dell'annessione,
dato che quest'acquisto non è solo il risultato
di una decisione del consiglio d'amministrazione
della Boeing, ma era stato vigorosamente incoraggiato
dal Pentagono e dal dipartimento del commercio,
preoccupato di favorire la penetrazione del settore
aerospaziale americano sui mercati internazionali.
Le conseguenti liquidazioni di posti di lavoro
sono state massicce. Peraltro, dal 1992 il numero
degli stabilimenti che lavorano per la difesa
è crollato da 32 a 9, con la perdita di
oltre 1 milione di posti di lavoro (11).
In quest'ultimo esempio, le considerazioni strategiche
non sono dissociabili dalla ricerca del profitto,
dato che i titolari della Boeing e i dipartimenti
della difesa e del commercio degli Stati uniti
miravano a qualcosa di più di un'estensione
delle quote di mercato aperte alle esportazioni
americane. Era venuto per loro il momento di emarginare,
se non di liquidare l'Airbus. Grazie all'apporto
della McDonnell Douglas, la Boeing detiene ormai
il 64% del mercato. L'impresa beneficierà
inoltre degli ordinativi della difesa che in precedenza
andavano alla McDonnell Douglas. E infine, il
suo accesso ai finanziamenti del settore pubblico
federale risulta rafforzato . Per il 1997 la Boeing
ha previsto entrate per 51 miliardi di dollari,
di cui il 40% proveniente dagli ordinativi della
difesa. Dove sono i criteri di mercato in tutto
questo? Acquistando la McDonnell (e altri acquisti
seguiranno inevitabilmente su questa scia) la
Boeing si assicura enormi sovvenzioni. Quest'impresa
vende i suoi beni e servizi molto al disotto dei
costi di mercato. Le sue attività di ricerca
e sviluppo sono sovvenzionate dal Pentagono fin
dalla fine della guerra, a colpi di decine di
miliardi di dollari oltre che attraverso l'acquisto
di aerei.
Per il momento, il peso schiacciante delle società
transnazionali nell'economia mondiale non ha un
contrappeso equivalente in campo politico. Cosa
avverrà nel prossimo secolo? Queste imprese
potranno conservare le loro strutture totalitarie
di dominio e di sfruttamento? Una crescita infinita
non può esistere in un mondo finito: questa
legge almeno vale per tutti, e si applica anche
alle megaimprese. Nessuno può dire dove
si fermerà il movimento di concentrazione
capitalistica, né se e quando troverà
un suo limite. Ma fin d'ora, i guasti sociali
e politici determinati dalle fusioni e dai riscatti
in serie stanno aprendo numerose crepe nell'edificio
...
note:
* Economista
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