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Rivalutiamo anche la retorica

articolo apparso su La Repubblica, 27 giugno 2000 - di Benedetta Craveri

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La retorica? Bisogna rivalutarla - Milletrecentocinquantanove pagine affidate al sapere di ventiquattro studiosi provenienti dai vari paesi d'Europa costituiscono la summa erudita dell'Histoire de la rhétorique dans l'Europe moderne, 1450-1950 (Paris, Presses Universitaires de France, 498 Ff), un'opera che si impone all' attenzione di chiunque si interroghi tanto sulle radici comuni della cultura europea che sui caratteri specifici delle culture nazionali. Ne è ideatore e curatore Marc Fumaroli che per primo ha rilanciato gli studi di retorica in Francia e ne ha ripristinato l'insegnamento, occupando al Collège de France una cattedra "dove la parola retorica figura per la prima volta dopo il XVI secolo". I saggi che compongono questo primo tentativo di una storia della retorica europea non parlano solo agli specialisti ma ci riportano al cuore dei grandi dibattiti attraverso cui si dipana, lungo cinque secoli, la storia della nostra civiltà letteraria. E nel fare appello alla gentilezza di Ezio Raimondi per guidarci lungo questo percorso, sapevamo che l'illustre studioso avrebbe difficilmente potuto sottrarsi alla nostra richiesta. L'ultimo capitolo delle sue Figure della retorica. Una storia della letteratura italiana, scritte in collaborazione con Andrea Battistini (Einaudi, 1984) non aveva come titolo "Rinascita della retorica?"? Probabilmente niente meglio dell'Histoire de la rhétorique diretta da Marc Fumaroli può oggi dar seguito a quella domanda. Professor Raimondi, cosa si intende innanzitutto per retorica? "Potrei rispondere con la definizione ormai classica del filosofo svizzero Michel Meyer: "La retorica, secondo la tradizione, è l'arte di parlar bene, di dar prova di eloquenza davanti a un pubblico per guadagnarlo alla propria causa. Dunque essa consiste, per così dire, in due momenti. Da una parte è l' arte di un parlare efficace nei confronti di qualcuno, dall' altra è l'insieme delle tecniche e lo studio delle tecniche attraveso le quali si persuade e si regola la propria parola per ottenere quest'effetto. È legata soprattutto all'idea dell'efficacia della parola su qualcuno e quindi è intrinseco alla retorica un rapporto"". Qual è stato il posto che ha occupato la retorica nel sistema educativo dell'Europa moderna? "La sua domanda richiede che si ritorni indietro nel tempo. Partiamo dal primo grande testo della retorica antica, la Retorica di Aristotele. È divisa in tre libri: il primo dedicato alle passioni sulle quali si deve operare; il secondo alle nozioni, i concetti, le verità possibili a cui si deve fare riferimento per ottenere il consenso; il terzo ai caratteri della parola, vale a dire lo stile, attraverso il quale il discorso deve misurarsi per fare effetto. Inoltre, non dimentichiamolo, interna alla retorica era la distinzione in tre generi: il deliberativo, il giudiziario e l'epidittico o dimostrativo. I primi due generi indicano già nei propri termini la loro precisa funzione pubblica e mostrano chiaramente come l'educazione antica, la retorica, fosse un'educazione all'uomo pubblico. Con la fine del mondo antico e il costituirsi del mondo medievale che propone nuove forme di civiltà e di organizzazione - la città, l'università, etc. -, assistiamo alla ripresa della retorica, come pure alla ripresa della classicità, in rapporto a nuove funzioni che sono, da una parte, quelle pubbliche e dall'altra quelle, in senso più lato, di educazione letteraria". Esiste una sola retorica, quella classica, oppure ogni civiltà ha la sua? "Il libro di Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e medioevo latino, un'opera apparsa nel 1948, a cui si riferisce più volte anche Fumaroli, cercava di dimostrare che la retorica classica, nel suo massimo di possibilità, è una sorta di radice di quella che chiamiamo l'Europa letteraria e civile, almeno fino al tempo di Goethe, fino alla rivoluzione romantica. Se le cose stanno così, e mi sembra che Fumaroli confermi questa ipotesi, esiste innanzitutto una retorica classica che si trasforma nel tempo, che si adatta a nuove situazioni, che interpreta nuove circostanze, che risponde a nuovi bisogni. Per un verso, dunque, esiste una retorica una e, per un altro, una retorica molteplice". Veniamo al caso italiano, poiché è nel nostro paese, come illustra il saggio di Cesare Vasoli, L'umanesimo retorico in Italia nel XV secolo, che prende l'avvio la rinascita della retorica classica. "Ciò che chiamiamo l'Umanesimo, è la riscoperta di una humanitas, di un senso diretto dell'uomo e della sua vita concreta nella società e nella città definito in primo luogo attraverso la parola. La parola, quindi, come fondatrice dell' umanità ed elemento principale della costruzione della civitas umana, in contrapposizione al formalismo scolastico medievale, vale a dire a una filosofia dell'astrazione che sembra dimenticare la presenza dell'uomo. Quindi la retorica diventa tutt'uno con la sapienza della parola che fonda i valori dell'umano, della società e della storia. Se nel mondo moderno la filosofia e la scolastica avevano ereditato la polemica della retorica intesa come luogo della non verità, della sofistica, gli umanisti ridanno alla retorica uno spazio e una funzione di scoperta della verità dell'uomo. La verità dell' uomo che parla, intesa non soltanto come qualcosa di permanente ma di probabile, che muta nel tempo e che però ha una sua verità storica e una sua storicità di valore". Nel Cinquecento - come mostra il saggio di Alain Pons - l' Italia inaugura una nuova branca della retorica, quella delle buone maniere. A quali necessità risponde? "Tra Quattro e Cinquecento si assiste al passaggio dal mondo latino ai mondi nazionali e nasce la teoria dell'élite. La retorica ha un ruolo essenziale nel creare quello che un sociologo moderno chiamerebbe il principio della distinzione. È specifico della parola il valore dell'urbanitas, legato alla città e contrapposto alla rusticitas, a ciò che viene dalla campagna. Nasce, insomma, l'antropologia moderna, vale a dire l'analisi dell'uomo anche nella sua soggettività". Perché il Seicento italiano è apparso come un'età di decadenza dove tutto finsice in retorica? "A poco a poco, tra Cinque e Seicento, l'analisi della parola si sottrae a quelli che sono i riscontri di un'etica comune e mette invece in primo piano la libertà della parola come parola. È però difficile dire che si tratti per la retorica di decadenza. Pensiamo, per il Seicento, allo spagnolo Balthasar Gracián e al nostro Emanuele Tesauro, nella cui riflessione la parola viene portata alla sua funzione simbolica e l' idea della metafora diventa tutt' uno con l'idea dell'uomo". Giunta al suo culmine l'età barocca, la retorica conosce, però, con il Settecento una crisi profonda che culminerà con la condanna romantica. Perché? "Il pensiero illuministico interpreta ragioni che non sono solo quelle degli intellettuali, ma anche del nuovo mondo borghese dove la verità è ciò che appartiene al concreto, è il fondamento della società dell'uomo. Qui la vecchia istanza umanista si lega soprattutto all'idea di una filosofia come luogo del vero, a fronte della quale la retorica è soltanto un'arma dell' inganno e della menzogna. È una contrapposizione questa, tra retorica e filosofia, che risale alla polemica di Platone con i primi maestri di retorica, i sofisti; una polemica destinata a ripetersi nel tempo e a riemergere anche nella cultura dei Lumi". Contro la retorica non insorgono anche le ragioni del cartesianesimo e della ricerca scientifica che, anziché persuadere, vogliono ora dimostrare? "Il vecchio sapere fondamentalmente aristotelico era stato oppugnato attraverso il Cinquecento e i primi del Seicento dall'avvento di una nuova scienza, quella galileana e matematica, che trovava poi con Cartesio la sua grande codificazione anche in Francia. La contrapposizione tra il sapere come tradizione che ripeteva se stessa e il sapere come innovazione, come ricerca della così detta "terra incognita", portava fatalmente a una scienza antiretorica. Anche se poi è vero, come appare in tanti dei saggi raccolti in questa Storia della Retorica, che l'atteggiamento antiretorico nei confronti della retorica comportava una sua interna retorica. Quanto più lo scienziato è anche uno scrittore che codifica una nuova esperienza - pensiamo a Galileo e a Cartesio -, tanto più egli è un propagandista, un comunicatore di ciò che ha scoperto". Per un singolare paradosso, come emerge dal saggio di Aurelio Principato, la Rivoluzione francese sembrerebbe incapace di forgiarsi una nuova retorica. Quali possono esserne le ragioni? "Non dimentichiamo che gli illuministi vengono da una formazione di scuola, che è sovente quella dei Gesuiti, dove retorica e teatro sono intimamente congiunti. Gli oratori della Rivoluzione usano su nuovi valori le grandi categorie che vengono dal passato, perché la retorica antica, nella sua dimensione pubblica, era un'arte delle passioni che procedeva attraverso la passione. Ed è anche vero che più che un teatro della Rivoluzione, creato in modo riflesso, è la Rivoluzione stessa il luogo del teatro dove troviamo ancora una serie di strumenti, elementi, categorie dell'antica retorica inverata in una sorta di capovolgimento della situazione. La nuova scoperta della retorica della Rivoluzione era, invece, l'efficacia di un linguaggio che faceva appello all'emozione profonda suscitata dalle grandi parole comuni - libertà, fraternità, eguaglianza -, da grandi astrazioni che diventavano però passione personale, decisione di vita e scelta del proprio destino". Con il Romanticismo la retorica è costretta a cedere il passo all' estetica. Cos'è successo? "Nella Critica del giudizio Kant aveva dato una definizione profondamente negativa della retorica come tecnica della manipolazione fondata sulla debolezza dell' uomo a raggiungere la verità. Comincia così una sorta di dicotomia tra quello che è il mondo della nuova letteratura e delle sue nuove indagini attraverso la parola e quella che era la vecchia retorica. La fortuna dell'estetica come nuovo modo di affrontare il mondo della parola e della creazione verbale sancisce la sfortuna della retorica. E però, a prendere tante pagine di Schlegel, che è uno dei grandi progettisti di un'idea romantica della letteratura, e del mondo fantastico, la retorica ricompare ancora, sia pure in un sistema di significati diversi da quelli della tradizione. Così, quando Schlegel afferma che bisogna sbarazzarsi dell'armamentario retorico della mitologia antica per inventare una nuova mitologia che nasca dal profondo del cuore e però nel fondo della parola, quanto più essa diventa individuale e irrepetibile, egli propone altre ragioni, che sono ragioni umane e che lasciano vivere in un nuovo quadro la retorica". Arlette Michel sostiene che il Romanticismo, scuotendo il gioco scolastico della retorica, ne conserva solo gli elementi comuni con la poetica. "È evidente che nel momento in cui la cultura romantica si appunta sul valore della parola e sulla sua funzione di interiorità e di scoperta dell'io, quella che chiameremmo la dimensione pubblica della vecchia tradizione viene messa da parte. Il poeta, anche quando è un profeta, parla in primo luogo a se stesso, il suo dialogo è un dialogo interiore e ciò che era preminente nella retorica, i comportamenti collettivi, viene cancellato o passa nell'ombra. Così la retorica viene squalificata, diventa il luogo dell'ornamento convenzionale, dei così detti luoghi comuni da cui, per essere originale, la poesia deve affrancarsi". Ciò che accade ai livelli alti e profondi della filosofia e della letteratura non intacca però la consuetudine scolastica e l'insegnamento della retorica si prolunga in Italia come in Francia fino all' inizio del nostro secolo. Cosa determina la sua cessazione? "La soppressione dell'insegnamento della retorica, speculare a quello della logica, va visto alla luce dell'avvento di una mentalità storica che rappresenta uno dei trionfi della coscienza e della cultura dell'Ottocento. La retorica si portava al suo interno una teoria delle circostanze, cioè del contingente, ma erano i modelli immutabili e ciclici a prevalere sul mutamento. Nel momento, invece, in cui i contesti diventavano preminenti, la retorica cessava di essere un insegnamento della parola per cui questa codificazione cessava di essere necessaria". Difensore appassionato della retorica, Fumaroli polemizza con i suoi detrattori antichi e moderni e ne esalta la funzione mediatrice, direi quasi maieutica. Essa dà "a tutto quello che l'uomo sa, e persino a ciò che eccede il suo sapere, una forma e un senso che lo illuminano e lo rendono un po' meno opaco a se stesso". È così? "Fumaroli vede nella retorica un luogo vero della nostra humanitas, vale a dire di ciò che è permanente nell'uomo anche attraverso il modificarsi delle ragioni storiche. La retorica è per lui una sorta di fondazione dell'uomo, tanto più importante nel momento in cui guarda a quella che potremmo chiamare la spettacolarizzazione effimera del nostro presente e una sorta di oralità che brucia di continuo se stessa". Tanto Antoine Compagnon, nel saggio conclusivo del volume, che ha come titolo La riabilitazione della retorica nel XX secolo, quanto Marc Fumaroli nella postfazione, parlano di una rinascita di interesse per la retorica che in Italia ha avuto lei, professor Raimondi tra i suoi primi e più autorevoli promotori. Potrebbe illustrarcene le ragioni? "Fumaroli prende atto di ciò che desidera ma anche di ciò che è accaduto. Negli anni '60, la "svolta linguistica" delle "scienze umane" sembrava per un verso cancellare la retorica e fare del modello linguistico scientifico una sorta di paradigma assoluto. Dall'altro, attraverso quel ritorno alla parola, come osserva giustamente Fumaroli, si rifacevano anche le ragioni della retorica e la necessità di nuovo di un' analisi del linguaggio umano non semplicemente come insieme di forme, ma come luogo della passione e del dialogo. Non dimentichiamo, inoltre, che nel 1960 usciva di Gadamer, Verità e metodo, un libro dedicato all'ermeneutica dove si legavano insieme ermeneutica e retorica. Da quel momento inizia davvero una ripresa d'interesse per la retorica quando più il discorso letterario viene ricondotto al discorso umano e quanto più si scopre che i così detti "luoghi comuni" debbono essere approfonditi e visti dall'interno, perché in essi si annida qualcosa che muore e continua a vivere, che è dunque il luogo del nuovo e non di ciò che è antico e che si è ripetuto. È anche vero che nel momento in cui la filosofia rinunzia alla pretesa dell'assoluto e comincia a sentirsi come discorso - e come discorso non soltanto letterario -, anche la retorica diventa un elemento essenziale del proprio indagare e del proprio farsi. Sono ugualmente gli anni in cui si riscopre la funzione della memoria a cui la retorica è anche così intimamente connessa. E dunque si danno tutta una serie di fenomeni e di ragioni che riportano la retorica all'interno di un quadro dove essa diventa un elemento fondamentale di quella che potremmo chiamare un'antropologia moderna. C'è un altro elemento su cui Fumaroli insiste. La retorica, con i suoi strumenti che qualche volta appaiono arcaici, è un'antropologia specifica di ciò che è specifico all'uomo, cioè la parola, e come tale diventa uno strumento interdisciplinare, un modo di analisi dei comportamenti dell'uomo senza doverli ricavare da altre discipline ma, anzi, legittimandoli con una forza propria e antica". Ma fuori dal mondo della ricerca e degli studi, che utilità potrebbe avere la retorica nell'educazione dell'uomo d'oggi? "Se la retorica è una dottrina della parola e delle sue interne possibilità in quanto rapporto con l'altro, e se voglio far crescere uno spirito critico, debbo far crescere anche una sensibilità della parola in questa sua funzione pubblica: per sottrarmi alle manipolazioni la debbo conoscere. E dunque la retorica è, da questo punto di vista, una sorta di elemento di terapia. Essa si congiunge alla razionalità per potere scrutare la parola nelle sue intenzioni e nella sua funzione, implicita o esplicita, di potere. Se la parola, nella sua dimensione pubblica, vuole persuadermi di qualcosa o a qualcosa, come debbo saperla analizzare perché nei suoi contenuti non mi imponga qualcosa che vada al di là della mia stessa libertà e consapevolezza? Senza una conoscenza della parola e delle astuzie che ne reggono i rapporti intersoggettivi, diventa difficile oggi pensare, se ha ancora un senso, a uno spirito critico di tipo democratico. In un momento in cui le certezze assolute sono venute meno; in un momento in cui si definiscono province del sapere, nessuna delle quali è predominante e dove vale la necessità del rapporto e del capire, cogliere il senso interno delle parola e della sua funzione strumentale o finale è un'esigenza irrinunciabile. E, in questo caso, l'educazione linguistica è tutt'uno con la retorica". July, 2000

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