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articolo d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili

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Girodivite - n° 55 / luglio-agosto 1999 - Pacifismo, dossier Kossovo

Tutte le ragioni della guerra

di Marco Berlinguer. - articolo giuntoci tramite email dalla rete pacifista italiana.

Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità; accontentiamoci di dire la ricerca della verità. Comunque pochi sentono la necessità di farsi domande scomode. C'è una guerra, di nuovo, nel cuore dell'Europa. Un fondamento, un tabù, dell'Europa di questa seconda metà del secolo è abbattuto. Principi costituzionali e anticorpi politici e morali sono stati ridotti a niente nel volger di un giorno, con decisioni dei governi prese prima e senza un mandato parlamentare, prima e senza che si aprisse all'interno dei paesi un dibattito minimamente all'altezza della gravità del passo. Cos'altro potevamo fare? Questa è la giustificazione delle classi dirigenti europee, delle socialdemocrazie, e dei tanti intellettuali che hanno scelto di solidarizzare con questa avventura: c'era una tragedia umanitaria in Kosovo e l'intransigenza di Milosevic ha impedito ogni soluzione politica. Sono due mezze verità, ma insieme danno non la spiegazione, ma un argomento che manca di ogni credibilità. Dire che ogni altra opzione era stata tentata e che il bombardamento era la sola opzione è semplicemente un non senso. E con la guerra l'odio tra serbi e kosovari (e albanesi) è esploso senza freni, dissolvendo ogni già debole speranza di un futuro di rapporti pacifici.

UNA TRAPPOLA DI MILOSEVIC Se questi erano i fini, i risultati sono disastrosi. E questo è sotto gli occhi di tutti. Resta la possibilità di pensare che si sia trattata di un'avventura mal congegnata. Al limite persino di una trappola costruita da Milosevic. È la tesi, tra l'altro, proposta da Stefano Bianchini. Che i serbi fossero tutt'altro che impreparati è verosimile. Hanno reagito con immediatezza, come se avessero già pianificato da tempo una strategia: probabilmente quella di preparare una spartizione del territorio del Kosovo. Gli americani però lo sapevano: era scritto in un rapporto della CIA. Glielo avevano detto i loro "satrapi" europei? La verità è che cercare sullo scacchiere della guerra civile dei Balcani una spiegazione convincente di questa guerra trascina in contraddizioni violente. È gioco forza farsi altre domande. Partendo da due assunti: che gli USA non intervengono militarmente dappertutto e a caso; e che gli ambienti in nome dei quali parla Clinton, come ha scritto Francis Cohen su L'Humanitè, ragionano a lungo termine e su scala planetaria.

IL CORRIDOIO OTTO Partiamo ancora dallo specifico. In termini economici diretti la zona dei Balcani, soprattutto una volta tolte la Croazia e la Slovenia, è marginale, come ha rilevato Warllerstein. Salvo un fatto che ha ricordato Calchi Novati su il Manifesto: il famoso corridoio 8 pianificato da tempo, che dovrebbe in prospettiva portare dalle regioni ex-sovietiche l'energia fino all'Adriatico, passando per Bulgaria, Macedonia e Albania. Sul controllo di queste risorse e delle infrastrutture che le devono trasportare è già in corso una guerra sporca contro la Russia, in una zona che va dal Caucaso all'Asia ex-sovietica, al Kurdistan, con la Turchia chiamata a svolgere un ruolo di perno regionale degli interessi strategici americani. Lo sblocco del progetto, che dovrebbe essere finanziato da capitali privati, è però condizionato da questi alla costruzione di un quadro politico e giuridico "stabile". Questa guerra è perciò anche un avvertimento alla Russia.

GLI INTERESSI USA Ma questo stesso discorso si può allargare. Sulla base di una lettura attenta dei più recenti documenti del Pentagono e dell'Amministrazione Clinton, infatti Klare, su The Nation, ha mostrato come l'attuale bombardamento della Serbia sia parte di una più larga visione strategica. Questi documenti disegnano una nuova dottrina strategica di vasto raggio, adeguata alla difesa dei rapporti capitalistici in quest'epoca di latente crisi della globalizzazione. Partono da un giudizio pessimistico sul clima internazionale e sulla sicurezza degli interessi dei "cittadini americani" nel mondo e indicano agli USA, per mantenere la "stabilità", la necessità di attrezzarsi a intervenire con le forze armate "contemporaneamente in più parti del globo"; insieme ai più fidati alleati, raccomandano, per dividere i costi (e si potrebbe aggiungere, migliorare la bilancia commerciale vendendo armi) e per evitare l'isolamento. A ben vedere, anche il MAI, l'accordo multilaterale sugli investimenti, per il momento bloccato, rientrava in questo quadro: dovendo fornire la base giuridica di questo interventismo militare "dovunque i propri interessi siano minacciati", e non dovunque ci siano tragedie umanitarie in corso. In modo del tutto conseguente l'ultimo bilancio statunitense ha stabilito un aumento elle spese militari per centododici miliardi di dollari nei prossimi sei anni, tutti destinati ad armi di proiezione esterna. Meno pubblicizzato, ma non meno importante è il progetto di conversione della Nato, da organizzazione difensiva in strumento di "polizia" globale, o più precisamente in una zona che va dall'Est Europa, al Medio oriente, all'Eurasia. In perfetta solitudine gli USA hanno già approntato un documento in tal senso che dovrebbe essere approvato in occasione delle celebrazioni del 50° anniversario della Nato a Washington alla fine di Aprile. Intanto la riforma nei "modelli di difesa" dei paesi europei, che prevedono eserciti professionali e armamenti per la "proiezione esterna", sta già preparando questo stravolgimento.

L'ONU FUORI GIOCO Il bombardamento della Serbia ha completato l'opera, realizzando altre due condizioni: la definitiva delegittimazione dell'ONU, sistematicamente perseguita dagli USA in questi ultimi anni; e la rottura degli indugi delle classi dirigenti europee. Che hanno fatto la loro scelta: quella della subalternità e dell'internità al progetto USA. Secondo Halevi, questa scelta poggia su una alleanza tra USA e Germania. Certamente la Germania incassa molto: l'eliminazione di ogni stato forte nella zona dei Balcani, una sua rilegittimazione come potenza regionale anche militare; probabilmente una compartecipazione con gli USA alle decisioni e ai progetti concernenti l'assetto dell'Asia centrale. La Francia ne esce indebolita. Per l'Italia, invece, è semplicemente la contraddizione di tutta la sua politica estera ne Balcani (basta leggere quel che è stato scritto in una rivista come Limes per convincersene). Adesso non le resta che fare da portaerei in conto terzi.


Released online: September, 1999


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