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Giro89
Movimento
Chomsky e la questione mediorientale
a cura di sabrina fusari (Peacelink).
Articolo inedito di Noam Chomsky sulla questione
mediorientale. Pubblicato nell'originale inglese
su "Red Pepper", maggio 2002 - USA - Israele-Palestina,
9 aprile 2002
Un anno fa, il sociologo dell'Università
Ebraica Baruch Kimmerling
affermava che "Quello che temevamo si è
realizzato". Ebrei e palestinesi
stanno "regredendo ad un tribalismo superstizioso
... La guerra pare ormai
un destino inevitabile", una guerra "coloniale
e malvagia". Dopo
l'invasione dei campi profughi da parte di Israele
quest'anno, il suo
collega Ze'ev Sternhell ha scritto che "In
una Israele coloniale ... la
vita umana ha scarso valore". La leadership
"non si vergogna più di parlare
di guerra, quando ciò in cui è realmente
impegnata è un'operazione di
polizia coloniale, che ricorda l'occupazione,
da parte della polizia
bianca, dei quartieri poveri neri in Sudafrica
durante l'era
dell'apartheid". Entrambi pongono l'accento
su un dato ovvio: non vi è
simmetria tra questi "gruppi etno-nazionali"
che regrediscono al
tribalismo. Il conflitto è incentrato su
territori che si trovano sotto una
dura occupazione militare da 35 anni. Il conquistatore
è una potenza
militare di rilievo, che agisce con il consistente
sostegno bellico,
economico e diplomatico della superpotenza globale.
I suoi sudditi sono
soli e privi di difese, molti si arrabattano per
sopravvivere in campi
profughi poverissimi, e si trovano attualmente
a sopportare un terrore
ancora più brutale, appartenente alla familiare
tipologia delle "guerre
coloniali e malvagie", e realizzano ormai
essi stessi atrocità terribili
per vendicarsi.
Il "processo di pace" di Oslo ha cambiato
le modalità dell'occupazione, ma
non il concetto di base. Poco prima di entrare
nel governo di Ehud Barak,
lo storico Shlomo Ben-Ami ha scritto che "gli
accordi di Oslo si fondavano
su di una base neocolonialista, su di una vita
di dipendenza di una parte
sull'altra e per sempre". Ben presto, Ben-Ami
divenne un promotore delle
proposte USA-Israele inoltrate a Camp David nell'estate
del 2000, che si
attenevano a questa medesima condizione. Esse
incontrarono alti elogi nei
commenti provenienti dagli USA. I palestinesi
e il loro scellerato leader
furono invece accusati del loro fallimento e della
violenza che ne è
susseguita. Ma si tratta di una "frode"
vera e propria, come ha affermato
Kimmerling, insieme a tutti gli altri commentatori
seri.
È vero, Clinton e Barak hanno fatto alcuni
passi avanti nella direzione di
un insediamento sulla falsariga dei Bantustan.
Poco prima di Camp David i
palestinesi della West Bank vivevano confinati
in oltre 200 aree sparse, e
Clinton e Barak proponevano effettivamente un
miglioramento: consolidare
queste zone in tre distretti, sotto il controllo
di Israele, praticamente
separati gli uni dagli altri e dalla quarta enclave,
una piccola area di
Gerusalemme Est, il centro della vita palestinese
e delle comunicazioni
nella regione. Nel quinto distretto, Gaza, la
situazione fu lasciata
nell'incertezza, a parte la specificazione in
base a cui la popolazione
doveva anche in quel caso restare praticamente
imprigionata. È
comprensibile che le cartine geografiche non siano
comparse nella stampa
statunitense mainstream, così come peraltro
gli altri dettagli delle proposte.
Nessuno può mettere seriamente in dubbio
che il ruolo degli Stati Uniti
continuerà ad essere decisivo. È
quindi di cruciale importanza comprendere
quale sia stato questo ruolo, e come venga percepito
dall'interno. La
versione delle colombe è presentata dagli
editorialisti del New York Times
(7 aprile) nel loro elogio dell'"energico
discorso" del Presidente, e della
"visione emergente" da lui espressa.
Il primo elemento è l'immediata "fine
del terrorismo palestinese". Poco dopo viene
il fatto di "congelare, per
poi fare indietreggiare, gli insediamenti ebraici,
e la negoziazione dei
nuovi confini" per porre fine all'occupazione
e consentire la costituzione
di uno Stato palestinese. Se finisce il terrorismo
palestinese, gli
israeliani saranno spinti a "prendere più
seriamente la storica offerta da
parte della Lega araba di una pace e di un riconoscimento
completi in
cambio di un ritiro israeliano". Ma prima
i leader palestinesi devono
dimostrare di essere "legittimi partner politici".
Il mondo reale somiglia ben poco a questo ritratto
autoreferenziale praticamente copiato dagli anni
Ottanta, quando USA ed
Israele cercavano disperatamente di lasciar cadere
le offerte di negoziati
ed accordi politici provenienti dall'OLP, attenendosi
alla richiesta di non
intraprendere negoziati con l'OLP, di non avere
alcun "ulteriore Stato
palestinese..." (in quanto la Giordania era
già uno Stato palestinese), e
"nessun cambiamento nello status della Giudea,
della Samaria e di Gaza, se
non in osservanza delle linee guida basilari del
governo [israeliano]" (il
piano di coalizione elaborato nel maggio 1989
da Peres-Shamir, sottoscritto
da Bush I nel Piano Baker del dicembre 1989).
Tutto ciò non ha trovato
spazio nei media mainstream statunitensi, come
è sempre avvenuto
regolarmente, mentre, nei commenti, si denunciava
la testarda
determinazione dei palestinesi nel perseguire
la linea terroristica, che
metteva a repentaglio gli sforzi diplomatici umanitari
degli Stati Uniti e
dei loro alleati.
Nel mondo reale, la principale barriera contro
cui si scontra questa
"visione emergente" è, e resta,
il sistematico rifiuto da parte degli USA.
Vi è ben poco di nuovo nella "storica
offerta da parte della Lega araba",
che anzi ribadisce i termini di base di una Risoluzione
del Consiglio di
Sicurezza del gennaio 1976, sostenuta praticamente
da tutto il mondo,
compresi i principali paesi arabi, l'OLP, l'Europa,
il blocco sovietico,
insomma da tutti quelli che contavano. Ma ha incontrato
l'opposizione di
Israele e il veto degli USA e dunque, il veto
della storia. La Risoluzione
chiedeva un negoziato politico sui confini riconosciuti
a livello
internazionale "con accordi adatti ... a
garantire ... la sovranità,
l'integrità territoriale e l'indipendenza
politica di tutti gli Stati
dell'area e il diritto a vivere in pace entro
confini sicuri e
riconosciuti" di fatto, una modifica della
242 ONU (così la interpretavano
ufficialmente anche gli Stati Uniti), con un ampliamento
volto a includere
uno Stato palestinese. Analoghe iniziative da
parte dei paesi arabi,
dell'OLP e dell'Europa sono sempre state bloccate
dagli USA e perlopiù
sottaciute o negate nei commenti pubblicamente
disponibili.
Il sistematico rifiuto da parte statunitense risale
però a 5 anni prima, al
febbraio 1971, quando il presidente egiziano Sadat
propose ad Israele un
trattato di pace completa in cambio del ritiro
israeliano dai territori
egiziani occupati, senza neanche sollevare la
questione dei diritti
nazionali palestinesi o il destino degli altri
territori occupati. Il
governo laburista israeliano riconobbe che si
trattava di un'offerta
sincera di pace, ma decise di rifiutarla, nell'intenzione
di estendere i
propri insediamenti verso il Sinai nord-orientale;
cosa che ben presto
fece, con estrema brutalità, la causa immediata
della guerra del 1973.
Israele e gli Stati Uniti compresero che la pace
era possibile, in accordo
con la politica ufficiale statunitense. Ma, come
spiegò il leader laburista
Ezer Weizmann (in seguito eletto Presidente),
un simile risultato non
avrebbe permesso ad Israele di "esistere
nella misura, nello spirito e
nella qualità che attualmente essa incarna".
Il commentatore israeliano
Amos Elon scrisse che Sadat aveva seminato il
"panico" nella leadership
politica israeliana, annunciando la sua volontà
di "entrare in un accordo
di pace con Israele e di rispettarne l'indipendenza
e la sovranità 'entro
confini sicuri e riconosciuti'".
Kissinger è riuscito a bloccare la pace,
facendo prevalere la sua
preferenza per una situazione da lui stesso definita
di "stallo": niente
negoziati, solo forza. Le offerte di pace provenienti
dalla Giordania
furono anch'esse rigettate. Da allora, la politica
ufficiale degli USA
consiste nell'attenersi al consenso internazionale
sul ritiro (fino a
Clinton, che ha di fatto abrogato le Risoluzioni
dell'ONU e le osservazioni
sul diritto internazionale); ma all'atto pratico,
la politica ha seguito la
linea Kissinger, ossia l'accettazione dei negoziati
soltanto sotto
costrizione così come Kissinger stesso
era stato costretto ad accettare i
negoziati dopo la quasi-débâcle della
guerra del 1973, di cui egli ha una
grossa responsabilità e alle condizioni
ben espresse da Ben-Ami.
I piani riguardanti la popolazione palestinese
hanno seguito le linee guida
formulate da Moshe Dayan, uno dei leader laburisti
più aperti nei confronti
della questione palestinese. Dayan propose al
governo israeliano di
chiarire ai profughi che "non abbiamo altra
soluzione, continuerete a
vivere come cani. Chi vuole, può anche
andarsene, e vedremo dove ci porta
questo processo". A chi lo contestava, Dayan
rispondeva citando Ben-Gurion,
che "affermava che chiunque si accosti alla
problematica sionista da un
punto di vista morale non è sionista".
Avrebbe potuto citare anche Chaim
Weizmann, che sosteneva che il fato delle "diverse
migliaia di neri"
abitanti nella patria ebraica "è un
fatto di scarsa importanza".
Non sorprende che il principio ispiratore dell'occupazione
sia
un'umiliazione incessante e degradante, oltre
alla tortura, al terrore,
alla distruzione delle proprietà, alla
cacciata della popolazione civile
per fare spazio agli insediamenti, alla presa
di possesso delle risorse di
base, principalmente l'acqua. Naturalmente, per
fare ciò, vi è sempre stato
bisogno di un deciso sostegno statunitense, che
si è protratto anche
nell'era Clinton-Barak. "Il governo Barak
sta lasciando un'eredità
sorprendente al governo Sharon", ha scritto
la stampa israeliana durante la
transizione: "il più elevato numero
di avvii di nuove costruzioni abitative
dai tempi in cui Ariel Sharon era Ministro delle
Costruzioni e degli
Insediamenti, nel 1992, prima degli accordi di
Oslo". I finanziamenti
provenivano dai contribuenti statunitensi, ingannati
da favole fittizie
sulle "vedute" e sulla "magnanimità"
dei leader di Washington, sconfitti da
terroristi come Arafat che avevano deluso "la
nostra fiducia", ma forse
anche da alcuni estremisti israeliani che avevano
reazioni esagerate
davanti a questi crimini.
Cosa debba fare Arafat per riguadagnare la nostra
fiducia, ce lo spiega
brevemente Edward Walker, il funzionario del Dipartimento
di Stato
incaricato della regione nell'era Clinton. Il
subdolo Arafat deve
annunciare senza ambiguità che "Mettiamo
il nostro futuro e il nostro
destino nelle mani degli USA", che peraltro
conducono da trent'anni una
campagna per sabotare i diritti dei palestinesi.
Nei commenti più seri, si ammette che la
"storica offerta" in questione
ribadisce ampiamente il piano saudita Fahd del
1981 fatto naufragare, come
fu regolarmente affermato, dal rifiuto da parte
araba di accettare
l'esistenza dello Stato di Israele. Anche in questo
caso, però, i fatti
sono ben diversi. Il piano del 1981 fu fatto fallire
da una reazione
israeliana condannata perfino dalla stampa ufficiale
interna come
"isterica". Shimon Peres ammonì
che il piano Fahd "minacciava l'esistenza
stessa di Israele", mentre il Presidente
Haim Herzog protestò che il "vero
autore" del piano Fahd fosse l'OLP, e che
tale piano fosse ancora più
estremo della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza
del gennaio 1976,
"preparata" dall'OLP quando Herzog era
ambasciatore di Israele alle Nazioni
Unite. Tali affermazioni difficilmente possono
essere vere (anche se l'OLP
sostenne pubblicamente entrambi i piani), ma sono
un indicatore, da parte
delle colombe israeliane, confortate per tutto
il tempo dal sostegno deciso
ed indefesso degli Stati Uniti, della paura disperata
che si realizzi un
accordo politico.
Il problema di base è da ricondursi, allora
come oggi, a Washington, che ha
sempre sostenuto il rifiuto da parte di Israele
di pervenire ad un accordo
politico secondo i termini stabiliti dall'ampio
consenso internazionale, e
ribaditi in forma essenziale nella "storica
offerta da parte della Lega araba".
Le attuali modifiche nel rifiuto del problema
da parte statunitense sono
tattiche e, per ora, di scarsa portata. Visto
il pericolo in cui versavano
i piani per attaccare l'Iraq, gli USA hanno consentito
la ratifica di una
Risoluzione dell'ONU in cui si chiedeva il ritiro
degli israeliani dai
territori rioccupati, "senza indugio"
il che significa, "appena
possibile", come ha subito spiegato il Segretario
di Stato Colin Powell. Il
terrorismo palestinese deve finire "immediatamente",
ma il terrorismo
israeliano, di gran lunga più estremo e
in azione da 35 anni, può prendersi
il tempo di cui ha bisogno. Israele ha subito
prodotto un'escalation
dell'attacco, portando Powell ad affermare: "sono
lieto di sentire che il
Primo ministro afferma di star accelerando le
operazioni". Si sospetta da
più parti che l'arrivo di Powell ad Israele
sia stato rimandato per
consentire che esse "accelerino" ancora
di più. Questa posizione
statunitense può benissimo mutare, sempre
per ragioni tattiche.
Gli USA hanno permesso la ratifica di una Risoluzione
dell'ONU che invocava
una "visione" di uno Stato palestinese.
Questo affabile gesto, che ha
incontrato tanta acclamazione, non arriva però
nemmeno al livello del
Sudafrica, quaranta anni fa, quando il regime
dell'apartheid mise realmente
in atto la propria "visione", creando
Stati, governati dai neri, fattibili
e legittimi almeno tanto quanto il protettorato
neocoloniale che gli USA e
Israele hanno in mente da tempo per i territori
occupati.
Frattanto, gli USA continuano ad "agevolare
il terrore", per citare le
parole del Presidente, fornendo ad Israele i mezzi
per realizzare atti di
terrorismo e di distruzione, tra cui un nuovo
invio di elicotteri, i più
avanzati dell'arsenale statunitense (Robert Fisk,
Independent, 7 aprile).
Si tratta di reazioni tipiche nei confronti delle
atrocità commesse da un
regime cliente. Per citare un esempio illuminante,
nei primi giorni di
questa Intifada, Israele usò elicotteri
statunitensi per colpire obiettivi
civili, uccidendo dieci palestinesi e ferendone
trentacinque, il che
difficilmente può qualificarsi come "autodifesa".
Clinton rispose con un
accordo per "il maggiore acquisto di elicotteri
militari da parte
dell'Aeronautica israeliana negli ultimi dieci
anni" (Ha'aretz, 3 ottobre
2001), oltre a pezzi di ricambio per gli elicotteri
da combattimento
Apache. La stampa contribuì rifiutando
di riportare questi fatti. Alcune
settimane dopo, Israele iniziò ad usare
elicotteri statunitensi anche per
commettere omicidi. Uno dei primi atti dell'Amministrazione
Bush è stato
quello di inviare elicotteri Apache Longbow, i
più micidiali a
disposizione. La notizia ha ottenuto una rilevanza
marginale, nelle pagine
di Economia.
L'impegno di Washington ad "agevolare il
terrore" ha ricevuto un'ulteriore
illustrazione in dicembre, quando gli USA hanno
opposto il loro veto alla
Risoluzione del Consiglio di Sicurezza per la
messa in atto del piano
Mitchell e per l'invio di osservatori internazionali
per monitorare la
riduzione delle violenze, il metodo più
efficace, come viene generalmente
ammesso, ma osteggiato da Israele e regolarmente
bloccato da Washington. Il
veto è stato opposto in un periodo di ventuno
giorni di calma ovvero, era
stato ucciso un solo soldato israeliano, oltre
a ventuno palestinesi di cui
undici bambini, e avevano avuto luogo sedici incursioni
israeliane in aree
sotto controllo palestinese (Graham Usher, Middle
East International, 25
gennaio 2002). Dieci giorni prima del veto, gli
USA hanno
boicottato sabotandola una conferenza internazionale
a Ginevra, che ha
concluso ancora una volta che la Quarta Convenzione
di Ginevra si applica
anche ai territori occupati. Pertanto, quasi tutto
quello che USA ed
Israele commettono in quell'area rappresenta una
"grave violazione"; un
"crimine di guerra", in parole povere.
La conferenza ha dichiarato in modo
specifico che gli insediamenti israeliani, finanziati
dagli USA, sono
illegali e ha condannato la prassi rappresentata
da "omicidi volontari,
torture, deportazioni illecite, privazione premeditata
del diritto ad un
processo equo e regolare, distruzioni estese ed
appropriazione indebita ...
realizzati in modo illegale e sfrenato".
Quale parte contraente, gli Stati
Uniti sono obbligati dalla solennità del
trattato a perseguire chiunque
commetta tali crimini, anche qualora si trattasse
della loro stessa
leadership. Di conseguenza, tutto ciò viene
passato sotto silenzio.
Gli USA non hanno ritirato ufficialmente il proprio
riconoscimento
dell'applicabilità delle Convenzioni di
Ginevra ai territori occupati, né
la propria condanna delle violazioni commesse
da Israele in qualità di
"potenza di occupazione" (confermata,
ad esempio, da George Bush I quando
ricopriva la carica di ambasciatore alle Nazioni
Unite). Nell'ottobre del
2000, il Consiglio di Sicurezza ribadì
la propria unanimità su questo
argomento, "esortando Israele, la potenza
di occupazione, ad attenersi
scrupolosamente agli obblighi sanciti dalla Quarta
Convenzione di Ginevra".
La Risoluzione fu approvata con quattordici voti
favorevoli e zero
contrari. Clinton si astenne, forse non volendo
opporre il veto ad uno dei
principi centrali del diritto internazionale in
materia umanitaria,
specialmente alla luce delle circostanze in cui
questa Convenzione fu
ratificata: per criminalizzare formalmente le
atrocità dei nazisti. Ma
anche tutte queste cose sono state rapidamente
riposte nel dimenticatoio,
offrendo così un ulteriore contributo ad
"agevolare il terrore".
Finché non si permette a queste questioni
di entrare nella discussione, e
finché non se ne comprendono le implicazioni,
è insensato invocare un
"impegno statunitense nel processo di pace",
e le prospettive per un'azione
costruttiva sono destinate a rimanere sconfortanti.
(Traduzione dall'americano di Sabrina Fusari -
Associazione PeaceLink -
www.peacelink.it)
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