articolo
d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili |
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Girodivite - n° 55 / luglio-agosto 1999
- Pacifismo, dossier Kossovo
Kosovo
di ignacio ramonet. - Da: Le Monde Diplomatique, aprile 1999.
I popoli dei Balcani continuano a pagare a caro prezzo la cecità
dell'Occidente, che nel 1991 ha tollerato la precipitosa disgregazione,
condotta dai nazionalisti, dell'ex Jugoslavia. Come è stato possibile
prendere una tale cantonata, che secondo alcuni è "il più grosso errore
collettivo dell'Occidente in materia di sicurezza dagli anni 30" (1)?
Un errore costato più di centomila morti, che si sarebbe potuto evitare
(2). Dopo il 1945 Tito, capo della Resistenza, aveva rinsaldato i legami
tra i popoli dell'ex Jugoslavia, malgrado le violenze commesse durante
la guerra, in particolare dagli ustascia croati e dai cetnici serbi.
Dimostrando l'assurdità della tesi dell'"odio ancestrale", Tito ha scommesso
sulla coesione. Diceva: "La Jugoslavia ha sei repubbliche, cinque nazioni,
quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo partito". Dopo
la sua morte, nel 1980, venne meno anche l'autorità del partito comunista,
che aveva saputo tener testa all'Unione sovietica e costruire la "patria
dell'autogestione operaia". Il principio di una presidenza a rotazione,
della durata di un anno, attribuita a turno a ciascuna delle sei repubbliche,
indebolì la Federazione. A tutto questo è venuta ad aggiungersi la crisi
del debito estero, che ha provocato migliaia di scioperi e forti tensioni
tra le regioni ricche (Slovenia e Croazia) e le altre. Queste discordie
favorirono il riemergere degli egoismi nazionalisti, attizzati dai media.
Nelle sue Memorie, un ex ambasciatore a Belgrado ricorda: "Il virus
della televisione ha diffuso l'odio interetnico in tutta la Jugoslavia
come una epidemia. Un'intera generazione di serbi, bosniaci e musulmani
è stata incitata a detestare i propri vicini dalle immagini televisive
(3)". Un altro testimone annota: "Dopo aver visto la radiotelevisione
di Belgrado negli anni 1991-1992, posso comprendere perché i serbi di
Bosnia sono arrivati a credere che rischiavano di essere vittime degli
ustascia o dei fondamentalisti islamici. Era come se in America tutta
la tv fosse controllata dal Ku Klux Klan (4)". Quando, nel 1989, in
occasione del sesto centenario della sconfitta serba da parte dei turchi,
Slobodan Milosevic pronunciò nel Kosovo un discorso carico d'odio davanti
a un milione di persone, suscitò una fiammata di fanatismo nazionalista.
Altri demagoghi Franjo Tudjman in Croazia e Alja Izetbegovic in Bosnia
risposero con toni altrettanto razzisti. I paesi occidentali, inebriati
dalla caduta del muro di Berlino e dalla vittoria militare nel Golfo,
non seppero impedire il disastro. La Germania giunse persino a incoraggiarlo,
affrettandosi a riconoscere l'indipendenza della Slovenia e della Croazia.
Il 27 giugno 1991 scoppiò la guerra di Slovenia, seguita da quelle di
Croazia e Bosnia, con la loro scia di crimini. L'Unione europea si rivelò
immatura e incapace di cogliere l'occasione per affermarsi, sul suo
stesso continente, come una potenza capace di imporre la pace, se necessario
con la forza. Nel 1995 gli Stati uniti ristabilirono con gli accordi
di Dayton una pace troppo fragile, come dimostrano gli avvenimenti attuali.
Il Kosovo, la cui popolazione è costituita per il 90% da albanesi (musulmani
e di discendenza non slava) è una regione povera, che detiene il record
della sottoccupazione e dell'analfabetismo. E' inoltre una regione sovrappopolata:
2 milioni di abitanti per 10.900 kmq, un tasso di natalità del 40 per
mille e una popolazione estremamente giovane (più del 50% di età inferiore
a 20 anni). La costituzione del 1984 le aveva concesso lo statuto di
provincia in seno alla Serbia, con un grado di autonomia che la assimilava
a una repubblica, dotata di diritto di veto. Questo statuto fu abolito
da Slobodan Milosevic nel 1989. I kosovari, privati dei loro diritti,
hanno inoltre subito gli attacchi di gruppi fascistoidi provenienti
da Belgrado, sostenuti dalla polizia e dall'esercito, che cercavano
di provocare un esodo di massa. A fronte di questi eventi, la strategia
della Lega democratica del Kosovo di Ibrahim Rugova eletto "presidente
della repubblica" in occasione di elezioni dichiarate illegali da Belgrado
consisteva nel costruire pacificamente una società parallela, con l'obiettivo
di sostituirsi allo stato. Ma una formazione assai più radicale, l'Esercito
di liberazione del Kosovo (Uck), emersa in piena luce da circa un anno,
moltiplica gli attentati e reclama l'indipendenza. Gli scontri hanno
provocato la morte di circa 2.000 kosovari, la distruzione di 300 villaggi
e l'esodo di oltre 300.000 profughi. Sotto la minaccia degli attacchi
aerei della Nato, Milosevic ha firmato, nell'ottobre 1998, un accordo
con il quale si impegna a ritirare il proprio esercito e autorizza l'Organizzazione
per la sicurezza e la cooperazione europea (Osce) a insediare nella
regione la Missione di verifica del Kosovo (Mvk) con circa 1600 osservatori
non armati. Ma questo accordo non ha impedito che nel gennaio scorso
si verificasse una nuova esplosione di violenza. L'Unione europea ha
giustamente rifiutato l'indipendenza del Kosovo. Sarebbe irresponsabile
incoraggiare il frazionamento dell'Europa in micro-stati, e soffiare
sul fuoco nella regione (un altro focolaio è quello della Macedonia,
la cui popolazione comprende una minoranza albanese del 30%). Ma l'Ue
ha anche ragione di esigere che Belgrado revochi l'abolizione dello
statuto del Kosovo. La via d'uscita sarebbe un accordo che riconosca
a questa regione una più ampia autonomia in seno alla Serbia, se non
alla Jugoslavia. Un accordo del genere, senz'altro auspicabile, avrebbe
però un senso soltanto se l'Europa, con il sostegno della Nato e degli
Stati uniti, si dotasse dei mezzi per imporre, in Serbia come nel Kosovo,
un regime democratico. Ma fintanto che i due schieramenti saranno dominati
dagli ultranazionalisti, reclamare un accordo del genere può essere
soltanto l'espressione di un pio desiderio. O di una grande ipocrisia.
note:
(1) Cfr. Richard Holbrooke, "El mayor fracaso colectivo de Occidente",
Politica exterior, Madrid, gennaio-febbraio 1999.
(2) Leggere Catherine Samary, "La resistibile scomposizione del puzzle
jugoslavo", le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 1998.
(3) Warren Zimmermann, Origins of the Catastrophe, Yugoslavia and
its Destroyers, Times Books, New York, 1996. (4) Noel Malcolm, Bosnia:
a Short History, New York University Press, 1994.
Released online: September, 1999
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