GIUSTIZIA FUGA DI NOTIZIE PILOTATA SULL'INCHIESTA CATANESE
Gli abitanti del pianeta mafia: magistrati, carabinieri...
...pentiti e imprenditori. La Procura chiede sei custodie cautelari
- GUIDO RUOTOLO - ROMA
D a due mesi la procura di Catania ha chiesto
i loro arresti per fatti di mafia, per aver aiutato Cosa nostra,
per aver inquinato le prove, per aver intascato soldi in cambio
di favori, per aver contribuito a fare a pezzi - ove ce ne fosse
ancora bisogno - il contributo dei collaboratori di giustizia
nella lotta alla mafia. Da due mesi, il gip di Catania tiene sulle
spine investigatori e inquirenti e, soprattutto, i diretti interessati
che ormai sanno tutto. Dopo due mesi, una fuga di notizie pilotata
tenta di intorbidire ancora di più il clima, visti i protagonisti.
La procura di Catania, infatti, ha chiesto al gip sei misure di
custodia cautelare (quattro in carcere, due domiciliari) nei confronti
del sostituto procuratore nazionale antimafia Giovanni Lembo,
dell'ex presidente di Corte d'appello Marcello Mondello, dell'imprenditore
messinese Santi Travia, di un maresciallo del Ros, Antonio Princi,
dei pentiti Giuseppe Chiofalo e Cosimo Cirfeta, gli stessi coinvolti
nella inchiesta che ha portato la procura di Palermo a chiedere
alla camera l'autorizzazione all'arresto di Marcello Dell'Utri
per calunnia.
Un magistrato della procura nazionale antimafia, un (ex) presidente
di Corte d'appello, un maresciallo del Ros dei carabinieri, due
pentiti, un imprenditore mafioso. Uno spaccato di una società
"collusa", un meteorite che si è staccato da quel pianeta
fatto di mafia, antimafia, magistratura e forze dell'ordine e
che rischia di precipitare e di devastare quel già malconcio
sistema "giustizia". Le accuse nei confronti dei sei indagati
sono pesantissime: per i due magistrati, Lembo e Mondello (e per
l'imprenditore Travia) sono quelle di concorso esterno in associazione
mafiosa, omissioni e abusi in atto d'ufficio, inquinamento delle
prove; per il maresciallo del Ros, inquinamento delle prove, per
i due pentiti Chiofalo e Cirfeda, calunnia.
Messina il "verminaio" è l'epicentro di questa storia
che lambisce anche Reggio Calabria, ma solo perché lì
vi sono state sponde nel palazzo di giustizia. La "gestione" di
un "falso" pentito, Luigi Sparacio, è l'oggetto, la sostanza
di questa inchiesta catanese.
Dunque, la fuga di notizie. Sconcertante che il procuratore
di Catania Mario Busacca confermi implicitamente l'oggetto dello
"scoop" al giornalista, lamentandosi del ritardo del gip nel decidere
sul merito delle richieste della procura. E ieri, Busacca telegrafico
conferma: "Io e i miei magistrati siamo sereni". Imbarazzata è
la replica del procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna:
"La notizia è rimasticata, era nota da tempo. Confido molto
nel principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza,
soprattutto trattandosi di un collega. Su sua richiesta, ho esonerato
Giovanni Lembo da qualsiasi attività che riguarda la Sicilia".
Giusto ribadire che fino a sentenza passata in giudicato, Lembo
è innocente. Come tutti sono innocenti, povericristi e
potenti, fino a quando non saranno condannati definitivamente.
Il punto, l'imbarazzo di Vigna, è che i guai giudiziari
del suo sostituto sono noti da tempo. Almeno da quel 22 novembre
del 1997 quando un avvocato messinese, Ugo Colonna, ha presentato
la sua denuncia alla procura di Catania lamentandosi dei comportamenti
tenuti dai sostituti antimafia di Messina Giovanni Lembo e Carmelo
Marino nella gestione del collaboratore di giustizia Luigi Sparacio.
L'esposto di Colonna, dettagliatissimo, è stato "riscontrato"
dai pm catanesi tant'é che già il 6 agosto del 1998
il gip Alfredo Gari procedeva all'arresto del falso pentito Luigi
Sparacio.
Già allora, già in quell'agosto del '98, era chiaro
che Lembo, Mondello e altri magistrati di Messina (come il pm
antimafia Carmelo Marino) e Reggio Calabria (come il pm antimafia
Francesco Mollace) erano indagati, compromessi dalle accuse. Emergeva,
già allora, che Lembo e Mondello con i loro comportamenti
favorivano la strategia del falso pentito, e dunque di Cosa nostra.
In sostanza, Sparacio (ufficialmente pentito dal 14 gennaio del
1994) consegnandosi allo stato e dichiarandosi collaboratore,
in realtà voleva mantenere in vita il suo clan, le sue
attività (estorsioni, usura, riciclaggio, bische clandestine).
E l'inchiesta che ha portato al suo arresto ha svelato i dettagli
di questa sua strategia. Ha documentato la colpevole "patente
di credibilità" del pentito fornita dai magistrati, ha
rivelato che a Sparacio non solo furono restituiti i suoi beni
(valore: venti miliardi), che erano stati sequestrati. Ma che
durante la sua "collaborazione", il servizio di protezione gli
versò "contributi" al di sopra degli stipendi medi per
i collaboratori. E che, per rispettare questa strategia, i giudici
compiacenti si impegnarono a "sottovalutare" le accuse di altri
collaboratori che venivano dal clan Sparacio e che lo stesso boss,
nonostante "protetto", ricattava e minacciava i suoi ex affiliati
pentiti. Inoltre, che Sparacio passava a riscuotere il pizzo dalle
sue vittime e a riunire il suo clan nonostante seguito dai suoi
"angeli custodi" di stato.
L'avvocato Colonna è rimasto colpito dalle anticipazioni
di stampa: "Questa non è la solita storia di pentiti -
commenta amaro - intesa come imprudente valorizzazione di un soggetto,
Sparacio, che non meritava la qualifica di collaboratore. In realtà,
in questo caso la nascita del falso collaboratore è stata
agevolata consapevolmente da quei magistrati che gestivano in
prima persona Sparacio. Non solo credo che nessuno dei magistrati
che oggi si dice essere indagati pagherà, ma temo che anche
i soggetti in carcere, Sparacio e gli esponenti del mondo imprenditoriale
messinese, escano a breve per decorrenza dei termini".
Ma cosa è successo nell'ultimo anno, da quando è
stato arrestato Luigi Sparacio e, in qualche misura, l'inchiesta
era diventata nota, l'accusa giocava a carte scoperte? Che Giovanni
Lembo ha cercato in tutti i modi di inquinare le prove, di intimidire
i testi dell'accusa, di costruire false accuse nei confronti dell'avvocato
Colonna. Addirittura, sembra che il sostituto procuratore nazionale
antimafia non abbia saputo giustificare la provenienza sospetta
intanto di cinquanta milioni trovati in qualche suo conto bancario.
Compromesso e sempre di più con le spalle al muro, il
sostituto Lembo non ha ritenuto di doversi dimettere, di salvaguardare
almeno l'ufficio, la procura nazionale. E forse l'anticipazione
stampa di ieri serviva proprio a questo. A pretendere un sussulto
di dignità, di rispetto delle istituzioni da parte di un
magistrato che deve rispondere del suo operato ad altri magistrati.
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